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Autore: Melitot Proud Eye    02/09/2009    0 recensioni
Si passò una mano sugli occhi, stanco. Riconosceva la città. Oh, c'era stato fin troppe volte... e il problema non era neanche il modo in cui ci era arrivato, paradossalmente. Fissò il giornale, in pratica un foglio, piegato su un banchetto. La proprietaria discuteva con foga degli avvenimenti. Avvenimenti del 1865.
Una vecchia meno stupida di quel che sembra, un'antica punizione ninja e la Kyoto di un periodo turbolento... sotto gli occhi di chi non dovrebbe poterla vedere, tanto meno influenzare. [cronologicamente successiva a La via della spada]
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: [edit 21/8/15]
Qui coinceremo a capirci qualcosa ^^ a proposito, volevo dedicare la fic a Killkenny, che ha pazientemente recensito e supportato
La via della spada... e continua ad essere un fan attivo di Slayers ;-)
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1
Sfavorevoli coincidenze




I.

Non aveva previsto una passeggiata al commissariato, quel giorno. Parola d'onore.
Picchiò la punta della bokken contro l'intonaco del muro di una casa, incitando la vecchia che lo precedeva a proseguire. Anche a debita distanza, il suo fetore rischiava di soffocarlo: era fango misto a sudore e strane spezie, impiastricciati nella crocchia di capelli grigi, nei cenci che indossava, nel fagotto lercio che si trascinava dietro. Ecco il quadro dell'ultima, indesiderata fatica di Kenji Himura.
Sì, c'erano stati tempi migliori.
Giunta ai gradini grigi della stazione di polizia, la vecchia si volse con fare mellifluo, sfregando le mani nodose l'una contro l'altra. Kenji corrugò la fronte, indicandole l'ingresso con uno scatto della testa.
Dentro l'edificio trovarono manovali, una guardia e in fondo al corridoio un comune poliziotto che tentava di non provocare l'ira di Saito (tentativo inutile). Nell'incontrare gli occhi del Lupo, Kenji aggricciò il naso.
«Bene bene, guarda cos'abbiamo qui» disse Saito, laconico, dopo un tiro di sigaretta.
La megera s'irrigidì.
«Quella non è la strega di cui parlavano i giornali?» esclamò il poliziotto comune.
«Rubava dalle case» interloquì un altro. «E seguiva i bambini...»
Saito alzò le braccia, placando gli animi. «Silenzio. Tu, portala dentro.»
La guardia sopraggiunta squadrò la donna, poi le indirizzò un cenno brusco; lei si mosse strisciando i piedi. Kenji la guardò allontanarsi con non poco sollievo.
«Dove l'hai trovata?» disse Saito.
«Al tempietto.»
«Si nascondeva là?»
Kenji scosse la testa. «No, ci vado spesso. Me ne sarei accorto.»
Saito non commentò. Si limitò ad aspirare un'altra boccata di fumo e a soffiargliela in faccia. Kenji si impose di non tossire.
«Se non hai altre domande io me ne vado» sbottò.
Da quando aveva iniziato a "contribuire alla sicurezza del quartiere" e quindi ad aver incontri frequenti con Saito, capiva bene perché suo padre fosse facilmente irritato dall'individuo. Girò sui tacchi senza aspettare un congedo.
In quel preciso istante scoppiò il caos. Si volse giusto in tempo per vedere la guardia carceraria di prima cadere sotto proiettili piumati.
Che cos–
Pur muovendosi d'istinto, non riuscì a liberare la bokken dalla cintura – cozzò col gomito contro il bordo di una sedia.
Un dardo lo colpì al collo.
«Ahi!»
C'erano odore di incenso e fogli volanti dappertutto. Saito ruggiva ordini.
Kenji fissò la vecchia ad occhi sgranati: salmodiava a mezza voce e lo additò, ghignante.
«Pagherai nel Viaggio
Un poliziotto le si gettò contro e lei soffiò in una cerbottana lunga e sottile, costringendolo a gettarsi di lato. Approfittando della distrazione, Saito la mise fuori gioco con uno schiaffo.
Il mondo s'inclinò, facendo schiantare Kenji sulla scrivania dell'usciere.


II.

Sfondò l'intelaiatura con un gran fragore, rotolando fra chiodi e schegge. Quando un bordo sporgente fermò la sua caduta rimase sul pavimento a occhi chiusi, intontito; il nuvolone di polvere che aveva sollevato quasi lo soffocò. Tossì per minuti interminabili, poi lasciò ricadere le braccia sul pavimento.
C'era puzza di muffa.
«Ugh... che botta.»
Cosa diavolo gli aveva fatto la vecchia? Cosa c'era sulla freccetta?
Perché era dovuto capitare a lui, che qual giorno aveva solo voluto recuperare la sciarpa lasciata al boschetto?
E soprattutto, perché nessuno lo aiutava ad alzarsi?
Dolorante, sollevò una palpebra. Al posto della scrivania, dell'atrio soleggiato della stazione di polizia e della faccia agra di Saito, vide una finestra. Il cielo nuvoloso sopra la tettoia che la proteggeva era immenso. Si raddrizzò di scatto.
«Ow.»
La finestra era sfondata; e lui era ricoperto dei suoi frammenti. Aveva rotto quella.
Aveva sfondato una finestra invece di una scrivania, finendo fuori, su un tetto. Il tetto in questione apparteneva a una casa abbandonata e lui era quasi a filo grondaia, seduto sopra tegole malferme, appena fuori da una stanzuccia spoglia. Un po' diverso dal commissariato, come posto. Decisamente più ripido.
L'eco della caduta lo abbandonò, lasciandolo nel silenzio della sera. Kenji si tastò la fronte e si guardò intorno, confuso. Quello doveva essere un sogno, il sogno più panoramico che avesse mai fatto. Sicuramente aveva un bel bernoccolo, nel mondo della veglia. Magari era già stato portato a casa e smaltiva chissà quale impacco o infuso di zia Megumi.
Con precauzionale – pur se dubbiosa – attenzione al precipizio, si tirò verso il davanzale, entrò nella stanzetta e si appoggiò alla parete di legno. Dopodiché incrociò le braccia e chiuse gli occhi, sperando che addormentarsi nel sogno lo facesse svegliare.


III.

Vaghe impressioni di vento. Ombre di stormi.
Nel buio, caldo e silenzioso, una scia color miele. La sensazione solida del legno, un formicolio...
Il sole sul viso.
Quel tocco pungente lo svegliò, inesorabile. Si fece schermo con una manica; tanta luce poteva significare solo due cose: o si trovava ancora al commissariato nell'ora prima del tramonto, oppure era a casa, di mattina, e Inoi aveva di nuovo aperto lo shoji che dalla sua camera dava sul giardino. Sperava per lei di no.
Pian piano riacquistò sapienza corporea e corrugò la fronte: era accasciato contro una parete.
Ma che...
Era mattino, va bene. E lui si trovava ancora sul tetto del sogno. Quel maledettissimo tetto.
Nel percepire il bruciore di un graffio, fin troppo nitido, sospirò. Doveva essere uno di quei sogni pesanti, uno di quelli che non riuscivi ad abbandonare finché non erano diventati stupidi incubi.

Le camere della casa erano silenziose, intessute di polvere e tristezza; sembrava non ci entrasse anima viva da molto tempo. Su ogni piano mobili mangiati dai tarli giacevano fra stoviglie, rotoli di pitture sbiadite – fragili come ali di farfalla – e l'occasionale cumulo d'intonaco, polverizzato dall'umidità insieme alle cortine di bambù che avevano oscurato le finestre. Gli intrecci sfatti del tatami frusciavano sotto i suoi sandali.
Una scala scricchiolante dopo l'altra, raggiunse il pian terreno. Lì i segni dell'abbandono erano più marcati e intrusioni clandestine avevano lasciato ogni sorta di rifiuto: bottiglie, carta, hakama stracciati, le piastrelle di un focolare improvvisato... in un angolo, persino il fodero di una spada. Chissà quanti volti s'erano avvicendati nel recare degrado.
Chissà cos'avrebbero pensato coloro che avevano costruito e amato quella casa, se avessero potuto vederla ora.
Avvolto da una calma onirica, Kenji uscì nel giardino, ormai restituito alle erbacce e agli animali. Il sole fu coperto dalle nuvole.
Dal tetto aveva potuto scorgere poco della strada; adesso, uscito dal muro di cinta, capiva di trovarsi in un vecchio quartiere nobile, così cadente da essere deserto. Possedeva tratti familiari, ma era sicuro di non averlo mai sognato prima. Peccato. A volte, nei sogni ricorrenti, riusciva a guidare gli eventi nella direzione che preferiva. Era divertente.
Con un ultimo sguardo alla villa, imboccò la via diretto verso nord.

Sassi, muriccioli, bambini che giocavano. Nel quartiere popolare vicino i cortili avevano fili di panni stessi e donne a chiacchierare sugli usci. C'era qualcosa, nell'aria... erano gli abiti e certi negozi e il modo in cui il suo corpo riceveva ogni impressione. Era il pizzicore dei graffi. L'abbaio assordante di un cane.
Rallentò, incerto. Forse doveva prendere l'iniziativa, entrare in una casa ed esplorarla senza sapere a chi appartenesse. Di solito funzionava.
Ma in quel sogno le cose non erano facili come negli altri. Qui ogni passo era lento, misurato, e non bastava pensare a un altro luogo per trovarcisi. In realtà aveva oltrepassato pochi bivi. Sarebbe stato in grado di percorrere la strada a ritroso senza problemi.
Il sole andava e veniva. Due asini di passaggio a un incrocio, carichi di legna, alzarono nuvole di polvere che lo fecero tossire.
L'acqua della fontanella in fondo alla strada era fresca come l'ombra di un pergolato.
Il bambino che gli finì addosso sbucando da un viottolo finì per gettarlo a terra. E Kenji, mentre lui si scusava, s'accorse di non averne avuto la premonizione come doveva succedere nei sogni. Era successo e basta.

Non era un sogno. Non poteva esserlo.
Ormai era difficile fingere di non essere sveglio, perché la realtà fisica della piazza rifiutava qualsiasi illusione. Troppa gente, troppo rumore. Kenji si passò una mano sugli occhi, stanco, ma ora decisamente all'erta.
Riconosceva la città. Oh, c'era stato tante volte... e il problema non era neanche il modo in cui ci era arrivato.
Fissò il giornale, in pratica un foglio, piegato su un banchetto. La proprietaria discuteva con foga degli avvenimenti.
Avvenimenti del 1865.
Che stava succedendo? Che scherzo era?
1865.
E' un complotto. Dev'esserci di mezzo Saito...
Con la massima calma, ordinandosi di non pensare troppo a quel che vedeva, girò su se stesso e si mosse nella direzione in cui sapeva che avrebbe trovato l'Aoiya.

   
 
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