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Autore: Vitani    02/09/2009    5 recensioni
Questa è una storia d'amore, di odio, di una carriera musicale ed artistica, di una maturazione, di come gli incontri detti "del destino" possono cambiare la vita. È la storia di due ragazzi in particolare: Mana, un chitarrista, e Gackt, un cantante. Entrambi passionali, entrambi sognatori.
"Simile ad una fiaba è questa storia, dove una dama e un cavalier rincorrono l’amore con solerzia, pronti in nome di esso a dare tutto. Si leggeranno lacrime, amore, risate e fremiti di gelosia, d’angoscia e di paura. Saranno tormentosi i nostri canti, piene di gioia le risate, e se malinconia occuperà il cuore, ci basterà cantare una canzone."
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Gackt, Mana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA SESTA
-
Le Perplessità della Rosa dell’Inverno (e i Ventidue Anni del Giglio Bianco)

 

 

 

 

Ci godè. Ah, se ci godè.

Poté dire di averci goduto come un porco. Tutto ciò senza falsi pudori e allarmismi di sorta.

Ci godé quando la porta si chiuse, ascoltò con soddisfazione somma e lurida il movimento regolare di quella grossa e pesante tavola di legno che scorreva inesorabile su cardini ben oliati. Sul volto un sorriso di trionfo e giubilo che avrebbe fatto invidia a quello di un generale tornato vittorioso da una guerra.

Un solo, sonoro ed invidiabile SBAM!

Il suo tenero cuore cantò. Di pura gioia, naturalmente.

E sul suo appartamento calò il silenzio.

Finalmente, dopo settimane di chiacchiere, di casino e di Takeshi piantato a casa sua per non dire di solitudine praticamente zero, il silenzio.

Tornò a godersela e lo fece schifosamente e con particolare zelo.

Ora per prima cosa si sarebbe messo su una bella tazza di tè nero aromatizzato al cioccolato anche se faceva un caldo talmente bastardo che il suo primo desiderio in occasioni normali sarebbe stato buttarsi dritto dentro al frigo e farsi casa lì stile vecchio sarcofago.

Poi ci avrebbe aggiunto tanto per gradire due o tre bignè alla crema di sua esclusiva creazione e avrebbe mandato due accidenti alla linea gustandoseli nella sua ritrovata e mai tanto amata Santa Pace.

Ah, che bella era la vita…!

Creek.

creek?

C’era qualcosa in casa sua che emetteva quel tale curioso rumore da unghia che raschiava su una lavagna?

Non gli risultava.

Creek… creek.

Non stava vedendo nessuno dei suoi amati film dell’orrore.

S’era forse rotta la tubatura della doccia?

Creek… creekcreek.

Sì, era decisamente meglio che s’alzasse e controllasse.

Quando tuttavia si sollevò in piedi pronto a far cessare con le buone o con le cattive la fonte del disturbante e sottilmente inquietante rumore, lo sguardo gli cadde su un paio di borsoni stracolmi poggiati alla bell’e meglio nell’atrio.

Creek, creek, creek.

Sospirò e si diresse verso la porta di ingresso con passo debole. Pareva che il qualcuno che aveva appena sbattuto fuori di casa non avesse intenzione di arrendersi tanto presto. Eppure non gli risultava di avere abbandonato un animale…

Il suono veniva proprio da dietro la porta chiusa.

Afferrò la maniglia, l’abbassò, tirò.

Si trovò davanti uno sguardo tanto luccicante di speranza che quasi lo abbacinò. Oh per gli dèi del cielo! Due occhi nocciola lo implorarono da sotto in su. Come quelli di un cane che vuole l’osso.

« Mana! Allora ci hai ripensato! »

Camui stava accucciato davanti alla porta di casa. Camui gli aveva grattato la porta. Come un maledetto cane, come un maledettissimo cane che vuole la sua ciotola di cibo quotidiana e non ce l’ha. E ora lo guardava. Lo guardava.

Lo guardava.

Lui, semplicemente, ricambiò lo sguardo e non parlò.

Non parlò ma in compenso sollevò entrambi i borsoni con una facilità che ebbe del paranormale e glieli tirò dietro badando bene di schiantarglieli dritto in direzione della testa e pregando che ci si soffocasse.

Gli andò male, Camui li evitò spostandosi di qualche passo e senza manco alzarsi.

« Pessima mira, Mana-chan. »

« Modera i termini. »

Con nonchalance chiuse la porta.

« Manaaa! Ti prego ti prego ti prego fammi entrare! »

Il rantolante lamentoso guaito che gli giunse fortunatamente ovattato dagli spessi centimetri di puro legno che li separavano bastò comunque a provocargli un accenno di mal di testa. Ma no, lui non l’avrebbe fatto entrare, oh no!

Aprì la porta.

« Mana ti adoro! »

“Mana ti adoro” aveva fra le mani un giornale arrotolato. Accuratamente arrotolato.

E per Gackt fu troppo tardi.

Come si slanciò in avanti per abbracciarlo sotto l’onda di un subitaneo impeto affettuoso e letale, così l’inamovibile Mana alzò un singolo braccio, quello col giornale, col movimento fluido e sinuoso di un cobra sputatore che sferra il colpo decisivo. E più o meno col medesimo grado di acidità.

« A cuccia! »

Calò. Inesorabile e letale come una sferzata di vento dell’artico calò quel pezzo di carta arrotolato dritto in faccia a Camui, che non fece in tempo ad emettere gemito.

« Sono stato fin troppo gentile con te. È ora che inizi a camminare con le tue gambe, Satoru Okabe, visto che l’intraprendenza non ti manca. E come ultimo regalo, tieni. »

Gli porse con garbo il giornale arrotolato, sospettando peraltro vista la sua faccia che poche altre persone avessero avuto l’ardire di dirgli frasi del genere in precedenza.

Quella che gli aveva dato, in effetti, era una simpatica rivistina piena di annunci di affitti che – sospettava – sarebbe tornata molto utile al suo vocalist.

« E mi raccomando, non prendere freddo stanotte. Se ti viene il mal di gola sono cazzi. »

Sì, e con ogni probabilità gli sarebbe preso il mal di gola e sarebbe stata solo colpa sua che l’aveva cacciato fuori di casa, povero cucciolo! Gli venne da ridere alla sola idea e sospettò che una mezza risata gli fosse pure uscita solo quando vide Gackt guardarlo con una faccia a metà tra l’incredulo, l’implorante e l’incazzato nero. Ah be’, affari suoi.

« Oh, ma visto il caldo che fa sarà difficile che tu ti prenda un malanno, vero? »

Glielo disse con sul volto un sorriso di tenerezza talmente spudoratamente falso che per un attimo ebbe voglia di farsi schifo da solo. Solo un attimo, per inciso.

Ciò detto, si girò chiudendosi la porta alle spalle e ridendo sonoramente, lasciandosi dietro un ragazzo di ventidue anni dai lunghi capelli castani e dall’ugola d’oro che probabilmente gli stava tirando dietro qualche maledizione.

Si fece il tè, lo zuccherò abbondante come piaceva a lui e si mise i due pasticcini su un piattino.

Ora si cominciava a ragionare!

Si scostò con una mano le lisce chiome nere legate in una coda, che ondeggiarono mentre si sedeva sul ben noto divano bianco.

Mancava ancora qualcosa.

S’alzò di nuovo e s’avvicinò con passo svelto allo stereo che teneva sopra un mobile dall’altra parte del salotto. Tirò giù un CD dalla cima di una paccata che stava lì accanto e lo inserì alzando il volume al massimo. Pochi istanti dopo l’aria di quell’appartamento e probabilmente anche di quelli accanto fu satura della ben nota e riconoscibile linea di basso di Burn dei The Cure. E lui se la suonò tutta gozzovigliando al centro della stanza con fra le braccia un invisibile basso fatto d’aria. Doveva ripassare anche con quello, sì, doveva.

Se lo ripeté mentre fingeva di suonare.

« “ ‘Oh don't talk of love’  the shadows purr, murmuring me away from you…” »

Ahia, lo aspettavano i bignè! Non aveva tempo per mettersi a canticchiare come un dilettante!

Andò a sedersi per la trecentesima volta e ne assaggiò uno.

Gli erano usciti bene stavolta, al terzo tentativo. Non dolci da stomacare e la crema era densa al punto giusto. Bene bene, avrebbe dovuto premiarsi.

 

"Don't talk of worlds that never were

The end is all that's ever true
There's nothing you can ever say
Nothing you can ever do... "

 

Prese un sorso di tè, che s’era ormai freddato al punto giusto. Deglutì lentamente. Quell’album ce l’aveva particolarmente a cuore. E come mai? Risposta semplice e quanto mai ovvia.

Il Corvo era uscito solo da qualche mese, lui ovviamente era andato a vederlo e s’era tirato dietro tutta la combriccola – tranne Takeshi e la sua schifosa abitudine di chiacchierare invece di guardare i film ritrovandosi poi a dover chiedere un riassunto che nessuno era in grado di dargli, perché grazie a lui del film nessuno ci aveva capito nulla. Era uscito dalla sala con gli occhi a cuore, e quella sera era stata conseguenza logica ed imperante andare a procurarsi la colonna sonora, con gli altri che l’avevano seguito perché lasciarlo da solo quand’era esaltato in quel modo non se ne parlava.

Oh, c’erano i The Cure, gli Stone Temple Pilots, i Nine Inch Nails e i Pantera tra gli altri. Bastava? A lui sì. Dei Pantera s’era perfino regalato Far Beyond Driven per il compleanno, gentili loro che avevano fatto uscire l’album giusto pochi giorni prima.

Fra l’altro, ora che ci pensava, doveva anche leggersi il secondo volumetto de Il Sigillo dell’Ariete Rosso. Non gli andava di alzarsi ma per amor del sapere lo fece.

Il reparto manga di casa sua si trovava in corridoio e occupava in totale un paio di mensole belle lunghe. E – non si vergognava a dirlo – era nutrito da una folta schiera di shoujo. Gli piacevano in particolare quelli pubblicati su Hana To Yume e non disdegnava Betsucomi, ma riviste non ne comperava fondamentalmente perché preferiva leggersele a scrocco e tenersi i volumi da collezionare. Facevano bella figura e davano un tocco di colore contro il bianco del muro.

Tirò giù il manga che cercava, dalla caratteristica costina bianca in cima e il resto grigioverde. Storse il naso. Strano, di solito ai manga di Hana To Yume mettevano il blu.

Era ancora con il naso immerso fra le pagine, sbragato sul divano come solo nei suoi momenti migliori sapeva fare, e stava per l’appunto producendosi in un applauso a Merediana, la protagonista che finalmente aveva trovato il coraggio di liberarsi dalle grinfie del malvagio oltreché bellissimo dottor Jezebel Disraeli, quando suonarono alla porta.

Lo stereo stava mandando i Pantera.

Sulle prime pensò che forse il cane guaente, ops, Camui Gackt.

Tuttavia, da sotto le note della cover di The Badge e sopra – incredibile! – i ruggiti di Phil Anselmo, udì distintamente una voce chiamarlo.

« Mana-chan! Apri, sono Közi! »

Sempre uno ce n’era, sempre uno!

Quando aprì la porta aveva la testa china di lato e una smorfia accigliata sulle labbra sottili.

« Koji », disse.

Közi, momentaneamente tornato Koji Hagino causa Diavolo Per Capello di Mana – che poveraccio si voleva solo godere un po’ di solitudine, c’è da dargliene atto – si guardò attorno inarcando leggermente le sopracciglia.

« Ti si sente fin dal pianterreno. »

« Buono a sapersi. »

Közi rise.

« Ti ho preso nel momento sbagliato? »

« I miei momenti oggi sarebbero stati tutti sbagliati, per cui uno vale l’altro. »

Abbassò comunque la musica e fece segno all’amico di accomodarsi.

« Ti porto il tè, aspetta un attimo. »

« No, niente tè grazie! Meglio una bella birra ghiacciata se ce l’hai. »

Naturalmente ce l’aveva.

Gliela portò e si sedette accanto a lui, scrutandolo con una certa aria indagatrice. Közi comunque se la prese comoda, scolandosi due lunghe sorsate di birra prima di parlare.

« Fa un caldo assurdo oggi, eh? »

« Viva i condizionatori. »

Algido come la morte e nessun altro modo per descriverlo.

Koji non si lasciò impressionare.

« E allora come mai il tuo lo tieni spento? »

« Fa male alle ossa tenerlo acceso tutto il giorno come fai tu. »

 « Ma sentilo il vecchietto! »

« Ne riparleremo quando avrai ottant’anni e l’artrite ti avrà piegato come una fisarmonica. »

« Ma io ho caldo adesso, mica fra sessant’anni! »

Manabu Satou non era tipo da abboccare a simili tranelli, per cui continuò a scrutarlo e non rispose. Decise invece di cominciare a farle lui le domande.

« Che ci fai qui? »

« Uh? »

« Non sei certo venuto a parlare del meteo. E nel caso fosse così, be’ se non te ne sei accorto i ciliegi sono fioriti e sfioriti da un bel pezzo, ergo fa caldo, c’è il sole e continuerà a esserci il sole. »

Közi rise di nuovo e bevve un altro sorso.

« Ho saputo che hai sfrattato il vocalist. »

Mana si irrigidì e drizzò ben bene le orecchie. E così il ragazzo era già andato a lamentarsi e a diffondere malignità sul suo conto eh? Bene, buono a sapersi anche quello. Se la legò al dito.

« Dì pure che il vocalist si è sfrattato di suo pugno. »

Non batté ciglio e guardò l’amico che finiva la birra, poi s’alzò per andare a buttare la bottiglia vuota. Quando tornò, l’espressione sorniona del biondo chitarrista che lo osservava non s’era ancora spenta.

« E allora? Cos’ha combinato? »

Mana rimase in silenzio.

« Ha allungato le mani? »

« Semplicemente ho deciso che era ora che si trovasse casa per affari suoi invece di stare a rompere a me. »

« Non lo facevo tanto fesso. »

« Hai sentito quello che ti ho detto? »

« Ha allungato le mani ed è per questo che tu l’hai cacciato in fretta e furia. Giusto? »

Se Hagino Koji era riuscito a non sorprendersi fino a quel momento, lo fece certamente in quel medesimo istante. Osservò il viso di Manabu cambiare espressione, passare da una sorta di quieta stabilità al principio di una madornale incazzatura e infine al vuoto. Al più totale, indescrivibile e inarrivabile vuoto. Lo sguardo che campeggiava nelle iridi nere di Mana solitamente tanto luminose era quello di uno che a pensare ci sta provando sul serio ma pensa che ti pensa non arriva a nulla. Era uno sguardo che fissava l’aria come se quella avesse avuto le risposte che cercava, e sulle sue labbra campeggiava la medesima smorfia irritata con cui aveva cacciato Gackt Camui un paio d’ore prima e aperto la porta a lui poco dopo.

Dopo minuti e minuti di silenzio, minuti nei quali Közi aveva curiosato un po’ per tutta la stanza e soprattutto per la collezione di CD e vinili, da quelle labbra uscì infine un debole biascichio.

« Mal di testa mal di testa mal di testa mal di testa… »

Sopracciglia corrugate e sguardo innegabilmente perso.

« Cioè, tu ieri notte ti sei preso una botta colossale eh? »

Se possibile quel paio di sopracciglia sottili e curatissime si corrugò ancora di più.

« Non mi parlare di botte. Di nessun tipo. »

« Va bene, come vuoi. Comunque lui non mi ha detto nulla eh. Me ne ha parlato Kami: mi ha telefonato poco fa e stava ridendo fino alle lacrime come un dannato bastardo. Ora Satoru sta da lui a quanto pare. »

E bravo Okabe, l’aveva reso il mostro della band con le sue scenette lacrimose.

« Dì a Ukyo di cacciarlo immediatamente se non vuole essere costretto ad aprire la porta a me nelle prossime quarantott’ore. »

« Ho come la sensazione che Kami si sappia difendere meglio di te, sai? »

Mana non colse l’ironia.

« Quello è una specie di mostro delle arti marziali, combatte come un professionista. Voleva fare a botte perfino con Yuuji, figurati. »

« Con Kamijo? »

Manabu annuì lentamente, senza smettere di guardare fisso e drammaticamente torvo l’aria che aveva di fronte.

« Andiamo bene. »

Era vero. Andavano proprio, magnificamente bene.

 

Il caldo lo stava facendo stramazzare. Ma quanto, quanto, quanto era maledettamente calda Tokyo?

Oddio, Hiroshima era a sud e pure lì non è che si stesse chissà quanto meglio. Però era umido, talmente umido che come si faceva una doccia e usciva era di nuovo sudato e se ne doveva fare un’altra. E come se non bastasse ci mancavano i negozi coi loro cavolo di condizionatori sparati tipo cella frigorifera, che appena ci entravi ti ibernavi e quando uscivi il raffreddore era assicurato. Si trattenne dal dire di peggio.

E quei tre mentecatti che erano i restanti musicisti della band, sì tre perché Camui non contava, che l’avevano sbattuto a fare compere con quel caldo soffocante e con un sole che minacciava di scioglierlo a ogni passo e non s’erano manco degnati di accompagnarlo!

La cavalleria è morta, pensava Mana, è talmente morta che quando qualcuno se ne ricorderà penserà che c’entrino le cavallette invece delle buone maniere. E le cavallette domineranno la Terra.

Inforcò meglio gli occhialoni da sole sul naso, calandosi il cappello sulla fronte e procedendo al passo più rapido che le temperature da fornace gli consentivano.

Che cos’è che l’avevano mandato a comprare poi? Dei fuochi d’artificio.

Sì, dei fuochi d’artificio di quelli che uno qualsiasi di loro tre scemi avrebbe potuto comperare in un Combini. Ma no, avevano dovuto mandarci lui. E per cosa poi?

Perché era luglio, avevano detto, era estate, e si doveva festeggiare andando a fare un giro in spiaggia, e che estate era senza fuochi d’artificio? L’estate di un branco di sfigati.

Come se a lui fosse davvero importato qualcosa di quella stagione del cavolo. Solo da piccolo si era divertito a raccogliere gusci di cicala durante il periodo della muta, ma i suoi buoni rapporti col periodo estivo finivano decisamente lì.

Faceva caldo, e lui il caldo non lo sopportava. Già quella sarebbe stata una motivazione sufficiente. Ma no, non bastava ancora, perché al caldo s’aggiungeva il fatto che sudava come un bastardo e gli toccava cambiarsi millemila volte al giorno in più di quanto non facesse già di solito. Infine, se si scottava erano guai perché gli restavano pellicine e ustioni anche per mesi.

Ergo, evitare. Evitare come la peste.

Ma evidentemente era proprio destino che gli andassero tutte storte.

Cercò di riacquistare una sua dignità comprando senza discutere i fuochi che gli avevano chiesto, poi decise che non ce la faceva più nemmeno a fare shopping per cui prese il treno e se ne tornò a casa.

Era fissato per dopodomani, dunque.

Il quattro luglio.

 

Una volta tornato, accendere il condizionatore fu esattamente la seconda cosa che fece. La prima era stata accasciarsi sul divano e respirare un po’ d’aria fresca.

Sul treno ci aveva pensato, comunque, e d’un tratto la questione fuochi d’artificio non gli pareva più così malsana. Alla fine si sarebbe pure divertito, sospettava.

Perché, per quanto strano potesse sembrare a un osservatore esterno, lui era uno che di suo si divertiva con poco. E una bambinata come i fuochi d’artificio era esattamente quello che sarebbe bastato ad esaltarlo alla grande. Solo che si guardava ben bene dall’ammetterlo.

« Ah… », sospirò « Devo avvisare anche Takeshi e Kamijo. »

Sì, buonanotte. Avrebbe pensato più in là anche a quello.

E buonanotte fu davvero, perché qualche minuto dopo stava ronfando come un angioletto.

 

« Etciù! »

Starnutì.

Quella era la maledizione che gli aveva tirato addosso Camui, ne era sicuro quanto del suo naso che colava. Non aveva contato gli starnuti, ma era almeno al centesimo di quella serata decisamente da dimenticare.

E la mattina dopo avevano anche le prove accidentaccio, e lui sapeva perfettamente che non era il caso che le saltasse. Però insomma… poteva immaginare quanto l’avrebbe sfottuto Közi, mentre Yu-ki e Kami se la sarebbero ridacchiata sotto i baffi. E GacktbeGackt era meglio non immaginarselo neppure.

Ci pensò su con dovizia di energie e per lunghi minuti silenziosi, e dopo almeno altri dieci starnuti optò per una telefonata al suo caro amico Koji Hagino. Pregando di non doverlo declassare dopo la conversazione.

Si sentì rispondere al sesto squillo, perché quello scemo di un chitarrista non rispondeva mai prima del sesto squillo. In casa sua la musica era anche più a palla che a casa di Mana, quindi Közi aveva tutti i motivi per prendersela comoda. Non sentiva niente che andasse al di là del rimbombo di qualche brano industrial sparato da far tremare i vetri alle finestre.

« Pronto? »

Tossicchiò un poco prima di parlare, come per enfatizzare ciò che stava per dire.

« Sono Manabu. Domani non vengo alle prove. »

Dall’altro capo del filo gli giunse un silenzio che fu imbarazzante in modo quasi vergognoso.

« Che ti prende? Non è da te saltare le prove. »

Di nuovo si schiarì un pelo la voce, più per nascondere lo sforzo inumano che gli costava dire quell’unica parola che per reale necessità.

« …raffreddore. »

Biascicò quel termine più rapidamente che poté e pregò che l’amico avesse capito tutto tranne quello.

Ancora una volta calò il silenzio, cosa che non gli fece presagire niente di buono.

« Ahahahahah! »

Közi stava ridendo. E ciò fece capire a Manabu Satou che quel ragazzo voleva proprio essere declassato. Doveva tenerci proprio tanto, a giudicare da quanto se la stava spassando.

« E poi chi era che doveva arrivare a ottant’anni piegato come una fisarmonica? »

Mana si rifiutò anche solo di commentare. Semplicemente attese.

Peccato che lo scroscio d’ilarità di Közi durò parecchio, perfino più di quanto Mana si sarebbe aspettato. Fortuna volle che il suo self-control per una volta non lo avesse abbandonato.

« Hagino, cerca di darti un contegno. »

« Capisco, capisco. Vuoi essere in forma per dopodomani, vero? »

Anche qualora fosse stato davvero così, non l’avrebbe mai ammesso neanche sotto la tortura del solletico.

« Voglio solo evitare di appestare tutta la band. »

« Hai comprato quello che ti avevamo chiesto? »

« Secondo te per quale ragione sono ridotto così? »

« E che ne so, magari qualcuno ti ha tirato il malocchio. »

Mana scosse il capo, tirando su col naso. Quello era fin troppo probabile.

« Andrò a farmi esorcizzare. »

Közi ridacchiò un’altra volta.

« Accidenti a te e alla tua mania di chiamare la gente per cognome quando ti incazzi! »

Chiuse silenziosamente gli occhi neri.

« Non sono arrabbiato », mormorò.

« Però in questo momento ce l’hai a morte con te stesso. »

Sì, era vero. Perché avrebbe saltato le prove e perché s’era ammalato come il primo dei cretini. E, in qualche misura, anche per aver cacciato Camui di casa.

Inutile, Közi era proprio il suo migliore amico. Lo capiva meglio di tutti e su questo c’era poco da obiettare. Lo salutò e mise giù la cornetta, per poi andarsi a sedere sul divano con un sospiro.

Alzò lo sguardo e guardò torvo il condizionatore.

« Accidenti a te », sussurrò.

Lo spense.

 

La mattina di due giorni dopo aveva due occhiaie color piombo che toccavano terra.

Certo, s’era trattato di un banale colpo di freddo, sarebbe bastata una giornata di riposo al caldo – ed era sufficiente spalancare una mezz’ora le finestre per avere il caldo – e il raffreddore sarebbe sparito con la velocità con cui era arrivato.

Questo se Mana fosse stato una persona dalla mente lineare.

Peccato che Mana non fosse una persona dalla mente lineare. Proprio per niente. Era anzi una persona di quelle che per certi versi facevano di tutto per complicarsi l’esistenza con le loro stesse mani, così tanto per vivacizzarsi un po’ le giornate.

Difatti Manabu Satou non era andato alle prove. Non era andato alle prove ma in compenso se ne era uscito di casa alle cinque del mattino, coperto solo da una maglietta a maniche corte e dai pantaloni della tuta. S’era guardato attorno con tutto il febbrile distacco di un’anima che sta per andarsene al fronte e aveva infilato una mascherina bianca a coprirgli bocca e naso, poi s’era legato per due volte i capelli – la coda era storta verso destra –, s’era sistemato le scarpe da ginnastica e aveva goduto del fresco che ancora indugiava nell’aria limpida prima dell’alba.

Era ancora notte nera, con tanto di stelle a luccicargli in giù dal cielo. Le aveva guardate ed era stato colto dalla tentazione di salutarle facendo loro un ciao con la mano.

Aveva fatto loro ciao con la mano, s’era stiracchiato ed era partito.

Ad attenderlo il suo solito giro dell’isolato mattutino, sempre di corsa e sempre quando il resto del mondo ancora dormiva. Il che era una balla, perché qualche deficiente in giro in realtà lo beccava sempre.

Un semplice raffreddore non l’avrebbe fermato di certo.

Dopo aver sistemato quella faccenda, se ne era tornato al suo appartamento e s’era fatto una doccia. Poi s’era reso conto di avere mal di testa e di stare rabbrividendo. Il che era sottilmente anomalo e in qualche misura allarmante. Aveva preso il termometro.

Il responso era stato presto dato: qualche linea di febbre, ebbene sì.

Dopo avere inarcato uno splendido sopracciglio che iniziava a necessitare di una sfoltita, aveva sputato una maledizione diretta a un punto imprecisato della sua camera da letto. Cielo, stava iniziando a diventare volgare come quei bruti che aveva per compari.

Comunque, e questo andava detto, non s’era perso d’animo. C’erano volte infatti in cui il suo pragmatismo verso le vicissitudini dell’esistenza raggiungeva i livelli di guardia. Quella era una di queste volte. Senza lamentarsi oltre aveva preso una garza adesiva fredda, se l’era appiccicata alla fronte, s’era preparato da mangiare e aveva ingoiato due aspirine per poi infilarsi nel letto come un bravo bambino.

Tutto questo senza battere ciglio e mentre fuori faceva già un caldo allucinante.

Proprio mentre stava per addormentarsi, però, era squillato il telefono. Con previdenza se l’era portato accanto al letto perché di alzarsi non se ne parlava proprio, non con la debolezza che si sentiva addosso. Aveva allungato una mano pallida oltre il bordo del letto e aveva risposto.

Era sua madre, Ayaka Satou. Sempre con tempismo perfetto.

« Ciao Manabu, come stai? »

Male stava, e aveva avuto la netta sensazione che a sentir quelle parole gli fosse calata la pressione.

« Bene, mamma. »

Si era costretto a dirlo, ma probabilmente le parole gli erano uscite più strascicate di quanto non avesse voluto.

« Che ti prende? Hai la voce rauca. »

Aveva tossicchiato un poco.

« Raffreddore. »

« A luglio? »

Sua madre era parsa sorpresa.

« Perché, non si può? »

Non c’era assolutamente bisogno che ci si mettesse anche lei a rammentargli la sua stupidità.

« Hai preso qualcosa? Che so, un’aspirina… »

« Sì. »

Ne aveva prese due.

« Mangi regolarmente? »

« Sì. »

E poi, in un attimo di risvegliata vanità, aveva aggiunto: « Cucino meglio di te e lo sai benissimo. »

« E le cose come vanno? Col gruppo, dico. »

Mana s’era girato nel letto, mettendosi supino.

« Abbastanza bene. Ho trovato un nuovo vocalist, tra poco dovremmo ricominciare. »

« Ah sì? E che tipo è? »

« Si chiama Satoru Okabe, è di Okinawa. »

« Okinawa? Da così lontano? »

« Io non venivo certo da vicino. »

Quella donna non avrebbe mai potuto ribattergli su niente, c’era poco da fare. Del resto, Mana da qualcuno doveva pure avere preso. Da lei, nella fattispecie.

« Poi vi farò sapere quando faremo il primo live con la nuova formazione. So bene che a te e papà non importa nulla della mia musica, ma fatelo sapere alla sorellina nel caso volesse fare un salto. »

« E cosa ti fa pensare che la spediremmo fino a Tokyo? »

« Venire a trovare il fratellone non è una scusa sufficiente? E poi siamo seri, Hinako ha quasi ventun’anni e il fatto che abbia scelto un’università a Hiroshima non cambia il fatto che ormai s’è fatta la sua vita come me la sono fatta io. Io alla sua età ero a Osaka a suonare. »

Tutto quel parlare gli stava seccando la gola.

« Sì… suppongo che tu abbia ragione. »

La voce di sua madre s’era fatta seria, Mana l’aveva notato subito e non aveva ribattuto oltre.

Era perfettamente consapevole d’essere stato la pecora nera di famiglia e in larga parte d’esserlo ancora, e non gradiva che quel suo status gli venisse rammentato.

« Be’, dovevi dirmi qualcosa? »

« Uh? »

« Perché hai chiamato? »

« Non posso telefonare per sapere come sta il mio primogenito che non torna mai a casa? »

Manabu aveva esalato un sospiro, chiudendo gli occhi e passandosi il dorso della mano sulla garza che aveva appiccicata in fronte.

« Sì, puoi, puoi. Ora però se non ti dispiace stavo per mettermi a letto. »

« Riguardati, mi raccomando. »

« Sì. Ciao, ma’. »

Aveva buttato giù con uno schianto senza manco controllare di aver riagganciato come si deve, s’era girato su un fianco dando le spalle al telefono e non aveva parlato più.

Infine, dopo un sonno irrequieto durato qualche ora, s’era svegliato che era pomeriggio e aveva ricordato di avere qualcosa da fare.

Ci aveva pensato su, guardando il soffitto con gli occhi lucidi per la febbre.

Ci aveva pensato su e s’era alzato.

 

Quelle occhiaie spaventose erano per l’appunto il risultato degli strapazzi del giorno precedente. Aveva dovuto darci una bella mano di correttore e nonostante tutto ancora si vedevano. Perlomeno, comunque, la febbre era passata e anche il raffreddore sembrava aver deciso di dargli una tregua. Per il resto aveva optato solo per un po’ di fondotinta, giusto in modo da uniformare l’incarnato che altrimenti avrebbe avuto un colorito a metà tra il cinereo e il giallognolo.

Erano circa le dieci di una splendida mattinata estiva piena di sole e di belle speranze quando si presentò nella nuova tana di Gackt Camui, ossia casa Kamimura, indossando una T-shirt degli Slayer sopra un paio di pantaloni neri e piuttosto larghi e corredando il tutto con un paio di bracciali borchiati e gli immancabili occhiali da sole. Questi ultimi parevano leggermente fuori posto nel complesso, ma chiedere a Mana di levarseli con quel sole sarebbe equivalso a chiedere a un asino di volare. I capelli li aveva raccolti sopra la testa con una grossa pinza, in modo da tenerseli lontano dal collo. Poco sotto l’informe massa nera delle chiome facevano capolino le cinghie di un piccolo zainetto, che aveva certamente ritenuto più pratico vista la situazione, e in mano gli spuntava un cappello alla pescatora del solito splendido colore nero.

Era quello che avrebbe altrimenti definito “abbigliamento informale”.

Sfortuna volle che ad aprire la porta fosse Satoru Okabe detto Gackt Camui.

Che lo guardò.

Mana ricambiò l’occhiata senza abbassare la testa di un solo millimetro.

« Ciao! » lo salutò Gackt, con gli occhi un po’ larghi per la sorpresa. Era evidente che non se l’aspettava di vederlo lì a quell’ora del mattino.

« …ciao. »

Fortunatamente in quel momento s’affacciò Kami, che si stava spazzolando i lunghissimi capelli color mogano.

« Ciao Mana! Come stai? »

Il chitarrista si batté le mani sulle cosce, e nel farlo una ciocca di capelli neri gli cadde sugli occhi. La soffiò via.

« Ancora in piedi, come vedi. »

« Sono contento. Devo ammettere che ieri ci hai fatto preoccupare tutti, già è raro che ti ammali, figurati saltare le prove! »

Mana inarcò un sopracciglio, poco convinto.

« Tutti? »

Kami sorrise, in quello strano modo rassicurante che solo a lui riusciva tanto bene.

« Sì, anche questo qui! » e diede una pacca sulle spalle a Gackt, ridendo.

Manabu rimase interdetto. Mai quanto Satoru, comunque.

« Mi dispiace », disse comunque guardando altrove.

« Poco male, l’importante è che tu ti sia ripreso. »

Ukyo lo fece accomodare e gli offerse qualcosa da bere, che Mana accettò di buon grado mentre si levava gli occhiali.

Gackt intanto stava guardando il chitarrista come se lo stesse vedendo per la prima volta.

« Mi spieghi che ci fa lui qui? » chiese a Kami.

« La mia presenza ti è forse sgradita, Camui? »

Mana sprigionò quel commento caustico con un sogghigno sul bel volto, osservando di striscio il vocalist che tentava di legarsi gli ormai lunghi capelli castani con scarsi risultati.

« Dai qua. »

Non seppe bene perché, ma si alzò in piedi e gli prese l’elastico dalle mani. Indugiò un poco prima di andare a legargli i capelli, e socchiuse le palpebre.

« Non sei abituato a portarli lunghi, eh? »

Gackt sorrise.

« Già… »

Mana chiuse gli occhi.

« Ecco fatto. »

Gli sistemò le ciocche e si rimise seduto, senza rivolgergli un solo altro sguardo e osservando invece il bicchiere ormai vuoto che aveva fra le mani.

Perché qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte, e non era neppure certo che fosse successo alcunché, probabilmente Mana lo aveva già perdonato.

Sì, doveva essere davvero così.

 

« Mi dite cosa diavolo state organizzando tutti quanti? »

La voce di Gackt Camui suonò alle sue orecchie come una specie di rantolo incredulo.

Le teste di Mana, Kami, Yu-ki e Közi si girarono a guardarlo.

« Ah, non te l’avevano detto? »

« Ma dai, che strano. »

« Scusaci, mi sa che ce ne siamo dimenticati. »

Mana si limitò ad ascoltare quei commenti bevendo sorsate del tè ghiacciato che gli aveva gentilmente dato Kami, a cui tra l’altro era stato rifilato il compito di preparare i cestini del pranzo visto che Manabu non si sentiva bene. Il chitarrista era quindi pronto a scommettere che alla fine sarebbero stati costretti a buttarsi sui bento preconfezionati del supermarket.

Ringraziò il cielo di averci pensato per tempo e di aver preparato al volo qualche onigiri, tanto per stare sicuro che qualcosa da mangiare l’avrebbero avuto.

« Oggi andiamo al mare! » stava dicendo Közi « Viste le belle giornate, ci siamo detti, perché non staccare un po’ e andare a farci un giro verso Daiba? »

Ah, la faccia di Camui era tutta un programma. I suoi livelli di incredulità stavano evidentemente toccando il fondo. Sorrise.

« Per caso non ti va? »

« Oh… no, va benissimo figuratevi. Solo che… ecco, non me l’aspettavo. »

« Be’, suppongo che ogni tanto non sia male prenderci un giorno di vacanza tutti assieme. »

In quel momento, tuttavia, un sospetto s’impadronì della mente di Mana. Sospetto che in breve divenne certezza. E in quel medesimo istante, il campanello suonò.

Fu come se l’avessero pugnalato, quel suono gli rimbombò nel cervello assieme a un brivido.

« Oh, » disse Kami « questo deve essere Takeshi. »

…per l’appunto.

La sua prima tentazione fu di darsela a gambe non appena il batterista s’alzò per andare ad aprire. Sarebbe stato certo poco coraggioso, ma…

Lo fece.

Fu ostentando una nonchalance che non aveva affatto che si mise in piedi, dicendo che “doveva andare in bagno”. Un paio di secondi più tardi era già svicolato con l’agilità di un gatto e s’era tolto di torno rapido come il demonio.

Accidenti a lui! Tra tutto quello che era capitato, s’era dimenticato di chiamare sia Takeshi che Yuuji. Il problema era che gli altri… gli altri… un momento! Se lui s’era dimenticato di chiamarlo, che diavolo ci faceva Takeshi lì? Poco ma sicuro l’avevano avvertito i ragazzi.

Il che voleva dire che lui era nei guai. Non tanto con Taka, no, con lui se la sarebbe potuta cavare offrendogli una birra. Era Kamijo il problema. Kamijo che era un marmocchietto diciannovenne orgoglioso e vanesio come pochi e col carattere testardo e opportunista di una primadonna votata agli affari. In parole spicce una vipera. Una vipera che tollerava affronti e mancanze ancora meno di lui, cosa che aveva sempre avuto il sommo potere di impensierirlo un poco. Crescendo sarebbe diventato un gangster o un abilissimo impresario, poteva scommetterci.

In entrambi i casi, qualcosa di pericoloso.

Ogni tanto ci scherzavano sopra, dicendo che se si fossero messi in società avrebbero potuto fondare la più grande impresa criminale del Giappone. Peccato che se si fossero messi in società, al 90% si sarebbero scannati a vicenda dopo il primo giorno.

Aprì la porta del bagno e ci si chiuse dentro a chiave proprio mentre Takeshi entrava. S’appoggiò contro piastrelle di un delicato color lillà e inspirò forte. In quella stanza c’era un buonissimo odore di profumo, come del resto un po’ dappertutto a casa di Ukyo Kamimura. Andava matto per i profumi, quella era una cosa che sapevano tutti.

Mana si sedette sul bordo della vasca da bagno e attese allungando le orecchie. Poteva udire il vociare allegro di Takeshi un paio di stanze più in là, e gli parve che avesse chiesto anche di lui.

Poco dopo, infatti, la voce penetrante di Yu-ki giunse da dietro la porta: « Avanti Mana, esci. Takeshi dice che non è arrabbiato e vuole salutarti. »

Poteva fidarsi? Socchiuse gli occhi neri.

In quel momento sentì avvicinarsi una seconda persona, che dalla sopraffina risata inconsulta comprese essere proprio Taka-chan.

« Avanti, Mana! Fai il bravo! Mi hanno detto che stavi male, voglio vedere come stai! O sei tanto impresentabile da desiderare sotterrarti dentro un bagno? »

In effetti non avevano poi torto. E soprattutto… lui non era mai impresentabile. Se si escludevano due occhiaie color piombo che toccavano terra.

Si controllò sommariamente allo specchio: il correttore teneva.

Quel fattore aveva fondamentale importanza e poteva garantirgli un discreto controllo di sé nel caso la situazione gli fosse sfuggita di mano. E non se lo augurava.

Sospirò e girò la chiave, lentamente.

Poi abbassò la maniglia e aprì.

« Buongiorno, honey. »

 

Arretrò.

Arretrò alla massima velocità di reazione che la sorpresa e le sue gambe gli consentirono.

Avrebbe dovuto saperlo! Avrebbe dovuto immaginarlo, percepirlo, qualsiasi cosa dannazione!

Invece aveva aperto la porta e se l’era trovato di fronte come l’ultimo dei fessi.

Un ragazzo alto esattamente quanto lui, non un centimetro di più né uno in meno, con un ghigno sardonico e mortifero stampato in una faccia la cui espressione preludeva la dannazione dei sette inferni. Un ragazzo dalla cui testa pendeva una chioma fatta di lunghi, biondi, abbacinanti boccoli perfettamente rifiniti e portati sciolti lungo tutta la schiena. Un ragazzo che lo fissava con occhi scuri che dicevano “te la faccio pagare”.

« …c-ciao Yuuji… »

Il sorriso di Kamijo, se possibile, s’ampliò.

« Honey, sei stato cattivo. Vi riunite tutti assieme per una gita al mare e non dite nulla al vostro roadie? »

Mana sospirò, infine decise che era ora di reagire. Si drizzò meglio sulla schiena e sogghignò guardandolo con una certa nota di divertito allarme negli occhi d’onice. Nonostante tutto, il giorno in cui avrebbe perso contro Yuuji Kamijo era ancora ben lontano e probabilmente non sarebbe manco mai arrivato.

« Perdonami, mi è passato di mente. »

Il che era la pura verità, tra le altre cose. Kamijo inarcò un sopracciglio, senza perdere un briciolo di quel sorrisetto un pelo strafottente che tanto gli si addiceva.

« Be’ per fortuna nei Malice Mizer c’è gente con una memoria più buona della tua, caro il mio Manabu. »

« Suonatelo tu l’Impromptu di Reinhold a memoria, e poi dimmi se la mia non è buona. »

« La tua è buona solo per quanto riguarda le sette note e le loro combinazioni. »

« Sempre meglio della tua che funziona solo se si tratta di contare il denaro. »

Inaspettatamente, Kamijo scoppiò a ridere.

« Hai ragione, lo ammetto. Ma comunque non mi pare il caso di stare qui a discutere, sbaglio o abbiamo qualcosa da festeggiare? »

Stavolta era lui ad avere ragione, decisamente. Ed era già abbastanza tardi, se perdevano ancora tempo non avrebbero festeggiato proprio un bel nulla.

« Camui! »

Ruggì quel nome con l’intenzione di impartirgli un ordine ben preciso.

« S-sì? »

Poteva scorgere la sagoma di Gackt che s’era affacciato solerte dall’altra stanza probabilmente per non perdersi un minuto della scena che stava rapidamente prendendo corpo. Si mise a braccia conserte e gli latrò un altro ordine. Tanto per ribadire una volta di più che con lui non si discuteva e che non accettava responsi negativi.

« Prendiamo la tua macchina e ce ne andiamo tutti a Daiba. Ovviamente guidi tu. »

« Cosa? Ma non ci stiamo tutti e sette su una Ferrari! »

« Caso volle che Taka abbia la macchina, giusto Taka? »

Takeshi annuì.

« Perfetto, quindi Yuuji e Közi salgono con lui, mentre io Kami e Yu-ki saliamo con Gackt. »

Poi guardò i due amici, accorgendosi che lo stavano osservando un pelino perplessi.

« Qualche problema? »

Scossero entrambi la testa in sincro e a Mana quasi scappò da ridere.

« Se non vi fidate porgete le vostre rimostranze al guidatore. »

Detto ciò inforcò gli occhiali e li abbandonò a loro stessi.

Avrebbe avuto tempo più tardi per sentirli lamentarsi.

 

Partirono che erano le undici passate e Mana si ritrovò silenziosamente a pregare che non ci fosse troppa gente in circolazione. Speranza vana, probabilmente. S’era seduto con garbo sul retro lasciando senza protestare a Kami il posto accanto a Satoru, perché se c’era una cosa che aveva imparato da che lo conosceva, Gackt aveva l’abitudine di guidare come un pazzo. E lui a stare davanti ancora non si fidava, ma proprio per nulla. Ukyo invece pareva divertito e continuava a ridacchiare, chiedendo a quell’invasato di un vocalist ragguagli su questo o quel comando della Ferrari.

E c’era qualcos’altro che non gli quadrava. Si guardò attorno.

C’era troppo sole sulla sua testa.

Porc…! Camui aveva avuto la geniale idea di togliere la capotte!

Si voltò ad osservare Yu-ki seduto al suo fianco, con solo una gocciolina di agitato sudore freddo a scendergli lungo una tempia. O era per il caldo? Sembrava tranquillo.

Sembravano tutti tranquilli.

E Gackt partì, sgommando come un idiota.

Esattamente come Manabu aveva temuto.

Si appoggiò al sedile e chiuse gli occhi e ricominciò a pregare perché non ci fossero troppe curve, altrimenti sarebbe finito schiantato addosso a Yu-ki un metro di strada sì e l’altro pure con o senza cintura di sicurezza.

Ringraziò il cielo d’essersela messa, o sarebbe già volato fuori dall’auto da un bel pezzo ritrovandosi con le chiappe sull’asfalto.

D’improvviso udì una specie di click, e la massa corvina dei suoi capelli che inevitabilmente si scioglieva e gli ricascava contro le spalle. L’istinto gli disse di alzare una mano per tentare di afferrare la pinza sfuggita, ma quando alzò gli occhi la sentì sganciarsi del tutto e precipitare con orrore sulla strada sottostante.

Si girò, afferrandosi con le mani allo schienale del sedile e frustando clamorosamente Yu-ki con un paio di lunghe ciocche nere mosse alla velocità della luce.

« No! »

Ukyo si voltò, leggermente preoccupato, proprio mentre la pinza andava a sgretolarsi sotto le ruote del camion che passava dietro di loro.

« Che succede? »

Mana stava fissando il camion come fosse stato un assassino, e al tempo stesso si sentiva lui stesso un assassino. Sì, verso quel cretino di un guidatore dai lunghi capelli castani che girava per la città come se stesse andando su un ottovolante prendendo le curve a duecento all’ora.

« La mia pinza! »

Quello che gli uscì dalle sottili labbra rosee fu tuttavia un sussurro talmente flebile e lamentoso che gli altri non poterono non scoppiare a ridere.

« Kami, tu non hai un elastico a portata di mano vero? »

« Nulla, mi dispiace. Ma comprerai una pinza nuova appena arriviamo. »

Diede un’indicazione a Gackt e svoltarono a destra.

Stavolta Manabu s’aggrappò allo sportello.

« Ma non puoi guidare con un po’ più di delicatezza? »

Gackt gli rispose con un ghignetto divertito che lo mandò letteralmente in bestia.

« Spiacente. »

Poi raggiunsero un rettilineo, e accelerò di nuovo.

I capelli di Mana presero il volo, andando a fare da coda ai sedili posteriori e muovendosi come a ondate contro l’azzurro del cielo. Per fortuna stava andando tanto forte, almeno non si sentiva il caldo. Non si sentiva il caldo ma c’era la luce, e fu quella che lo costrinse a chiudere definitivamente gli occhi scuri e ad appoggiarsi meglio sul sedile.

Stava bene, incredibile a dirsi.

Così bene che finì a ridere assieme agli altri, assieme a Kami, assieme a Yu-ki e assieme a quell’idiota di un Camui.

Che naturalmente non perse tempo e ne propose una delle sue.

« Al mio tre tutti su con le braccia! Uno! Due! Tre! »

E i tre scemi gli ubbidirono, ridendo fino alle lacrime e lasciando le braccia a ciondolare nel vento assieme all’aria.

E la macchina slittò allegramente per il rettilineo perché i tre scemi in realtà erano quattro e Camui se ne stava a ridere come uno stupido assieme a loro e a tutto pensando tranne che a guidare, con le mani in alto come se avessero dovuto sparargli.

E rideva, rideva. Ridevano tutti e la macchina sbandava.

« Gackt tu no! »

La raddrizzò Kami, dando una bottarella al volante.

« Camui, tieni quelle mani sul volante! »

Mana chiuse gli occhi di nuovo e ancora rise, fino a che non si trovò con le mascelle doloranti e le lacrime sotto le ciglia.

Allora sospirò e li aprì e quando alzò finalmente lo sguardo al cielo lo vide azzurro e terso.

E ci si perse.

 

Scese dalla macchina che gli pareva di essere reduce da otto ore di montagne russe, ma s’era divertito. Il tragitto per fortuna non era stato particolarmente lungo. La spiaggia artificiale di Daiba, infatti, si trovava esattamente sulla baia di Tokyo.

Takeshi e gli altri li raggiunsero pochi minuti dopo e appena scesi dall’auto li guardarono come fossero stati degli alieni.

« Ho idea che vi siate divertiti lungo il viaggio o sbaglio? »

Erano stati Kamijo e il suo sorrisetto sardonico a salutarli in quel modo, con un improbabile scintillio di chiome bionde.

« Satoru lasciati dire che guidi come un teppista. »

Questo era stato Takeshi, che tuttavia sghignazzava esattamente come Közi.

« Tuttavia anche noi ci siamo divertiti parecchio, vero Közi caro? »

Kamijo s’avvicinò al chitarrista e gli scoccò un’ostentata carezzina su una guancia, lanciando al contempo un’occhiatina a Manabu.

Che tuttavia aveva ben altro a cui pensare che non i flirt estivi dei suoi migliori amici.

Puntò dritto per la via dei centri commerciali, si infilò nel primo che trovò e quando ne uscì aveva fra le mani non una ma tre pinze per capelli nuove di zecca.

« Erano in offerta », si giustificò.

Come se ne avesse avuto bisogno.

« Oh che bello, dammene una! »

Non fece in tempo a captare la frase che Yuuji Kamijo gli strappò una pinza dalle mani con la rapidità di un fulmine e la usò per sistemarsi parte dei boccoli color dell’oro.

Mana lo guardò.

Lo guardò torvo.

Non fu necessario aggiungere altro, perché Kamijo captò immediatamente il messaggio.

« Ops, dimenticavo. »

Con passo svelto e un sorriso s’avvicinò a Mana, e con la stessa letale prontezza di sempre gli stampò un bacino sulla guancia.

« Grazie. »

A Mana non fu mai chiaro dove trovò quella volta l’autocontrollo per non afferrargli il collo e tirarglielo per fargli fare la fine del gallinaccio giallo canarino di cui aveva evidentemente il cervello.

Probabilmente riuscì a resistere soltanto perché Kami lo dirottò in tempo dai suoi propositi di guerra prendendolo a braccetto e indirizzandolo verso un altro centro commerciale.

 

Il pomeriggio lo trascorsero naturalmente a fare shopping, in particolare razziando una ben fornita profumeria e un negozio di dischi.

« C’è lo Zepp Tokyo qui a Daiba, vero? » chiese Gackt.

« Già », rispose Közi.

« E un giorno noi ci suoneremo », si sentì in dovere di precisare Mana.

« Ammazza quanto siete limitati. Io punto al Nippon Budokan. »

Si voltarono tutti.

Verso Kamijo, che li osservava con fare distratto mentre succhiava un ghiacciolo al limone.

« Tu stai zitto, bimbetto. »

« Dì la verità, Manabu honey, tu hai paura che diventiamo rivali perché sai che sono più bravo di te. »

« Ma sentitelo,sto marmocchietto: non ha ancora imparato a parlare e già sproloquia! »

Intanto si stava facendo finalmente sera e una lieve brezza s’era alzata rendendo meno soffocante il caldo umido. Solo allora, quando il sole finalmente era calato dietro l’orizzonte, si decisero ad andare verso la spiaggia.

Che naturalmente era piena di gente.

Per fortuna di Mana e del suo sistema nervoso che odiava le folle, trovarono un angolo abbastanza appartato e si piazzarono lì con teli e stereo portatile.

« Certo che il mare di notte è una meraviglia! » disse Yu-ki.

Annuirono tutti, respirandone l’odore salmastro e guardando quell’orizzonte di onde nere senza riuscire quasi a distinguerlo da un cielo altrettanto scuro.

Tirarono fuori gli stuzzichini che non avevano ancora mangiato, fra cui gli onigiri di Mana. Il quale li divise con solerte efficienza e lasciò il più piccolo a Kamijo.

Fatto ciò si sedette, inforcò gli occhiali da sole e guardò un orizzonte nero che più nero non si poteva.

Come riuscisse a vederci qualcosa era un autentico mistero.

Anche gli onigiri gli erano venuti buoni, pensò mentre ne masticava uno.

« Mana-chan! »

Non si voltò sentendo la voce querula di Takeshi che lo chiamava, ma continuò a masticare il suo onigiri mettendoci più metodo del necessario.

« Te li sei ricordati i fuochi d’artificio? »

Annuì lentamente, poi cacciò indietro una mano e frugò nel suo zainetto estraendone una bustina di plastica bianca che passò a Koji.

Poco dopo avevano tutti in mano un paio di stelline dal lungo manico coperto di polvere pirica che scintillavano d’oro e di rosso e di verde man mano che venivano accesi.

« Che estate è senza fuochi d’artificio? » chiese Kami sorridendo.

L’estate di un branco di sfigati, gli rispose Mana col pensiero.

Alzò al cielo i suoi, uno d’oro e uno verde. Non si vedevano stelle quella sera, tanto valeva che ce ne aggiungesse un paio lui.

Guardò le scintille, ipnotizzato.

Fino a che non ebbero bruciato tutta la polvere e non si spensero, lasciando solo cenere.

Allora si intristì un poco, e prima che fosse troppo tardi guardò Yuuji e gli fece un cenno col capo. Quello gli strizzò l’occhio e si alzò, poi andò a mettersi di fronte a Gackt. Stava in piedi davanti a quel mare nero, dandogli le spalle e coi boccoli dorati che luccicavano un po’ alla luce lontana dei lampioni.

« Bene. Visto che sono l’unico qui degno di essere il protagonista, ho deciso di chiedere la parte per me. »

Fece un inchino solenne.

Quando cominciò, lo seguirono in coro.

« Happy Birthday to you, happy birthday to you, happy birthday dear Gackt, happy birthday to you! »

Tutti tranne Gackt ovviamente, che era rimasto basito a guardarli e stava con gli occhi larghi e una mano ferma a mezz’aria come se fosse stato bloccato nel mezzo di una frase.

« Buon ventiduesimo compleanno Gackt! »

« Auguri! »

Satoru non accennava a voler proferire parola, ma Mana lo vide passarsi una mano sugli occhi.

« Sacchan? » lo stava chiamando Takeshi  « Tutto a posto? »

Gli diede un paio di pacche sulle spalle e Gackt annuì.

Tuttavia anche da dietro gli occhiali da sole Mana riuscì a vedere benissimo che Satoru Okabe stava piangendo per la gioia. Sorrise di rimando.

« Uhm, Sacchan? »

Takeshi non sembrava disposto a mollare l’osso tanto presto. S’era seduto accovacciato di fronte a Camui e lo stava ad osservare con gli occhi curiosi di un cane fedele.

Satoru a sua volta lo guardò.

« Sì? »

« Abbiamo anche il dolce. »

 

Tornarono a casa che era notte tarda.

Gackt, vai a capire per che accidenti di motivo, aveva accompagnato lui per ultimo e s’erano fermati a parlare sotto il palazzo, davanti quel portone che tante volte li aveva visti uscire la mattina presto per andare a fare jogging sotto la luna.

Manabu non gli stava dicendo granché a dire il vero, e in linea di massima evitava il suo sguardo. D’improvviso pareva che gli scottasse.

« Ti sei divertito oggi? »

Sentì quella domanda come se venisse da mille miglia lontano.

« Sì », rispose.

Gackt Camui stava sorridendo.

« Io non so davvero come ringraziarvi, ragazzi. Davvero, mi… è stata una delle feste di compleanno più belle ed inaspettate della mia vita. »

« Che esagerato. »

« Ma è la verità! »

Di nuovo il sorriso di Gackt, come provò ad alzare gli occhi. Fortuna che non s’era tolto gli occhiali da sole.

« Puoi… tornare a stare da me se ti va. »

Come previsto, chiedergli scusa era al di là delle sue forze.

« Naa, non fa niente. Da domani comincerò a cercare casa per conto mio. Era anche ora, no? Non ti preoccupare Mana. »

Oh, ma lui non si preoccupava, non si preoccupava affatto. Quello che Satoru Okabe combinava era affare suo soltanto finché poteva nuocere ai Malice Mizer. Per il resto, lui era libero come l’aria.

Eccolo quel sorriso disarmante, di nuovo.

Poi Gackt gli si avvicinò.

Lentamente gli pose una mano attorno alle spalle e se lo attirò contro.

Mana trattenne il fiato. Aveva pensato di salutarlo e scappare in casa, sì, l’aveva pensato. Ma di nuovo sorprendentemente non mosse un muscolo e anzi respirò il profumo che aveva Gackt forse per la prima volta. Era di Dior, sicuramente.

Quella certezza tanto bizzarra gli donò un’inaspettata sicurezza, quel tanto che bastava da fare un passo indietro e scostarsi il vocalist di dosso.

« Ora è meglio che vada », mormorò.

Gackt annuì e lo salutò con un cenno della mano.

Sorrideva ancora, lievemente. Che avesse preso il vizio da Yuuji? L’idea gli fece paura.

Poi ricordò una cosa all’improvviso. Accidenti, di nuovo gli era passato del tutto di mente!

« Camui! »

Satoru s’era già incamminato verso la macchina, ma sentendosi chiamare si fermò e lo guardò. C’era un’ombra di apprensione nei suoi occhi nocciola, che si dissipò mentre lo osservava frugare dentro lo zaino con tutta la furia data dall’impazienza.

Manabu non alzò lo sguardo, nemmeno per sogno.

Alla fine trovò quello che cercava: un sacchettino di carta, che lanciò a Gackt con la sua solita ineguagliabile precisione. Lui l’afferrò al volo senza problemi. Ottimi riflessi.

Conteneva una croce, un pendente che aveva le forme d’una semplice ma bella croce d’argento, levigata ed elegante quanto bastava ma anche brillante come la lama di un coltello.

« Il mio regalo per il tuo compleanno. »

Già. Stava male ed era uscito soltanto per comperarglielo, non avrebbe mai capito in che moto di follia improvvisa e suicida.

Gackt aveva sgranato gli occhi, incredulo.

« Grazie! »

Fece per avvicinarsi, ma Mana lo bloccò in tempo alzando entrambe le mani.

« Alt alt alt! Non farti contagiare da quel malefico scriteriato di Kamijo! »

Satoru gli concesse un ultimo, splendido sorriso.

« Allora farò così. »

Si portò due dita alle labbra e gli lanciò un bacio.

« Grazie. »

Poi s’allontanò, e Mana gliene fu enormemente grato.

Almeno non avrebbe potuto vedere quant’era arrossito.

S’avviò verso l’ingresso mantenendo un’andatura normale e attese di udire il rombo ben noto della Ferrari che partiva.

Infine aprì il portone, se lo serrò alle spalle e  lentamente ci si appoggiò contro.

Quindi chiuse gli occhi e si portò due dita alle labbra.

« Ma di nulla. »

 

 

- continua -

 

 

 

N.d.A. Se dovessi iniziare a scusarmi per il ritardo non la finirei più, per cui stavolta non mi scuso. Ringrazio tutti i commentatori per le recensioni, è anche grazie a voi se questa storia continua ancora oggi dopo ben due anni! Come potete vedere comunque la storia procede, Gackt è cotto a puntino e Mana piano piano sta iniziando a subire gli effetti di quello che pare diventerà un corteggiamento serrato. E in più c’è lo spettro di quella notte in albergo a gravare sullo spirito del povero chitarrista, pur se probabilmente la verità resterà sepolta per sempre sotto l’oblio dell’alcol.

Infine, ho due o tre cose da puntualizzare circa questo capitolo.

Primo: come avrete notato ho cambiato il nome di Közi con quello che si ritiene sia il suo nome reale. Inoltre, di Hiroki ne arriverà un altro in futuro quindi meglio non avere doppioni!

Secondo: puntualizzazione circa le riviste che nomina Mana nel capitolo, perché per chi è fuori dall’ambito manga potrebbero non essere riferimenti immediati. Hana to Yume e Betsucomi sono due riviste di shoujo manga pubblicate dalle case editrici Hakusensha e Shogakukan. Hana to Yume è famosa per i suoi manga di stampo romantico/dark/gotico, è difatti quella che pubblica Kaori Yuki (di cui tra l’altro è il manga che legge Mana in questo capitolo, uscito proprio nel 1994). L’altra invece ha ospitato autrici come Chie Shinohara ed è tra l’altro la rivista di “Banana Fish”, lo splendido manga di Akimi Yoshida che è il preferito di Gackt. Comunque, di norma queste riviste escono a cadenza settimanale, bimensile o mensile e sono usa e getta. Ossia le compri, le leggi e le butti. I manga in volumetto escono solitamente a cadenza trimestrale, semestrale e via dicendo, e sono quelli che vengono tenuti da collezionare.

Terzo: i “combini” di cui parla Mana, alias Convenience Store, sono una catena di supermercati a basso costo aperti 24 ore su 24.

Quarto: le date. Sto facendo un casino colossale. Per ricapitolare, la storia parte a fine 1993, con Mana che quindi ha 23 anni e non 24 come ho detto io – ma correggerò non temete. Ora siamo invece a luglio del 1994, quindi Gackt e Mana hanno rispettivamente 22 e 24 anni. Nonostante un po’ di bordello e svariate cose da correggere nei capitoli scorsi, riuscirò a riprendere le fila con le date facendo partire le attività “serie” dei Malice Mizer nel 1995. Perdonatemi per queste sviste!

Quinto ed ultimo punto: la croce che Mana regala a Gackt. L’ho fatta apparire troppo presto a dire il vero, perché Gackt comincerà a portarla solo in epoca “Merveilles”. Tuttavia mi ci stava, quindi mi sono concessa una licenza. Di questa croce (che potete vedere al collo di Gackt in vari photoset di Illuminati ad esempio) si sa poco. Si sa soltanto che gliela regalò un membro dei Malice Mizer e che continuò a portarla per un anno dopo la separazione. Basta e avanza.

A questo punto, inoltre, avrei un favore da chiedere a voi lettori. Avrei bisogno che mi scriviate delle domande che volete rivolgere ai personaggi. Come fossero attori di un film o di uno spettacolo, persone reali insomma. Domande di qualsiasi genere, da quelle stupide a quelle serie e dirette a qualsiasi personaggio. Mi serviranno comunque molto in là con la fanfic, quindi avete tutto il tempo per pensarle! Vi ringrazio per la collaborazione, e spero che questo capitolo vi piacerà!

 

 

Vitani

   
 
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