«Sembri un ragazzo in gamba, Sang-woo, perciò lascia che ti dica una cosa. Una che non vi insegnano né avranno mai le palle di dirvi come si deve nelle lezioni di Management, Analisi o in un’altra di quelle stronzate del vostro piano di studi.
Quello che conta davvero lo si impara sul campo, nei posti giusti e grazie alle conoscenze giuste, capisci che intendo? Lascia poi che sia il cuore a dettare una tua decisione, anche solo una volta, e sei fottuto. Per sempre.»
Puzzava di vino di pessima qualità e biascicava a tratti, eppure quel professore – molle, viscido, vecchio – parlava con la convinzione di chi è sul punto di rivelare chissà quale preziosa e rivoluzionaria verità.
Agli occhi del giovane studente, però, non appariva altro che nauseante e patetico.
Come se davvero a Sang-woo non fosse chiaro ormai da tutta la vita che il cuore, la pietà, altro non erano che debolezze ed ostacoli per chi aveva avuto la sfortuna di nascere in una città – in un Paese – dove l'unica divinità che governava davvero le dinamiche sociali altro non era che la fredda logica binaria.
Uno o zero.
Dentro o fuori.
Vivo o morto.
Era cresciuto così, Sang-woo, disprezzando l'empatia, biasimando la debolezza e l'ingenuità prima nei compagni di giochi e in seguito in ogni persona che aveva incontrato.
Con mente ferma e calcolatrice analizzava l'anima delle persone come si fa con un problema di matematica, smontandolo nelle sue componenti, formulando ipotesi e individuando la soluzione che, anche se a volte non del tutto corretta, rimaneva comunque la più vantaggiosa per lui.
Gi-hun, che fin da piccolo rientrava esattamente in quella categoria di persone che la vita spietata della Corea del Sud avrebbe sbranato, lentamente, pezzo dopo pezzo, si sarebbe potuto considerare invece il suo esatto opposto, e se c'era qualcosa che Sang-woo detestava nella legge che regolava le dinamiche degli opposti, era la loro inevitabile attrazione.
E, per l’inferno, Gi-hun lo attraeva, lo attraeva tremendamente.
In maniera illogica, incomprensibile, totalmente incontrollabile.
Gi-hun il debole, Gi-hun l'ottuso, l'amico che da sempre aveva posto Sang-woo su un piedistallo, idolatrandolo, ammirandolo, e chi lo sa, molto probabilmente persino amandolo.
Aveva impiegato diverso tempo ad ammetterlo e sarebbe morto piuttosto che confessarlo a qualcuno, ma la vera insospettabile ragione per cui a quasi cinquant'anni Sang-woo non era ancora sposato, stava proprio in quell’ossessione (non amore, quello no, era folle anche solo il pensarlo) per il suo amico d’infanzia.
Sua madre ripeteva sempre alle clienti – sciocche pettegole in cerca di chiacchiere frivole e distrazioni momentanee dalla mediocrità della loro vita – che Sang-woo in fatto di donne aveva standard molto alti.
Ma forse anche lei, in fondo, aveva capito la verità.
Gi-hun era una variabile impazzita, tanto prevedibile sotto certi aspetti, quanto incontrollabile sotto altri, e se, una volta appresa la logica con la quale i giocatori erano stati reclutati, Sang-woo non si era affatto sorpreso di averlo trovato lì, all’inferno con lui, allo stesso modo si era scoperto profondamente sollevato che all’amico fosse stata data la possibilità di andarsene.
Non si sarebbe aspettato (non sperava) di rivederlo, quando le menti dietro al gioco avevano dato loro la possibilità di tornare.
Pregava fra sé che il dannatissimo ingenuo (l’idiota) riprendesse a scommettere sui cavalli, s’indebitasse con gli strozzini, trovasse un modo di badare alla madre, in sostanza se ne stesse il più lontano possibile da quella trappola sadica e mortale, dove qualcuno con una morale come la sua non aveva alcuna possibilità di riuscita.
O forse desiderava semplicemente che se ne stesse il più lontano possibile da lui, dall’illusione di un futuro insieme (parola tremendamente spaventosa) che mai avrebbero potuto avere.
E invece eccolo di nuovo lì, tripudio di sciocco candore e buoni sentimenti, a fare squadra con un immigrato che di giochi da bambini coreani non sapeva nulla, e con un vecchio le cui possibilità di sopravvivere a quel massacro erano inferiori allo zero.
Il cuore di Sang-woo era andato a fuoco.
«Ci muoviamo come una squadra?»
«Potrebbe essere pericoloso. Negli investimenti si dice sempre: mai puntare tutto su una sola carta.»
A quel punto, proprio come immaginava, erano seguiti gli elogi – occhi spalancati che brillavano e quel tono pregno di ammirazione e di stima (d’amore, c’era anche quello) di chi vedeva in lui un eroe, un modello da seguire. Qualcuno di cui fidarsi ciecamente e che sicuramente avrebbe agito per il bene di tutti loro – della squadra.
Aveva dimenticato, Gi-hun – o forse fingeva di non ricordare? – il motivo per cui Sang-woo era finito lì.
Era caduto in disgrazia, come chiunque altro. (Era caduto da quel piedistallo.)
Una fitta, profonda e inaspettata, aveva colpito il petto dell’orgoglio di Ssangmun-dong*, mentre osservava i compagni contendersi le forme rimanenti.
Serve a sviare i sospetti, si diceva, se scegliamo tutti il triangolo gli altri si accorgeranno che abbiamo capito. Giustificazioni a cui non credeva lui per primo.
Poi, quello che segretamente temeva di più, si era avverato.
«L’ombrello? Perché?»
Ma in fondo non aveva forse capito – accettato – fin dall’inizio che era così che doveva finire?
Solo un giocatore sarebbe uscito vivo da lì (sarebbe stato lui) e se anche Gi-hun fosse riuscito a superare indenne il secondo gioco, loro due avrebbero comunque finito per doversi scontrare, magari faccia a faccia, più avanti.
Non era quindi meglio dirsi addio ora, prima che si cominciasse a fare sul serio, prima di perdere qualcosa di ancora più importante della vita?
(Ti riferisci per caso al tuo cuore, Sang-woo?)
Quant’è sarcastica, ora, la voce di quell’inetto di un professore.
«Gi-hun.»
«Sì?»
Una frazione di secondo: tanto esitò Sang-woo prima di dare una risposta che, si disse, non doveva avere niente di personale.
(E di personale invece aveva tutto.)
«Niente. Lascia stare.»
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