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Autore: VigilanzaCostante    16/08/2021    9 recensioni
«Il mio invito si deve essere perso da qualche parte, ma non potevo mancare a questo grande evento mondano».
Un brivido percorse la schiena della rossa, mentre si girava a guardare la sua interlocutrice. Pansy Parkinson indossava un semplice tailleur ma non poteva passare inosservata. Non con quel rossetto rosso sulle labbra carnose, non con quel sopracciglio sempre inarcato a mo’ di provocazione.
|Ginny/Pansy
|Questa storia partecipa al contest "I will Go Down With The Ship" indetto da BellaLuna95 sul forum di EFP
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Crack Pairing | Personaggi: Ginny Weasley, Pansy Parkinson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
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What-if, epilogo alternativo.
Questa storia partecipa al contest “I will go down with this ship” indetto da BellaLuna95 sul forum di EFP
 


 
«Siamo meteorite» mi avevi detto a mo’ di giustificazione dopo una litigata. Non capivi che non avevo bisogno di distruzione ma di rinascita. E non ero sicura che tu fossi in grado di darmela. Eppure, avevamo costruito tanto: un rapporto tra le macerie della guerra, un legame al di là degli stendardi di case diverse, promesse sibilate a denti stretti per non darla vinta all’orgoglio.
Siamo meteorite, mi avevi detto, e a pensarci per davvero, andava bene così. Perché quello che c’era tra noi, qualunque cosa fosse, era passionale, dirompente, straripante. E a me, che sono nata in una famiglia di uragani, non è mai piaciuta la calma piatta d’un mare senza onde.
 
Siamo meteorite
 
Alla fine, Molly Weasley aveva ottenuto ciò che voleva: il matrimonio di sua figlia e Harry Potter – quell’Harry Potter – si sarebbe tenuto alla Tana, come da tradizione.
Così sul volto di Ginny era dipinto un adorabile, ma costante, broncio mentre un’orda di gente era ammucchiata nel giardino di casa sua. Lei non era fatta per quelle cose. Amava la musica, la festa, amava anche ballare se era con la persona giusta, amava il calore e la compagnia. Ma sua madre, quando ci si metteva, era assillante, stressata, e logorroica. E Ginny avrebbe voluto un matrimonio tranquillo, al riparo dai vecchi ricordi e dai giornalisti. Da quegli stessi giornalisti che, con macchina fotografica e penna prendi-appunti, intervistavano e importunavano i primi arrivati. Quel matrimonio non era nemmeno iniziato e già si prospettava essere un inferno.
«Il mio invito si deve essere perso da qualche parte, ma non potevo mancare a questo grande evento mondano».
Un brivido percorse la schiena della rossa, mentre si girava a guardare la sua interlocutrice. Pansy Parkinson indossava un semplice tailleur ma non poteva passare inosservata. Non con quel rossetto rosso sulle labbra carnose, non con quel sopracciglio sempre inarcato a mo’ di provocazione.
«Non ci credo che hanno mandato proprio te al mio matrimonio, prima o poi darò fuoco alla Gazzetta del profeta» digrignò Ginny tra i denti.
«Mi sono offerta io e che dire…» fece ondeggiare i capelli neri a caschetto prima di indossare nuovamente quel sorriso ammiccante «sono molto brava in quello che faccio».
E non ne dubitava, non lo aveva mai fatto. Pansy era ambiziosa, velenosa e impicciona. Un connubio perfetto per colei che, più di tutti, sembrava intenzionata a perseguire le ombre di Rita Skeeter.
«E perché mai ti saresti offerta?».
«Per vedere quanto durerà la tua maschera da bambolina di ceramica, prima di crollare in mille pezzi» e rise d’una risata glaciale, meschina.
«Amo Harry, nessuna finzione Pansy. È la tua vita a esserlo, finta e vuota. Smettila di rovinare la mia».
«Ami Harry? Non dicevi questo qualche anno fa, non lo dicevi a me».
E faceva male perché era vero. Perché su quegli spalti, dopo la vittoria delle Holyhead Harpies, Ginny si era confidata con una Serpeverde che non le ispirava un briciolo di fiducia, per il semplice modo in cui la guardava. Pansy le aveva detto che si era fatta assegnare a quella partita di nicchia, pur non scrivendo generalmente di cronaca sportiva. Per lei. Perché aveva sempre voluto conoscerla, sin da quando lanciava fatture orcovolanti.
«Blaise ti moriva dietro e io ero gelosa, invidiosa e cattiva. Ma ho sempre voluto conoscerti e la guerra mi ha insegnato che la vita è schifosamente breve».
E come avrebbe potuto non affidarsi a qualcuno di così meravigliosamente schietto? Sciogliere la propria lingua e i propri nervi, e raccontare di come era stufa della sua vita e dell’uomo che forse non amava più e della famiglia che non voleva deludere e…
A posteriori, si pentiva di averlo detto. D’essersi aperta a trecentosessanta gradi, d’aver srotolato tutta la sua anima ed essersi fatta conoscere. Più di tutti si pentiva di averla amata. Di essersi fatta corrodere da quell’amore proibito, intenso e doloroso.
«Sei bellissima, comunque». E non c’era più ghiaccio nelle sue parole. Solo la cruda sincerità che in quel momento faceva male. Ginny non ebbe tempo di rispondere perché Pansy stava già girando i tacchi e raggiungendo i suoi colleghi. Lei era solo con un vestito bianco, i capelli tirati in una fastidiosa acconciatura, e nessuna voglia di salire su quell’altare.

***

A ragion del vero, Ginny ci teneva a precisarlo a se stessa, non aveva mai tradito Harry. Si erano lasciati, l’aveva lasciato, e per due lunghi anni aveva sentito sua mamma sospirare e gli occhi di Ron giudicarla. Non che ne avessero alcun diritto, ma aveva lasciato Harry Potter e ne doveva prendere le conseguenze.
Quello che c’era stato con Pansy era avvenuto molto dopo la chiacchierata sugli spalti. Dopo dieci drink al Shebar, dopo tante partite vinte e altrettante perse, dopo la rottura con Harry e la vacanza in Italia. Avevano imparato a scoprirsi, a sopportarsi in quelle continue litigate, in cui battibecchi inutili. Pansy era in grado di tenerle teste, e questo le piaceva in un modo che non riusciva nemmeno a spiegarsi. Le piaceva discutere, le piaceva rendere di tutto una gara all’ultimo sangue, le piaceva la gelosia di Pansy e la sua possessività irruenta.
«Vai dal tuo Potter e facciamola finita, no? Con lui era tutto più semplice» sibilava nei momenti di disperazione, quando non si capivano in nessun modo possibile.
«Non è lui che voglio» ed era vero. Non voleva accontentarsi, non dopo la guerra, non dopo tutto quello che le aveva portato via. L’adolescenza. Fred. La voglia di imparare.
E la guerra aveva distrutto anche Pansy, solo che lei prima non l’aveva mai saputo. O forse il suo dolore era ancora più profondo, veniva da più lontano. Forse arrivava da quei “faccia da carlino” schiamazzato dai ragazzi malevoli, forse arrivava da ciò che le avevano fatto i Carrow come monito a lei, e a tutti i Serpeverde, che anche loro dovevano obbedire delle regole. Che non dovevano seguire le altre case in quei moti di ribellione.
«Anche io voglio te, Weasley. Contenta, ora? Te l’ho detto, possiamo pure fare pace». E per fare pace le prendeva il viso tra quelle unghie smaltate e la baciava. Era morbida, e calda e le faceva girare la testa ogni volta. Le discussioni si infilavano sotto al materasso mentre loro si attorcigliavano tra le lenzuola.
Perché era finita? Perché era tornata da Harry? Forse perché quelle liti mai risolte avevano fatto ammuffire il letto, forse per i sospiri di sua madre o per i demoni che si ostinavano a pedinarle. Forse perché non riusciva ad ammettere a se stessa che non aveva più dodici anni, che non voleva più Harry. Forse perché si aspettava una meravigliosa e monotona vita, con tre figli da accudire e il Natale alla Tana.
Forse perché lei e Pansy erano due meteore, in grado di fare danni irreparabili.
«Siamo meteorite» le aveva detto a mo’ di giustificazione dopo una litigata. Ma, a distanza di anni, non si erano ancora schiantate al suolo
 
***

Stava attraversando la navata con tanti occhi puntati addosso, ma sentiva solamente quelle spille nere che dal fondo della sala non la lasciavano un secondo.
Pansy non si sarebbe alzata al “Parla ora, o taccia per sempre”, non avrebbe fatto grandi e folli gesti. Non era da lei. Erano in grado di buttare giù le fondamenta anche senza fare rumore, senza dichiarazioni plateali. Eppure, sentiva quello sguardo e voleva scappare. Scappare dai singhiozzi di sua madre, dal sorriso fiero di suo padre, dal volto di Bill tagliato dalle cicatrici e dall’affetto. Voleva scappare dagli occhi verdi di Harry Potter, luminosi e speranzosi all’idea di un nuovo inizio. Eppure, doveva deluderlo. Doveva farlo, per forza, perché quel vestito di zia Muriel le stava stretto, l’ossigeno sembrava non bastarle e gli occhi di Pansy Parkinson da in fondo la sala la trapassavano a metà. Doveva andarsene, perché quello non era il suo posto. Perché aveva vinto abbastanza partite di Quidditch per sapere che non puoi togliere a un giocatore l’aria aperta. Perché era un asso nelle fatture orcovolanti, perché aveva dato filo da torcere a quei pazzi di Fred e George, perchè era in grado di piangere e asciugarsi le lacrime senza scomporsi. Perché, nonostante gli errori, nonostante gli sbagli, meritava di più di un matrimonio che l’avrebbe resa infelice. Quindi lasciò il braccio di suo padre e corse verso Harry. Gli prese il viso tra le mani e appoggiò la fronte alla sua.
«Perdonami. Ma non possiamo farlo, lo sai anche tu. Ti voglio bene, Harry».
E con un coraggio che sapeva appartenerle, ma che era addormentato da fin troppo tempo, si tolse i tacchi e fuggì via da quel capannone. I piedi nudi accarezzavano l’erba appena tagliata e si sentiva di nuovo libera, nonostante la voce di Hermione che la chiamava, nonostante il chiacchiericcio e gli scatti dei fotografi.
Era stata crudele, meschina ed egoista. Ma non aveva più alcun peso sul cuore ad attirarla verso gli abissi.

«Quindi non sarò costretta a chiamarti signora Potter».
«Ti dispiace?».
«Ti sembra la faccia di una persona dispiaciuta? Al massimo divertita, hai creato scompiglio là dentro, pel di carota».
Ma non c’era tempo per le prese in giro, per i battibecchi, nemmeno per flirtare. Si avventò su quelle labbra morbide, da donna, da Serpe.
«Vieni con me».
«E dove?»
Non lo sapeva.
«Via di qui, per favore»
 
***
 
«Siamo meteorite» ti dicevo, ed era il mio modo di chiederti scusa. Dentro di me lo capivo che avevi bisogno di qualcosa di diverso, non di distruzione ma di rinascita. Era questo che mi faceva più paura: che impacchettassi le tue cose e tornassi da chi, un nuovo inizio, era in grado di dartelo.
Siamo meteorite, ti dicevo, e forse andava bene così, perché ti sei tolta quel paio di tacchi e sei sgusciata via dal tuo stesso matrimonio. Passionale, dirompente, straripante: mi hai dimostrato che non sei fatta per la calma piatta d’un mare senza onde.
 
   
 
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