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Autore: Gaia Bessie    05/10/2021    2 recensioni
Scott s’era fatto mostro – il giorno in cui le aveva voltato le spalle, ignorando i suoi pigolii amarissimi: è casa tua, Scott, casa tua.
E, da quel momento, s’era fatto anche fantasma – di tornare, non era tornato mai, lasciandola ad attenderlo un giorno dopo l’altro.
È che questo mondo non è solamente fottuto, le aveva detto un giorno, è che quando può ti fotte e basta. Dawn aveva riso, ma solamente per finta.
Forse lo sapeva già – che Scott era mostro e fantasma, perché dentro di lui abitavano frammenti di oscurità che, il più delle volte, vincevano.
[Dott | Song-fic | Seconda classificata al contest "Skip" indetto da Soul Mancini sul forum di EFP]
Genere: Angst, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alejandro, Dawn, Scott
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
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Scott s’era fatto mostro – il giorno in cui le aveva voltato le spalle, ignorando i suoi pigolii amarissimi: è casa tua, Scott, casa tua.
E, da quel momento, s’era fatto anche fantasma – di tornare, non era tornato mai, lasciandola ad attenderlo un giorno dopo l’altro.
È che questo mondo non è solamente fottuto, le aveva detto un giorno, è che quando può ti fotte e basta. Dawn aveva riso, ma solamente per finta.
Forse lo sapeva già – che Scott era mostro e fantasma, perché dentro di lui abitavano frammenti di oscurità che, il più delle volte, vincevano.
 
Compendio di (ir)realtà – I mostri non esistono
 
I mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali.
Vivono dentro di noi e, a volte, vincono.
(S. King)
 
Good for you, you fooled everybody
Good for you, you fooled everyone
Good for you, now you're somebody
Good for you, you fooled everyone
 
È riuscito a ingannare tutti – anche lei.
Il giorno in cui ha fatto marcia indietro ed è tornato a casa per scoprire che suo figlio sgambettava per il corridoio e chiamava papà suo nonno. Ha inghiottito rabbia e malcontento e non ha detto una parola: disillusione per disillusione, deve aver pensato, meglio una pistola in tempia che dover vivere così.
È durato a malapena due settimane: al decimo giorno, secondo le proprie personalissime scritture, Scott è andato via – lei non l’ha inseguito e non ha pianto, rimanendo a guardare le impronte che lentamente scoloravano nel terreno.
Non le ha mai domandato (d’altronde, il coraggio gli è sempre mancato) se, anche soltanto per un istante, avesse creduto nel miracolo della sua redenzione. Dawn è rimasta sulla soglia, le braccia a penzoloni lungo i fianchi, e non ha detto una parola – forse, a Scott è sorto quel dubbio che gli ha sbocconcellato le viscere,  non ne aveva più.
E lui le ha effettivamente tolto ogni parola quando, tornando indietro, le ha rivolto un sorriso sghembo e le ha chiesto di pregarlo per rimanere.
Dawn non si è mossa di un millimetro, i capelli biondi segnavano un mondo, un respiro, un confine. Non mi toccare, urlava silenziosamente, ma lui ha allungato una mano e le ha sfiorato comunque il viso, facendola rabbrividire.
«Cosa vuoi che ti dica?» ha mormorato, con aria stanca. Lui non l’ha notato subito ma, tra quei capelli così chiari, spiccavano alcuni prematuri fili d’argento.
Una donna che ha visto il tempo sfiorirle davanti – e ha a malapena ventisei anni.
«Pensavo fossi in grado di leggermi dentro» la prende in giro, lui, ridendo a voce alta. «La mia aura non ti parla più?».
Lei sorride, timidamente: sono passati dieci anni e ancora non ha preso l’abitudine di saper sorridere davanti a lui, come fosse un segreto che Scott non dovrebbe conoscere, quello del suo sorriso. A lui dà sui nervi, ma non le dice mai niente – è bravo a nascondere le cose, lo è sempre stato.
«Sei tu, quello che non mi parla più» risponde Dawn, con insolita amarezza. «Perché continui a tornare, se poi non vuoi rimanere?».
Lui non le sa rispondere – è un capriccio, vorrebbe dirle Scott, vedere se sei riuscita a ricostruirti senza di me (spero che tu non lo faccia mai) – e allora la guarda e accenna a una risata, con l’aria che gli trema addosso in un sussurro.
Dawn scuote il capo, così che un’onda di capelli troppo biondi le copre il viso diafano, mascherando la delusione che ne altera i bei tratti: Scott è sempre stato così, lei l’ha saputo in ogni momento. Ma, nell’osservare come continui a prenderla in giro, la delusione permane.
Scott scrolla le spalle, con quel suo solito sorriso impertinente dipinto in volto con tocchi di rosso aranciato. Ha tagliato i capelli, una piccola cicatrice figura sotto l’occhio: forse, deve ammettere Dawn con dolore, il ricordo di una vecchia rissa.
Le nocche sbucciate come un frutto troppo maturo, un dente scheggiato – Scott è cambiato per davvero: mutabile, l’esistenza imperfetta di entrambi, ma quello ad essere divenuto l’ombra più buia di sé stesso è solamente lui.
Lei è divenuta madre – Irvin cammina e borbotta i suoi primi suoni, facendole sciogliere il cuore.
Lui è divenuto semplicemente quel che poteva essere – i mostri esistono, le ha detto una volta, vivono dentro di noi.
Solo se li lasci vincere, aveva risposto Dawn e lui aveva riso: ma hanno già vinto, non lo vedi?
«Penso sia meglio che tu vada via» commenta, lei, atona e disincantata. «Ti accompagno».
È che lui le ha tolto la voglia di combattere per l’incanto del mondo e, sul finire, in qualche modo le ha sbiadito anche i sogni. E, adesso che loro figlio chiama sempre mamma e mai papà, cosa è rimasto?
Scott che ride e nemmeno sa il perché. Che la guarda e, sul fondo dei suoi occhi, è rimasta solamente una sabbiolina grigia che non sa mai di rimpianto – ha il cuore d’acciaio fuso e le costole sono solamente una fucina per quel rimorso che gli mastica l’anima. Dawn lo sa: che Scott ha i mostri dentro e, per questo, è divenuto fantasma.
Che non tornerà. Per quanto possa dire in giro che è un padre devoto, un marito esemplare, Scott non riuscirà a tornare indietro da quel luogo senza passi in cui striscia e non cammina.
«Tornerò domani» promette lui, come ogni volta. «E porterò Irvin a giocare al parco e, forse, potrei rimanere per un paio di giorni».
Lei annuisce dolcemente – non gli crede mai: sono finiti, i tempi in cui aveva abbastanza fiducia per credere a Scott che diceva che sarebbe tornato e poi spariva per settimane. Quando lei gli ha detto d’essere incinta, era sparito per otto mesi, tornando solamente per scrutare con diffidenza il neonato.
Ma è meglio così, pensa distrattamente. Che Scott rimanga convinto di poter aggirare il sistema e ingannare tutti quanti. Anche quando lei lo guarda ed è evidente che sappia che, domani, non tornerà e non lo farà per chissà quante settimane.
«Lo faccio per voi» sussurra Scott, con convinzione. «Quando sarò qualcuno, potrò offrirvi la vita che meritate».
Lei, da A tutto reality, s’è tirata via ormai da anni – Scott non ha mai smesso. Di vincere non ha mai vinto niente, ma continua a tentare di rosicchiare la speranza di una vita migliore (che Dawn non vuole).
Gli sorride dolcemente.
«Certo» sussurra, ma non crede nemmeno al tono della propria voce. «Domani tornerai e andrà tutto bene».
Scott annuisce con convinzione. «Sì, te lo prometto» sussurra, voltandosi per andare via. «Ci vediamo domani».
Dawn sorride al vuoto – non gli dice che, con un po’ più di impegno, avrebbe potuto convincerla anche quella volta.
Riesce sempre a ingannare tutti. Ma lei mai più.
 
***
 
Leave your weapon on the table
Wrapped in burlap, barely able
Don't get angry, don't discourage
Take a shot of liquid courage
 
A colazione mangia sempre uova strapazzate: non che sia così indigente da non potersi permettere altro ma, in tutta sincerità, Scott non s’è mai dato la pena d’imparare a cucinare. Così, sul tavolo accumula un delirio di gusci rotti e schizzi di albume semi-cotto, posate sporche dei giorni precedenti e, infine, un tovagliolo sporco di sangue. Di quella volta che ha fatto a botte da sbronzo e l’ha chiamata per farsi raccogliere e, allora, Dawn gli ha tamponato i graffi con un fazzoletto di stoffa (chi li usa più, ad oggi?) e l’ha lasciato sul divano a riprendersi dalle turbolenze che gli avevano scosso il cuore.
Il fazzoletto non l’ha rivoluto più indietro, l’inquietudine a lui è rimasta cucita al muscolo cardiaco – la nutre ogni giorno con le uova strapazzate, uno spruzzo di ketchup e uno di maionese, fagioli precotti presi direttamente dalla lattina. Strano che non sia morta o con una brutta gastrite, allora.
Sul tavolo giacciono i resti anche della cena e del pranzo del giorno prima, rigorosamente take-away o qualche sottovuoto che Dawn pietosamente gli ha portato: non lo odia ancora abbastanza per vederlo morire di fame.
Strano, gli ha sussurrato qualche sera fa, posando sul tavolo un tupperware pieno di spaghetti e polpette vegetariane. Strano, che anche i fantasmi abbiano bisogno di mangiare.
Scott lo sa – è il mostro che ha dentro, che urla di fame, di dolore e di insonnia macchiata sul caffè delle quattro di mattina. A Dawn non lo dice mai, ma lascia che depositi il contenitore con gli spaghetti sul tavolo e se ne vada, scuotendo la testa.
«Torna a casa, Scott» borbotta il suo improvvisato coinquilino, scivolando sulla sedia di fronte a quel tavolo così disastrato. «Che senso ha, per te, rimanere qui? Hai una moglie che ti aspetta, un figlio».
Lui non sa spiegarglielo a parole – è la certezza che lei lo aspetterà in eterno, che muove il suo mondo. La consapevolezza assoluta e incontrovertibile che, qualunque cosa accada, Dawn rimarrà con la porta aperta per accoglierlo nel suo mondo.
Quello da cui lui cerca di scappare: Dawn è ospitalità, mondo, certezze – opinioni. Per lo più, contrarie alle sue.
«Se volessi tornare, lo avrei già fatto» sibila lui, servendosi una generosa porzione di uova e fagioli. «Tu perché non torni dalla tua, Al?».
Alejandro sospira, scuotendo i capelli ormai troppo lunghi: ha i lineamenti corrotti da un accenno di barba che se li mastica e li lascia lì, tutti smangiucchiati, a cercare il loro senso sulla pelle ormai troppo secca – non sembri più tu, gli ha detto Courtney per scuoterlo, non sei più tu.
«Non ci torno» esala, rimestando con aria schizzinosa il contenuto del proprio piatto. «Perché non posso tornarci, fine della storia».
Il rumore delle stoviglie rotte ancora gli riecheggia addosso – Heather che gli dice prendi e vai via, non tornare più: te lo giuro, la prossima volta non rispondo delle mie azioni e te la strappo via, questa patina di esistenza perfetta che io non ho.
Alejandro guarda il proprio improvvisato coinquilino e se lo domanda, silenziosamente: quand’è che i matrimoni di tutti loro, con l’ovvia eccezione di Geoff e Bridgette, hanno cominciato silenziosamente a collassare?
Heather ha cambiato la serratura della porta e, per sicurezza, si è ripresa le chiavi – per vedere i loro due figli, Alejandro è un ospite indesiderato e, lei, come la lupa che guarda i cuccioli rimane sempre sulla soglia del tinello, in vigile attesa.
Farebbe meno male, gli aveva suggerito Courtney il giorno in cui aveva firmato le carte del proprio divorzio, se solamente scegliessi di non farti ferire da lei. Il mondo fa schifo e siamo d’accordo, ma almeno puoi scegliere da chi farti pugnalare al cuore.
Alejandro non l’ha fatto mai – la sera vaga per le strade cercandola negli sprazzi di luce giallastra dei lampioni, il fine settimana porta Manuel e Isabella al lago, in estate ha promesso che andranno al sud, dalla famiglia Burromuerto. Lì si vive davvero, ha promesso, ma lui non ci crede nemmeno un po’.
Scott sbatte con forza il piatto nel lavello, sbeccandolo e scuotendo il suo coinquilino da quei pensieri.
«Sii più delicato» mastica Alejandro, con aria annoiata. «Non abbiamo così tanti piatti, in questa topaia».
Il rosso non risponde – stappa una birra con il coltellino svizzero e si siede nuovamente, circondato da un silenzio che disorienta.
«Sono le dieci, Scott» constata l’altro, scuotendo il capo con aria stanca. «A cosa ti serve, una birra a quest’ora?».
«Mi serve» risponde laconicamente Scott, versando la birra un po’ in gola e un po’ sulla canottiera già sporca. «Un po’ di coraggio liquido, sì? Mi servirà per tornare da Dawn e dirle che mi servono altri soldi».
Lo dice con una calma che spaventa – Alejandro lo sa, perché è una scena che si ripete una volta al mese e poco più, che Dawn aprirà il portafogli e gli cederà un numero di banconote che basteranno per qualche settimana. Senza dire una parola, ma con gli occhi pieni di lacrime.
A Scott non importa – è così bravo, a ferirla, che ormai perde il conto di tutte le volte in cui lo fa.
 
***
 
'Cause my monsters are real, and they're trained how to kill
And there's no coming back and they just laugh at how I feel
And these monsters can fly, and they'll never say die
And there's no going back, if I get trapped I'll never heal
Yeah, my monsters are real
 
Ricorda quei tempi.
Quando era buio e le grida di Irvin fendevano il silenzio come lame bagnate – il rumore del taglio e un odioso sgocciolio che scavava i pensieri: Scott non dormiva mai, ma nemmeno s’alzava per consolare quell’esserino minuscolo, che Dio solo sapeva come facesse a gridare con una tale forza.
È stato allora, che è successo, che qualcosa ha cominciato a rosicchiargli le viscere in un dolore che non duole, ma è fastidioso come avere i pidocchi – cerchi di strapparteli via a mani nude eppure, alla fine, sono sempre lì.
E Scott lo ricorda bene: tutte le volte in cui Dawn si è alzata (sempre lei) senza mai lanciargli sguardi colmi di delusione. Eppure, delusa doveva esserlo – Scott sembrava essere indifferente all’idea di dover essere genitore e, lei, doveva essere padre madre e spirito santo.
Lui non le ha mai chiesto se doveva essere difficile, lei con altre parole gliel’ha detto comunque.
«I mostri sono reali» gli aveva sussurrato una sera, carezzando la fronte di Irvin e scoprendola fresca dopo una giornata di febbre. «Anche i fantasmi lo sono. Vivono dentro di noi e, a volte…».
Scott aveva sbuffato, lo faceva sempre di fronte a quei suoi discorsi astratti e insensati, ma Dawn aveva imparato a non fermarsi mai – anche contro ogni evidenza, come senza freni s’era spinta a capofitto nel volerlo amare.
«A volte vincono loro» aveva completato.
«Io non sono un mostro» aveva ringhiato Scott, dandole le spalle. «Lo faccio per te, lo sai: sei tu che desideravi essere una buona madre, non è vero?».
Quel giorno, lei ha iniziato a capire – lui no. Che i mostri Scott li aveva dentro per davvero e, quando l’afferrava per un braccio o la guardava con eccessiva durezza, stavano avanzando silenziosamente.
Lui gliel’ha detto piangendo, quella volta in cui le ha dato uno schiaffo e, per un momento, non ci ha creduto nemmeno lui: io non sono un mostro, Dawn, non sono come mio padre.
Se l’era detto più per autoconvincimento che per altro: lui non avrebbe picchiato moglie e figlio solamente per sentirsi più forte, non sarebbe finito a spalare ogni giorno merda di maiale dal fienile e, sul finire, morto di qualche schifo di malattia che non aveva voluto curare.
Le aveva detto questo, con parole che scrociavano giù dalla bocca come un fiume in piena, colando dai denti e giù sul pavimento.
Lei aveva detto di fidarsi di lui, gliel’aveva detto dolcemente – adesso, però, Scott deve domandarsi se sua moglie non gli abbia mentito.
«Buongiorno, Scott» perché la voce della dottoressa Stevens è calda e quieta, alle sei di sera. «Siediti pure, avanti».
È stata l’unica cosa in cui Dawn si sia mai impuntata – andrai dalla psicologa o non potrai più metter piede in casa nostra, Scott: non di nuovo, ha sussurrato. Lui le guardava il braccio, dove la sua mano aveva lasciato un’impronta rosso-blu, e s’era risolto ad annuire: non avrebbe potuto fare altro, s’è detto più volte.
Perché lei lo guardava con quegli occhi che toglievano le parole e, controluce, sembrava esangue sotto quel livido immenso.
«Buongiorno» borbotta, a disagio.
Lo studio della Stevens sa di menta e lampone: l’esatto odore di quelle pestilenziali caramelle balsamiche che mangia a tre a tre, fino a farsi diventare fucsia-colorante-artificiale la lingua. Le succhia per metà della seduta finché, quando l’orologio si avvicina alla mezza con la lancetta dei minuti, le spacca con i denti – saranno fucsia anche quelli?
«Allora, Scott» lo richiama la psicologa, tamburellando sul plico di fogli che usa per prendere appunti. «Com’è andata la settimana?».
«Bene» gracchia lui, in risposta.
La dottoressa non cava poi molto, dalle sue sedute: suo padre l’ha cresciuto a bastonate e a timore reverenziale per gli psicologi e lui, su quella poltrona fucsia caramella balsamica, non sa mai cosa dire.
Devi parlarle dei tuoi mostri, gli ha suggerito Dawn, una volta – dirle come ti senti quando perdi il controllo.
La dottoressa scarabocchia qualcosa in cima al foglio. Lui è convinto che sia qualcosa di simile a un non collaborativo.
«I mostri sono sempre reali» borbotta, infine, guardandola negli occhi. «E sono sempre con me».
Lei sbatte le palpebre, velando e scoprendo un paio di occhi color castagna. Sorride, ma solamente per finta.
«Ti va di spiegarmi cosa intendi dire?» domanda, amichevolmente. «Di che tipo di mostri si tratta. Esistono, sì, ma cos’è che fanno? Volano, mordono, oppure…».
«Uccidono?» domanda Scott, digrignando i denti. «Non me lo dicono mai: uccidi, muori, non è questo l’importante».
«E cosa importa, allora?» lo incalza la dottoressa, un sorriso color sabbia arcuato come il suo sorriso.
«Sanno come uccidere, solo che non lo fanno mai» commenta Scott, guardandosi le mani come se fossero sporche di sangue. «Ma esistono per davvero e io non lo so…».
«Non pensarti come qualcosa che non sei, Scott» sussurra dolcemente la psicologa. «Hai sbagliato, ma non sei un mostro e un assassino: ognuno di noi nasconde dei mostri, ma è il potere che diamo loro a determinare chi siamo».
Lui pensa allo sguardo triste di Dawn e ai suoi pigolii (amari, amarissimi): smettila, Scott, mi fai male così – pensava fosse un dolore figurato, nemmeno s’era reso conto di averle stretto il braccio.
È stato quello, il momento in cui ha iniziato a scappare via. Ha preso i propri vestiti e la propria disillusione ed è sparito dalla sua vita, tornando a sprazzi e scomparendo nuovamente in un sussurro.
Lei, una volta, gli ha detto d’averlo perdonato – ma lui continua a vederla colorata di rosso-blu, in un quadro che non ha dipinto mai.
Gli ha detto: puoi rimanere, rimani. Ma Scott è andato via anche quella volta e, per tre mesi, la sua ombra ha colorato la vita di sua moglie.
Lui porta ancora la fede al dito, ma lei glielo ricorda ogni volta: la tua ex moglie, Scott.
 
***
 
Good for you, you hurt everybody
Good for you, you hurt everyone
Good for you, you love nobody
Good for you, you owe no one
 
Dawn continua ad apparecchiare per due, a ora di pranzo, oltre al seggiolino dove sgambetta suo figlio. Il perché non lo dice mai ad alta voce, ma è chiaro – se Scott torna, lo fa sempre quando è ora di pranzo e, per lei, ogni mezzogiorno è speranza e la cena è sempre sconfitta. Perché Scott non torna mai.
Non torna per giorni, per settimane – si consuma l’attesa come un cerino acceso sul davanzale: lei non lo sa, ma potrebbe dar fuoco allo scheletro della casa, lasciandone solamente le ceneri confuse e tremanti.
Zoey è l’unica abbastanza diretta per dirglielo, mentre agita un sonaglino di fronte al viso di Irvin e il bambino prova ad afferrarle una ciocca di capelli rosso-sangue. Glielo dice così, con le parole che si perdono nella e le pause che affondano nella carne come coltelli, mentre gira pensierosa la scodella di minestrone che Dawn le ha messo davanti – oggi, ha apparecchiato per tre.
«Io non penso che dovresti permettergli di tornare, Dawn» sussurra, senza alzare lo sguardo dal proprio piatto. «Scott sa solamente come ferirti».
Non completa la frase, dicendole quella verità che tutti conoscono (anche lei): Scott non sa amare, è solamente logorato da odio e appartenenza – forse non la odia, ma pensa che Dawn gli appartenga.
La bionda posa le posate sul tavolo con un tintinnio stridente, stampandosi in volto un sorriso un po’ tirato.
«Scott è il padre di mio figlio» dice, semplicemente. «Ed è umano anche lui, con pregi e difetti, e per questo ha bisogno…».
Di affetto – lei sa che in Scott c’è qualcosa di rotto e disfunzionale ma, questo, ad alta voce non lo dice mai: le sembrerebbe di giustificarlo, quando lo sente sussurrare ai propri mostri nel dormiveglia. Zoey non sa delle liti, dei piatti rotti e del silenzio frantumato dai pianti di loro figlio.
Non sa, intuisce.
«Scott non è più tuo marito» commenta, posandole una mano sul braccio con fare materno. «Dovresti imparare ad accettarlo, Dawn».
Lei non le dice che non è vero – che è una consapevolezza semplicemente inaccettabile, perché è amara come lo sciroppo per la tosse e un sogno spezzato a metà: non le dice che lei la fede la porta ancora, dove Scott non potrà vederla mai. Appesa a una catenina, a contatto con il cuore, sotto il maglione verde che non ha smesso mai.
Logoro, invecchiato. Come lei che si guarda allo specchio, di mattina, e non sa come riconoscersi più. C’è una sconosciuta con gli occhi grigi che la guarda, in quella lastra di vetro, e lei vorrebbe chiederle chi sei per davvero, ma il coraggio non lo trova mai.
È una lezione che ha sempre pensato di aver interiorizzato finché, alla fine, s’è resa conto che è stato tutto quello che le è sempre mancato nella vita, il coraggio – ha lasciato Scott perché era giusto così. O, almeno, così si è detta: ha lasciato Scott perché era giusto così, ma la volontà si straccia e urla che ha torto, che ha lasciato Scott perché ha voluto farlo e niente di più.
«Ha ancora bisogno di me» commenta, infine, raddrizzando una forchetta. «Quando sarà pronto, lo lascerò andare».
Zoey la guarda e sospira, esasperazione liquida nei suoi occhi scuri: non vorrebbe dirlo, lo dice comunque.
«E come farai a farti lasciare andare da lui?» domanda, calma. «Scott sa solamente ferire chiunque capiti sul suo cammino, Dawn. Anche te. Soprattutto te».
Dawn lo sa – Scott non la lascerà mai andare, esigerà sempre un pezzetto del suo cuore dove potrà sempre andare e venire a suo piacimento: e lei glielo concederà sempre, non come un’elemosina, ma come un diritto conquistato nei secoli.
«Perché crede che non sia finita» spiega, scrollando le spalle. «Che ci sia spazio, per tornare insieme».
Ma voi, insieme, non lo siete mai stati – vorrebbe dirle Zoey, cancellandole dal viso quell’aria perennemente trasognata – Scott non ti ha mai saputa amare e questo, sul fondo di quel tuo cuore bugiardo, lo sai anche tu.
«E c’è?» domanda, invece, alzando un sopracciglio. «Questo spazio, intendo. Pensi che ci sia?».
Dawn sospira, occhieggiando a suo figlio che dorme placidamente nella culla, incurante delle loro chiacchiere.
Il motivo, quel freno che le impedisce di far erodere ulteriormente la propria dignità, è lui – ricorda il giorno, l’ultimo, in cui ha provato a prendere in braccio Irvin: il bambino ha pianto così forte che, alla fine, non l’ha toccato mai più. Non gli appartiene, loro figlio, e per questo non lo comprenderà mai.
E, forse, Zoey ha ragione: Scott non lo ama, è diviso tra odio e appartenenza e, in quella zona grigia in cui si muove Irvin, muore la sua comprensione – e, per questo, quel bambino sarà sempre al sicuro dai mostri di suo padre.
«Non lo so» ammette, scrollando le spalle. «A volte, mi piace pensare di sì. Che saremo una famiglia felice e porteremo Irvin a fare campeggio, nella natura e…».
Zoey sorride dolcemente. «E sono dei sogni bellissimi» concede, amaramente. «Ma sono solo sogni».
Dawn annuisce, alzandosi per mettere in tavola i piatti e i bicchieri, ma le tremano ancora le mani su quei pensieri – saranno solo sogni, questo sì, ma a volte si sveglia nel cuore della notte e le sembra ancora di averlo accanto e non a dormire sul divano del salotto.
«E se tornasse per sempre?» domanda alla sua amica, dandole le spalle. «Tu cosa faresti?».
Zoey vorrebbe dirle che non tornerà mai, lo vorrebbe con tutto il cuore – ma non ha abbastanza fermezza per spezzarlo a Dawn, il cuore. Così china il capo, torcendosi le mani e giocherellando distrattamente con la propria fede nuziale.
«Se tornasse, chiuderei la porta e tanti saluti» dice, infine. «Le cose rotte rimangono crepate, Dawn, non puoi sempre riparare tutto. Non lo puoi fare con le persone».
Dawn china il capo, concentrandosi sul pomodoro che sta affettando e non dice niente – non le dice che, a volte, la cosa che più le manca di lui è il modo che ha di disinfettarle le ferite che lui stesso le ha inflitto con poche parole.
 
***
 
Leave your weapon on the table
Wrapped in burlap, barely able
Call a doctor, say a prayer
Choose a God you think is fair
 
Scott nasconde un rosario nel cassetto del comodino e, l’unica volta che qualcuno (Alejandro) ha provato a rovistargli dentro, s’è rotto la nocca tirandogli un pugno – è l’unico ricordo che ha di sua madre, il peggiore di tutti.
Le sembra di vederla, ritta come un fuso, con il rosario in mano a recitare l’Ave Maria e il Padre Nostro, sgranando quelle perline di legno – lo stesso ritmo dei colpi di suo padre, perfettamente sincronizzati. Scott ne ricorda la voce meglio che il volto, gli occhiali che si imbevevano di luce riflessa.
Sopra ogni altro rumore, quelle parole limpide: Ave Maria, piena di grazia. Il Signore è con te – con lui, però, il Signore non c’è mai stato, altrimenti avrebbe fermato la mano di suo padre sul confine labile della pelle.
Ma chi vuol prendere in giro? – si domanda, sbattendo un pugno sul comodino e sibilando per il dolore – Cazzo, Scott, cazzo.
Sua madre è morta da dieci anni, suo padre è ancora a spalar merda di maiale nel suo schifo di fattoria: se lei fosse viva e lui avesse avuto voglia di leggere l’invito al suo matrimonio, gli starebbero dicendo la stessa cosa. Torna da lei, Scott, il Signore non vuole che disonori così la tua promessa (già infranta) alla donna che hai detto di amare.
Una sola volta, si era permesso di replicare agli insegnamenti di sua madre e le ha domandato.
Mamma, ma tu hai visto tutti gli Dei del mondo e hai scelto quello più giusto, non è vero?
È stata anche l’unica volta in cui è stata sua madre a dargli uno schiaffo, sibilandogli di non essere blasfemo. Ha fatto più male di quanto non sia disposto ad ammettere – lo stesso inutile dolore dell’unico schiaffo, morale, che Dawn gli abbia mai dato.
Gli ha detto di non tornare più. Ha fatto un censimento delle sue cose, raccattando maglie, chincaglierie e tutto quello che lui poteva aver lasciato a casa sua e facendogliele trovare in una scatola di cartone. Gliel’ha abbandonata tra le braccia, lui l’ha lasciata cadere insieme alle sue parole smangiucchiate.
«Perché?» le ha domandato, allungando una mano per sfiorarle i capelli.
Lei si è scostata – ha fatto più male questo, anche più della consapevolezza che è finita: e, seppur sia vero che ogni cosa in questo debba avere una sua conclusione, Scott ancora non riesce a crederci.
Che lei l’abbia guardato negli occhi e gli abbia detto che.
«Dobbiamo andare avanti con le nostre vite, Scott» ha tintinnato, con finta allegria. «Io non ti riesco a sentire più, è tutto grigio e io… penso che sia meglio così».
Lui ha fatto quel che gli riesce meglio – ha incassato la testa tra le spalle ed è andato via, ringhiando bestemmie verso il Signore Onnipotente: forse lui sarà ancora blasfemo, ma il Dio di sua madre non è quello più giusto di tutti. Altrimenti, non l’avrebbe spinta ad allontanarsi da lui.
 
***
 
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'Cause my monsters are real
 
Scott non torna più.
Dawn vorrebbe dirgli di farlo, ma non ne ha il coraggio – la logora, la certezza d’averlo ferito per davvero, lasciandolo a fare il bagno nel sangue versato dai suoi mostri (che sono reali e, adesso, lo sa anche lei).
Scott non torna più.
Scopre che è morto dal necrologio sul giornale e non ha nemmeno la forza di domandarsi perché nessuno abbia avvisato la sua (ex) consorte – scopre che è morto e lei è finalmente libera, libera da far male.
Scott non tornerà più.
 
 
Leave a light on if you're able
'Cause we both know you're unstable
Call a doctor, say a prayer
Choose a God you think is fair
(Shinedown, Monsters)
 

Non so con che faccia torno in questo fandom, dopo aver cancellato il 90% della mia produzione passata (e non garantisco che non continuerò, più avanti).
Per quel che vale, è sempre un piacere tornare ai propri esordi e, anche se ormai sono completamente migrata in altri lidi, ho comunque dei bei ricordi che mi hanno spinta a scrivere questa storia.
Spero vi sia piaciuta: grazie per avermi letta, di nuovo o per la prima volta.
Gaia
   
 
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