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Autore: SkyDream    21/08/2021    3 recensioni
[Ship!Bokuaka][Fluff!Alert - non adatto ai diabetici]
Bokuto e Akaashi si ritrovano bloccati in palestra durante un temporale. Non ci sarebbe nulla di anomalo, se non fosse che Bokuto indossa adesso una maglia di colore diverso e ha un treno da prendere.
E Akaashi vorrebbe solo tenerlo lì, andare indietro nel tempo e rimanerci.
Ma non sa ancora che il futuro non è poi così tremendo, anzi!
-
Dal testo: Niente, Akaashi continuò a guardarlo un po’ perplesso mentre la pioggia continuava a picchiettare sull’ombrello sempre con più insistenza.
«Non ci si abitua a certe cose. Quando a Tokyo mangio da solo, mi sento sempre molto triste».
Poi fu il turno di Akaashi di spalancare gli occhi e fissarlo con un mix di emozioni che nello stomaco assumevano le forme di farfalle svolazzanti.
Era tenerezza, voglia di proteggere e comprensione.
Era vero: a certe cose non ci si abitua.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note autrice: E' la storia più smielata, diabetica e vagamente shojo che abbia mai scritto. Non me ne vogliate se la trama praticamente è inesistente, ma questi due mi ispirano miele (e angst, ma non per questa storia).
Buona lettura a chi deciderà di proseguire!

~ Our World Collide ~
[BokuAka]

 

If the choices we make define who we are

Then this is who I am, I'll never let go

When our worlds collide


«Sembra che andrà avanti ancora per un po’».
Akaashi poggiò la mano sullo stipite della porta della palestra, la pioggia davanti a sé continuava a picchiettare sulle scalinate, sul cortile vuoto e sull’intera città.
Akaashi sentiva un lieve venticello scuotergli la maglia con il numero 1 sul petto e, istintivamente, ne prese un bordo per abbassarla e rimetterla al suo posto.
Alzò gli occhi al cielo, nuvoloni pesanti, spessi, tingevano l’aria di un tetro grigiore e l’umidità aveva finito per far piegare i fiori su se stessi e le foglie degli alberi.
E i capelli di Bokuto.
«C’è un ombrello nello spogliatoio, posso accompagnarti a casa prima di andare in stazione. Non sembra un temporale così malefico».
Akaashi sentì un calore familiare dietro la schiena, così com’era familiare il suono di quelle scarpe che camminavano – saltellavano – sul pavimento.
Si voltò appena, quel tanto che bastava per scorgere con dolore quella maglia gialla con su il logo dei MSBY Black Jackal.
Akaashi avrebbe sempre odiato il giallo, ne era sicuro.
Da quando Bokuto si era diplomato, aveva l’impressione di essere ormai troppo distante da lui. E quella maglia ne era il doloroso confine, una linea retta che aveva spezzato la loro sincronia, la loro piacevole routine.
Bokuto aveva lasciato la periferia di Tokyo per trasferirsi in centro, più vicino alla sede centrale della sua squadra. E Akaashi era pure andato a trovarlo qualche volta – aiutandolo a fare la spesa per evitare di trovarlo morto di fame alla visita successiva -ma quella nuova casa non gli era piaciuta per niente.
Aveva il profumo di cose nuove, distanti e lui odiava entrambe le cose. Odiava andare a scuola da solo la mattina.
Odiava non avere più il suo numero 5 sulla maglia.
Più di tutti, odiava essere il nuovo capitano. Aveva cercato di trasmettere il suo entusiasmo e il suo amore per la pallavolo ai nuovi primini, ma non era molto sicuro di esserci riuscito – nonostante Bokuto sostenesse il contrario -.
«Vai a cambiarti, Keiji, ti aspetto qui!» Proprio Bokuto lo fece risvegliare dai suoi pensieri, facendolo tornare con i piedi per terra.
Gli stava regalando un sorriso super luminoso, con gli occhi ben stretti e i capelli inumiditi ormai del tutto scivolati attorno al viso in una splendida cornice bicolore.
Akaashi, in un’altra situazione, sarebbe arrossito. Quella volta, invece, sentiva solo una gran voglia di piangere.
«Grazie, Koutaro».
Era stato molto semplice – e doloroso – per lui abbandonare il “Bokuto-san”, al contrario di quanto si sarebbe aspettato. Gli era sembrato un ottimo modo per sentirsi un po’ più legato al suo amico, così aveva accettato subito quando l’altro glielo aveva proposto.
E cosa non era stato per lui, sentirsi chiamare per nome da quella voce squillante e straripante di energia.
Lui che da sempre era stato chiamato Akaashi, proprio come quel padre che troppo spesso non era stato a casa. Non era venuto alle sue recite scolastiche né alle partite.
Invece il nome Keiji aveva tutt’altro sapore, sapeva di qualcosa di bello.
“Mi ricorda le piccole ondine del mare che cambiano colore al tramonto e sono sia blu che arancio!” gli aveva detto Bokuto una volta aspettando, con occhi vispi, che l’altro gli dicesse invece il suo parere.
“Koutaro: mi ricorda un lampo in mezzo alla foresta che ho visto da bambino.”
E come era saltato di gioia a quella risposta perché, si sa, i lampi sono qualcosa di super figo!
Ed era proprio un lampo quello che si era abbattuto sulla montagna alle loro spalle in quel momento.
Si girarono entrambi, Bokuto teneva saldamente l’ombrello con una mano per coprire anche l’altro, ma con la mano opposta riuscì ad indicare il punto distante da loro.
«Mi sa che ci conviene velocizzare, se peggiorerà finiranno per bloccare di nuovo i treni!».
Decisamente gli era bastato una volta sola rimanere due ore alla stazione. Non ci teneva a fare il bis.
Entrambi presero a camminare più rapidamente lungo la discesa sotto il liceo Fukurodani, ormai totalmente abbracciato da una coltre di nebbia.
«Ho pure una fame tremenda!» si lasciò sfuggire il più grande come se fosse un’aggravante per quella situazione già uggiosa e poco allegra.
«Ho dei tamagoyaki* pronti, ti preparo un bento al volo!».
Bokuto arrossì per quella premura e abbassò gli occhi alla ricerca della casa del suo amico.
«Non preoccuparti, tua madre li avrà preparati per te, non vorr-».
«Mia madre non è qui».
Bokuto rallentò la corsetta e si voltò verso l’altro ragazzo aggrottando le sopracciglia.
«Ah?».
«I miei genitori sono fuori per lavoro per qualche giorno, quindi non è assolutamente un problema. Così non rischierai di perdere il treno!».
Akaashi si sforzò di sorridergli per rassicurarlo, di solito funzionava ma notò che quella volta era diverso.
Bokuto, infatti, aveva rallentato fino a fermarsi e ora lo stava guardando con le labbra schiuse e gli occhi spalancati come quelli di un gufo.
«Quindi stasera cenerai da solo?».
«Ci sono abituato, Koutaro, non è un problema».
Niente, Akaashi continuò a guardarlo un po’ perplesso mentre la pioggia continuava a picchiettare sull’ombrello sempre con più insistenza.
«Non ci si abitua a certe cose. Quando a Tokyo mangio da solo, mi sento sempre molto triste».
Poi fu il turno di Akaashi di spalancare gli occhi e fissarlo con un mix di emozioni che nello stomaco assumevano le forme di farfalle svolazzanti.
Era tenerezza, voglia di proteggere e comprensione.
Era vero: a certe cose non ci si abitua.
«Vuoi rimanere a cena da me?».
 
Akaashi sapeva essere davvero un cuoco invidiabile quando si metteva ai fornelli.
Bokuto aveva acceso la televisione e stava distrattamente guardando il notiziario della sera – uno speciale sullo strano temporale che aveva colpito l’est del Giappone – ma poteva definirsi certamente più interessato alla visione dell’altro ragazzo che tagliuzzava le verdure.
Il menù serale di Akaashi consisteva, inizialmente, nel mangiare i resti del tamagoyaki con delle gallette di riso. Non aveva mai particolare appetito quando rimaneva solo, gli sembrava quasi sprecato prendere le pentole e cucinare.
Ma, non appena Bokuto aveva messo piede in casa, i programmi erano leggermente cambiati e ora sulla tavola ben apparecchiata attendevano due enormi tazze per il ramen.
Un ramen di manzo come non lo aveva mai preparato a nessuno.
Glielo aveva insegnato sua nonna quando era piccolo, ma non pensava davvero che un giorno gli sarebbe tornato utile.
«C’è proprio un profumo delizioso, Keiji! Non credo che resisterò fino alla fine della cottura!».
«Fossi in te, rimarrei lontano dai fornelli. Ti legherò le mani dietro la schiena se proverai ad assaggiare qualcosa prima che sia pronto!».
«Sei proprio cattivo!».
«Ti rovinerai la cena!».
«Ma è colpa tua se adesso ho ancora più fame!» Bokuto mise su un broncio a dir poco adorabile e si avvicinò ad Akaashi quasi a sfidarlo, l’altro non aveva smesso di sorridere e stava continuando a mescolare le verdure e il manzo.
Ne afferrò una piccola forchettata e ci soffiò sopra un paio di volte per raffreddarlo prima di porgerlo al tornado Bokuto che cominciava ad aggirarsi per la cucina come un’anima in pena.
Bokuto non potè fare a meno di notare con quale attenzione l’altro avesse preso del manzo e lo avesse raffreddato prima di darglielo. Per lui lo aveva fatto solo sua madre quando era piccolo, forse sua sorella ma non ne aveva neanche memoria.
Poi, per il resto dei suoi anni, aveva imparato bene come scottarsi la lingua.
«Lo sapevo! E’ super delizioso!» Bokuto si mise a gongolare ancora con la forchetta tra le labbra e non riuscì a scollare gli occhi dal sorriso immenso che Akaashi stava ora rivolgendo al brodo.
«Penso che potrei mangiarlo anche per tutta la vita!».
 
«Keiji?».
«Mh?».
«Se ti chiedo una cosa mi prometti che non ti arrabbi?».
Akaashi si voltò lentamente, ancora con una delle scodelle a mezz’aria mentre le stava riponendo sullo scaffale.
Annuì debolmente, incuriosito e un po’ spaventato da quell’insolita richiesta.
Bokuto se ne stava seduto al tavolo a giocherellare con le dita, mentre una ciocca di capelli ormai giù gli ricadeva sulla punta del naso.
Con quella pettinatura al naturale e le guance ancora rosse per il calore della zuppa emanava una tenerezza spaventosa.
Akaashi sentì i polsi tremare e non fu sicuro si trattasse per la scodella ancora a mezz’aria.
«Posso dormire con te questa notte?».
E fu silenzio.
Bokuto sollevò gli occhi per cercare una qualche risposta, ma trovò Akaashi nella stessa esatta posizione di un minuto prima. Più qualche muscolo contratto a livello del braccio.
«Puoi dormire qui, certo, non c’è alcun problema! In effetti è ormai buio e piove ancora, te lo avrei chiesto io fra poco.»
«Keiji?» Akaashi si voltò, aveva finalmente richiuso lo scaffale e potè avvicinarsi all’interlocutore.
«Si?».
«Posso dormire con te questa notte?» ripetè l’altro, le guance in fiamme che stavano sfiorando una temperatura non umanamente compatibile.
“Oh, diamine! Avevo capito bene!” Akaashi arrossì a sua volta e si limitò ad annuire.
Okay. Poteva essere una bella esperienza, non aveva mai dormito con nessuno nello stesso letto.
Forse con suo cugino quando erano pic-
«A volte a Tokyo mi sento solo. Mi piacerebbe averti sempre lì come adesso».
Bokuto si alzò dalla sedia e raggiunse l’altro ragazzo, ormai ad un palmo dal suo viso potè sentire il suo profumo mescolato a quello dolciastro della zuppa che ancora aleggiava per la cucina.
«Io mi sento proprio come te».
La voce di Akaashi gli arrivò leggera come un sussurro, provò l’insana voglia di sfiorargli una guancia candida ma si trattenne. Non era il momento.
Non ancora.
 
«Ti sta un po’ stretto di spalle?» Akaashi entrò in camera e richiuse la porta alle sue spalle, vi era solo una piccola lampada accesa e sul pavimento si rifletteva la luce del lampione sulla strada.
Era stato tentato di abbassare la serranda e tirare la tenda, ma qualcosa lo fece desistere. Si sedette sul letto dove già si era sdraiato Bokuto, le spalle al muro e i capelli morbidi sparsi sul cuscino. Aveva gli occhi socchiusi e un sorriso tenero sulle labbra.
«No, Keiji, il tuo pigiama mi sta benissimo» rispose con una guancia affondata.
“Come no, stringe proprio sui bicipiti e i pettorali!” pensò l’altro arrossendo lievemente e distogliendo lo sguardo da tutto quel ben di Dio.
Scivolò al suo fianco e per la prima volta potè notare i piccoli dettagli oro e castano negli occhi dell’altro.
In quella situazione così surreale e decisamente lontana da quelle che normalmente vivevano ogni giorno, Akaashi pensò che Bokuto sembrasse molto più piccolo del solito. Niente capelli sparati in aria col gel, nessuna divisa che lasciasse scoperti i muscoli tonici, nessuna frase di incoraggiamento in mezzo al campo.
Gli mancava da morire tutto questo, ma vedere Bokuto in pigiama mezzo addormentato era quasi – decisamente – meglio.
«Se stai scomodo, dimmelo. La camera di là è libera, ci sono altri letti.» sussurrò Akaashi sprofondando a sua volta nel cuscino.
Bokuto scosse la testa in senso di diniego, poi gli fece cenno con la mano di avvicinarsi.
L’altro potè vedere il riflesso del lampione sul suo volto, piccole ombre farsi spazio tra di loro.
«E’ bello dormire con qualcuno a cui si vuole bene, non credi?» Bokuto allungò un braccio verso il suo ex alzatore e gli sfiorò la spalla aspettando una qualche risposta.
«Non lo so, è la prima volta che mi succede.» Akaashi piantò i propri occhi su quelli dell’altro attendendo di essere avvolto da quelle braccia imponenti.
Bokuto – stranamente – parve capire e lo strinse a sé con un movimento alquanto goffo e non privo di imbarazzo.
Si abbracciarono avvertendo l’uno il calore e il profumo dell’altro, la loro pelle che si sfiorava lasciando piccoli brividi al passaggio.
Akaashi alzò appena una mano per raggiungere la nuca dell’altro e carezzarla piano piano, ad ogni movimento poteva vedere le palpebre del suo schiacciatore sempre più pesanti.
Sentì una mano creare piccoli cerchi sulla propria schiena in un gesto affettuoso che gli colorò nuovamente le guance.
«Si sta bene qui, Koutaro.» sussurrò appena sperando con tutto se stesso di non aver frainteso tutto.
E, nel caso in cui fosse stato così, si disse, era TUTTO molto facilmente fraintendibile.
La verità era che Akaashi non aveva mai pensato di essere innamorato di Bokuto. Ne era attratto, provava per lui un miscuglio di emozioni a cui non sapeva dare un nome e la sua lontananza lo faceva soffrire come un dannato.
Eppure, come un completo idiota, non aveva mai ammesso a se stesso di provare qualcosa di più profondo. Forse – certamente – per paura di non essere ricambiato.
Anche Bokuto, dal canto suo, non aveva saputo dare un nome a quel vuoto nello stomaco che provava da quando si era trasferito a Tokyo. Aveva l’impressione che gli mancasse un pezzo.
E sapeva esattamente quale fosse il volto e il sorriso di questa parte mancante.
Lo voleva con se, voleva stringerlo proprio come faceva dopo aver vinto una partita. Voleva vederlo sorridere, voleva renderlo felice.
E, in tutta onestà, di come si chiamasse tutto quel trambusto nel suo cuore, non gliene fregava granchè.
Ora era felice, felicissimo!, di poter finalmente esprimere con piccoli gesti ciò che provava e di notare – dopo un bel po’ di timore – come Akaashi non si allontanasse. Anzi, sembrava accoglierlo a braccia aperte.
E allora tutto era tornato al proprio posto e si augurò che la notte trascorresse lenta, che si bloccasse del tutto per permettere loro di godere a lungo di quel momento surreale.
«Mi sei mancato, Koutaro.» sussurrò Akaashi con il volto affondato nella spalla dell’altro.
In tutta risposta, Bokuto lo strinse a se fino quasi a stritolarlo. E fu bellissimo, per la prima volta, in tutta la loro vita, addormentarsi in un intreccio di sorrisi e carezze.
Bokuto, al risveglio, gli lasciò perfino un lungo bacio sulla fronte.
Il sole si stava alzando, presto sarebbe dovuto ripartire ma non gli importava. Ormai aveva deciso.
Dopo il diploma avrebbe chiesto ad Akaashi di andare a vivere con lui per potergli regalare ogni sera almeno mille di quei baci.

 
*tamagoyaki: frittatina speziata tipica giapponese!
   
 
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