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Autore: MauraLCohen    16/12/2021    1 recensioni
Le prime settantadue ore alla Suriak sono l’inizio di una serie di ostacoli che la riabilitazione porterà nel matrimonio di Sandy e Kirsten, ma sono anche la prima, vera occasione che hanno per ritrovarsi.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kirsten Cohen, Sandy Cohen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Distacco 

 
 

« Per le prossime 72 ore i contatti con l’esterno sono vietati. Niente visite né telefonate, è il protocollo. Mi spiace. »

L’infermiera della Suriak era stata gentile ma brutalmente chiara mentre accompagnava Sandy all’uscita della clinica: lui e Kirsten non si sarebbero dovuti parlare per i successivi tre giorni. 
Così volevano le regole.
L’isolamento temporaneo serviva per abituare il paziente a stare in clinica e facilitare il distacco dagli affetti.
Di norma Sandy Cohen non avrebbe mai dubitato dell’efficacia di un intervento di quel tipo, comprendendone appieno l’importanza, ma stavolta il paziente in questione era Kirsten, la sua Kirsten e l’idea di restarle separato per tre interi giorni mentre lei doveva affrontare le crisi d’astinenza, il nuovo ambiente, i medici e l’umiliazione che sentiva, lo uccideva. Kirsten doveva affrontare fantasmi che lui stesso aveva contribuito a creare e ora non Gli era permesso aiutarla a liberarsene. Era tutto assurdo, per lui. Ma i medici lo avevano detto chiaramente: il distacco le serviva.

Lo sto facendo per te.

Se lo ripeté guardando la clinica di riabilitazione dallo specchietto retrovisore mentre andava via e se lo ripeté, di nuovo, davanti al silenzio snervante della loro camera da letto. 
Era ormai notte inoltrata quando aveva avuto il coraggio di parcheggiare la macchina nel vialetto e scendere, i ragazzi non c’erano e Sandy non voleva star loro con il fiato sul collo. Quella giornata aveva stravolto tutti, Seth e Ryan inclusi; se avevano bisogno di stare un po’ da soli, non sarebbe stato certo lui a impedirglielo. Non in quel momento, almeno. 
Anche lui aveva bisogno di stare solo con se stesso; aveva bisogno di capire come era stato possibile che sua moglie fosse andata lentamente a fondo senza che lui se ne rendesse conto. Non aveva avuto il minimo sospetto per mesi: la vedeva allontanarsi, chiudersi in se stessa, ma nulla di tutto quello lo aveva allarmato.
È solo un periodo. Si era ripetuto durante l’estate, quando lei chiudeva il telefono con Seth e scappava in camera senza neanche guardarlo. 
Non è accaduto niente. Le aveva detto la sera che era tornato dopo aver lasciato Rebecca sulla strada, ma nemmeno in quel momento le aveva concesso di parlare. Era stato lui a decidere che interpretazione dovesse dare Kirsten a tutta quella storia e non aveva mai ascoltato la sua, sforzandosi di capirla. 
E giorno dopo giorno, dopo ogni silenzio non superato, lei si era persa e lui se n’era reso conto troppo tardi. 
Per vent’anni Sandy non aveva mai pensato che loro  due potessero rischiare di perdersi, erano una coppia a prova di proiettile, ne era certo. Avevano superato momenti ben più difficili di qualche stupida gelosia e incomprensione. avevano affrontato i loro genitori, vissuto in un furgone postale, con pochi dollari a testa; avevano dormito sulla lamiera gelida, senza materasso, avevano avuto un figlio senza nemmeno sapere che ne sarebbe stato di loro come persone… Fin dall’inizio la loro storia era stata una sfida continua, eppure nessuno dei due pensava di gettarla via. 

Ma ora Sandy sedeva su quel grande letto, sulle lenzuola di seta che a Kirsten piacevano tanto e che aveva scelto con una cura quasi snervante prima di comprarle, mente lei chissà che faceva, da sola, nella stanza di quella clinica… Chissà se si pentiva di quegli anni, delle loro scelte; chissà se lo amava ancora.

Pensava a Carter. A quanto vicino fosse andato quell’estraneo al portargliela via. 

 

« Cosa trovavo in Carter secondo te? Cosa rappresentava? »

« Avanti, dimmelo! »

« Tu mi hai messa da parte »

« Avete avuto una storia? »

« Che diavolo, non ci arrivi? »

 

Sandy rivide davanti a sé Kirsten che lo superava, prendeva le chiavi della macchina e andava via. Il suono della porta che sbatteva gremì le orecchie di Sandy ancora una volta e il suo cuore batté un colpo a vuoto, facendogli venire una fitta al petto. Quella sera aveva passato oltre un’ora in macchina alla disperata ricerca di Kirsten, sperando che non fosse troppo tardi per rimettere le cose a posto tra loro. Mai, nemmeno nei suoi incubi peggiori, avrebbe immaginato quello che lo aveva atteso quella notte. 

Ricordava il suono delle lamiere che si piegavano e lui ne la chiamava. 

“Kirsten? KIRSTEN? Tesoro mi senti?” 

Ma lei non rispondeva. La notte era umida, Sandy ricordava l’odore di asfalto bagnato che lo aveva investito quando era sceso dalla macchina. Aveva incrociato una pattuglia sulla strada sperando che lo conducesse al punto dello schianto; si era fermato prima del perimetro giallo, era corso a piedi fino alla macchina della moglie, ma un uomo in divisa lo aveva fermato, placcandolo di petto. 

“Mi faccia passare” non era una richiesta. 

“Mi dispiace signore, non si può avvicinare nessuno. I paramedici stanno intervenendo.”

Sandy non sapeva come si era rivolto a quell’agente, come lo aveva guardato, ricordava solo lo spintone che questi gli aveva dato per farlo indietreggiare. Era oltraggio a pubblico ufficiale, conosceva la legge. Ma guardava dietro di lui, Kirsten distesa a terra, tra le macerie della loro auro, due medici le prestavano il primo soccorso, dei tubi entravano nel suo corpo. Lei non reagiva. 

“E’ mia moglie” provoò a dire. Poi vide l’ambulanza portarla via e la notte più lunga della sua vita aveva così inizio. 

 

Ora si guardava intorno: le luci accese rischiaravano l’erba del prato che circondava il terrazzo della camera da letto. Da dietro le vetrate, il giardino interno della villa sembrava piacevolmente  tranquillo: la luna si specchiava in piscina e la brezza estiva ne agitava un poco le acque. Sembrava tutto normale, la fuori. Come se l’ultimo anno e mezzo non ci fosse mai stato, come se, da un momento all’altro, Kirsten dovesse sbucare fuori, sdraiarsi di fianco a lui e aspettare di addormentarsi tra le sue braccia. Ma Sandy era da solo in quell’immenso letto, teneva le braccia sopra le ginocchia e le mani una dentro l’altra, senza smettere di torturarsi. Sapeva che Kirsten non sarebbe apparsa, non l’avrebbe sentita avvicinarsi a lui per scaldarsi né avrebbe potuto darle la buonanotte, baciarla e assicurarsi che prendesse sonno serenamente. Era la prima volta in vent’anni di matrimonio che accadeva di andare a dormire senza nemmeno scambiarsi la buonanotte; anche quando erano lontani per lavoro o quando litigavano, prima di addormentarsi, uno dei due cercava l’altro con una telefonata, con un messaggio, persino con qualche stupido post it lasciato scritto sul comodino… Non importava come, quello era il loro modo per dirsi che non importava quanto lontani fossero o perché, avrebbero sempre trovato la strada per ritrovarsi.  

Per questo Sandy lo aveva fatto anche la notte del temporale, quando si era ritrovato in un motel fuori città con Rebecca. 

 

Aveva lasciato cinque messaggi alla segreteria di Kirsten perché sapeva che lei era lì ad ascoltarli, ma la rabbia le impediva di rispondere. Si era scusato, aveva cercato di spiegarle la situazione, ma in cuor suo sapeva che quella volta non sarebbero bastati qualche mazzo di fiori e un bel discorso per farsi perdonare. Quella volta l’aveva ferita, aveva preso le sue insicurezze più grandi e le aveva ignorate. Sapeva che la strada del perdono sarebbe stata lunga e tortuosa, ma sperava di fare un primo passo quella notte, perché non voleva che lei andasse a dormire credendo che lui non stesse pensando a lei.

“Tesoro, è il quarto messaggio che lascio. È tutto okay, stai bene? Il temporale non sembra voler smettere e le strade sono tutte bloccate. Non c’è modo di tornare a Newport, ma credimi: appena se ne presenterà uno sarò a casa. Richiamami appena sentì il messaggio. Mi manchi. Ti amo.” 

Passarono due ore da quando Sandy lasciò quel messaggio nella segreteria di Kirsten e per tutto il tempo era rimasto fuori dalla stanza del motel, seduto sulla panchina sotto la tettoia, nel buio della notte, ad osservare la pioggia massacrare le strade col suo getto violento e incessante. Era ancora in attesa di una risposta quando prese di nuovo in mano il telefono. Ormai era l’una del mattino, Rebecca probabilmente si era addormentata e lui non voleva entrare, non dopo quello che era successo. Era arrabbiato con lei, ma soprattutto con se stesso. In fondo, dentro di sé sapeva che prima o poi Rebecca avrebbe fatto un passo verso di lui; forse un po’ lo aveva pure sperato, per prendersi una piccola rivincita dal male che lei gli aveva fatto ventidue anni prima; ma solo in quel momento si rese conto di quanto era stato stupido. Aveva lasciato che quella situazione gli sfuggisse di mano, che Rebecca s’insinuasse nel loro matrimonio, nelle paure di Kirsten… Lui le conosceva tutte, ma non aveva fatto nulla per allontanarle. Le aveva mentito innumerevoli volte: sul fatto che Rebecca fosse viva, sul fatto che lui l’avesse incontrata e persino sul fatto che la stava nascondendo; eppure Kirsten era stata comprensiva: gli aveva detto che non si sarebbe messa in mezzo, che non voleva impedirgli di fare qualcosa che lui desiderasse fare. Aveva accettato che Rebecca stesse nelle loro vite e lui, anche in quel momento, era riuscito a sbagliare. L’aveva illusa e poi abbandonata e non avrebbe mai potuto dimenticare il viso di Kirsten la notte di quel San Valentino. La porta chiusa. 

“Kirsten, lasciami spiegare” le aveva sussurrato da dietro alla porta, quando l’unica cosa sensata in quel momento erano le scuse. Eppure anche quella notte lei lo aveva perdonato, era andata a cercarlo di sotto, gli aveva permesso di spiegarsi. Ma il mattino dopo erano nuovamente punto e a capo: il telefono continuava a squillare, a interromperli… Rebecca continuava ad essere onnipresente nella loro vita, finché la situazione per Kirsten non era diventata insostenibile e lui, nemmeno quando ormai lo aveva davanti, fu in grado di capirlo.

Quella notte, però, aprì gli occhi e l’unica cosa che voleva era tornare a casa dalla sua famiglia e sistemare le cose, perché non poteva né voleva vivere senza Kirsten e avrebbe fatto di tutto per tornare da lei. 

Ricompose il numero del cellulare di Kirsten, lo lasciò squillare. 

Uno, due, tre squilli… Sandy smise di contarli e aspettò che scattasse la segreteria. 

Sono Kirsten Cohen, al momento non posso rispondere, lasciate un messaggio e vi richiamerò. 

Il nastro registrato cessò e partì il bip, Sandy rimase in silenzio per qualche secondo, la mente ferma sul suono della voce di Kirsten. 

Gli mancava. Dio, se gli mancava.

Si convinse, a quel punto, che il perseverare con la segreteria della moglie fosse solo una scusa per sentire la registrazione della sua voce. Un misero tentativo di sentirla meno distante. 

“Tesoro, sono ancora io. Probabilmente a quest’ora starai dormendo, almeno spero. Volevo solo darti la buonanotte. Mi dispiace tanto per tutto quanto, davvero. Non volevo che andasse così. Ci vediamo domattina, te lo prometto. Ti amo.” 

Sandy si ricordava di essersi addormentato su quella panchina, con il telefono ancora aperto sul petto e la mente piena di pensieri.


Ma adesso che Kirsten era alla Suriak il senso di colpa per quella notte divenne più feroce. Era convinto che fosse stato lì il punto di rottura: Kirsten continuava a battere e ribattere su quel motel, non credeva ad una singola parola che lui le dicesse. 

Non ci sono andato a letto. 

Balle. 

Tesoro, avanti, non puoi essere seria. Ti amo. 

Ancora balle. 

Sandy sapeva che la mente di Kirsten funzionava in quel modo. Le aveva provate tutte per farsi credere e una parte di lui era incredula del fatto che dopo tutti quegli anni lei credesse davvero che lui avrebbe potuto tradirla. Ma il vero problema era Rebecca. Kirsten non pensava che lui potesse tradirla, eccetto che con Rebecca. 
Rebecca. Rebecca. Rebecca. 
Quel nome l’aveva sempre perseguitata. 
Com’era con Rebecca? 
Ci pensi mai a lei? 
Ti manca mai? 
Lei gli aveva rivolto quelle domande infinite volte all’inizio della loro storia e lui la rassicurava, ma sapeva che le parole non le bastavano. Negli anni, poi, la curiosità era mutata; Kirsten non voleva più sapere com’era stare con Rebecca, ma gli chiedeva se gli capitasse mai di pensare a come sarebbe stato se non fosse mai andata via. 
E tu? Ribatteva lui. 
E io cosa? 
CI pensi mai a come sarebbe stato se non avessi lasciato Jimmy? 
Ma non voleva sentire la risposta e allora la baciava prima che quella conversazione diventasse troppo seria. 

La verità è che lui ci aveva pensato a come sarebbe stato se Rebecca non fosse mai andata via, se non lo avesse lasciato e, col senno di poi, il cuore gli suggeriva che lui e Kirsten avrebbero trovato lo stesso il modo di trovarsi e stare insieme, ma il cervello gli suggeriva altro: proiettava scenari in cui loro due non sapevano nemmeno dell’esistenza dell’altro, lo faceva pensare alle loro vite separate e quei pensieri lo terrorizzavano. Si rendeva conto di quanto fosse stato fortunato ad inciampare nell’unica persona al mondo che potesse realmente dargli ciò di cui aveva bisogno, ma dall’altra parte tremava all’idea che se non avesse mai conosciuto Kirsten, non avrebbe mai saputo di cosa volesse davvero dalla vita, di come potesse essere la vita. 

Dal comodino una loro foto lo osservava, Sandy si fermò a guardarla. 
Era una foto dell’anno scorso, scattata d’improvviso da una delle pettegole, mentre loro erano imboscati in un angolo, come al solito. 
Il ricordo lo fece sorridere. 
Si soffermò sul viso sorridente di Kirsten. 
Non avrebbe mai saputo quanto un uomo poteva amare se non l’avesse mai incontrata. E in quel momento avrebbe voluto dirglielo, confessarle ogni parola che sentiva dentro, non gli importava nemmeno di risultare banale o disperato. Voleva che lei sapesse che l’amava, ma era impotente e lo sarebbe stato per le successive settantatré ore.
La immaginava sola, in quella piccola stanza, circondata da cose non sue, senza alcun punto di riferimento, qualcosa che le ricordasse che era tutto temporaneo e che, anche là dentro, non era sola. Sandy in quel momento afferrò il telefono e rimase immobile a fissare il tastierino bianco e immacolato. Avrebbe voluto chiederle com’era andato il primo incontro, sapere di cosa aveva parlato con gli altri, come si sentiva, cosa stava facendo. Avrebbe voluto una qualsiasi informazione, anche insignificante, solo per poterla sentire, per farle sapere che lui desiderava essere lì con lei e che se avesse saputo come fare per aiutarla, non l’avrebbe mai portata alla Suriak. Voleva che sapesse che lui non stava cercando di liberarsi di lei, che non avrebbe mai potuto vivere senza di lei. La voleva lì più di qualsiasi altra cosa al mondo, stringerla a sé e saperla al sicuro accanto a lui. 

Ma non poteva. 

Settantadue ore. L’infermiera era stata chiara. 

È per te, amore mio.

Così Sandy lasciò andare la cornetta sul materasso ed alzò gli occhi venendo investito dal vuoto che l’assenza di Kirsten lasciava in quella stanza. A quell’ora si sarebbe preparata per andare a dormire, seguendo il suo lungo e preciso rituale di bellezza. Lui la immaginò davanti a sé che usciva dalla cabina armadio con addosso il pigiama, diretta verso il grande comò che occupava un’intera parete della stanza, la vedeva aprirne un cassetto e tirare fuori creme e lozioni di cui lui ignorava completamente l’utilità. Lo faceva ogni sera da vent’anni, era un’abitudine che si portava dietro dai tempi del college e forse anche da prima. Finiva di massaggiare braccia e gambe e rimetteva tutto a posto, tornava a letto che sapeva di vaniglia, poggiava la testa su di lui e aspettava di ricevere un bacio. Allora Sandy chiudeva il libro o i fascicoli che stava leggendo e si chinava su di lei. 

“Buonanotte, amore mio”

Buonanotte.”

Per tutti quegli anni era stato un finale scontato per ogni serata, ma quella notte Sandy si rese conto per la prima volta di quanto potesse arrivare a mancargli anche qualcosa di così banale della loro quotidianità e non poteva nemmeno negare di sentirsi terribilmente ridicolo nel reagire così a quella situazione; si trattava solo di settantadue ore. Tre giorni. Non erano ragazzini, lui e Kirsten potevano stare lontani per tre, miseri giorni. Poi avrebbero potuto parlarsi e vedersi e tutto sarebbe stato più facile. 

Avrebbe fatto bene ad entrambi mancarsi. In fondo, erano solo settantadue ore contro una vita intera che avevano ancora da passare insieme. Questo doveva rimettere le cose in prospettiva, insomma! -

Sandy se lo ripeté ancora una volta, anche se ormai aveva perso il conto. Non aveva fatto altro che dirsi le stesse, identiche parole per tutto il tragitto verso casa e qualcosa gli suggeriva che avrebbe continuato a farlo finché non si fosse addormentato; ma proprio mentre si decideva, finalmente, a togliersi l’abito e a mettersi a letto, il suo sguardo cadde sulla sedia accostata al tavolo vicino alla finestra. Sulla spalliera, abbandonato da quella mattina, c’era l'accappatoio rosa di Kirsten. Sandy capì subito che, nella fretta di fare i bagagli, era stato dimenticato: Kirsten non riusciva a rilassarsi se non lo indossava; restare vestita in casa le dava sempre la sensazione che la giornata non fosse finita, che da un momento all’altro si sarebbe dovuta precipitare al Newport Group per risolvere qualche problema. Mettere su l'accappatoio significava poter smettere di pensare al lavoro, a Caleb e a qualsiasi nuova, folle iniziativa di Newport e dedicarsi solo a se stessa e alla sua famiglia. Probabilmente, in quello stesso momento, Kirsten stava mettendo a soqquadro la stanza della Suriak e rivoltando la valigia per cercarlo. 

Sandy si alzò con una spinta, non riuscendo a staccare gli occhi da quel tessuto, gli si avvicinò piano, quasi avesse paura che potesse morderlo; rimase immobile davanti alla sedia per qualche istante prima di prendere l'accappatoio tra le mani e, incerto, lo avvicinò al viso. Respirò il profumo di cui quel tessuto era intriso, il suo profumo, e un brivido gli corse lungo la schiena, facendogli tremare le gambe. 

Solo settantadue ore. 

Le settantadue ore più lunghe della vita di Sandy Cohen. 

 

I successivi tre giorni passarono, anche se Sandy non era in grado di dire come; sia a casa che a lavoro era stato l’ombra di se stesso e la cosa aveva allarmato i suoi figli. Seth e Ryan non lo avevano mai visto così demoralizzato e assente, perciò provarono a tirarlo su in ogni modo: cene in famiglia, serate sul divano a guardare la tv tutti insieme, ma niente aveva funzionato davvero. Sandy si sforzava di assecondare i tentativi dei ragazzi di sollevargli il morale e li apprezzava sul serio, ma nonostante la fatica che faceva per mascherarlo, più passava del tempo con loro più il senso di colpa lo divorava. Se rideva, se per un istante la sua mente si allontanava dal pensiero della moglie, l’idea di starla tradendo lo pervadeva.
Finalmente, però, l’isolamento forzato di Kirsten era giunto al termine. Settantadue ore erano passate e Sandy poteva chiamare e vedere la moglie. Telefonò in clinica appena sveglio e parlò con una qualche segretaria: chiese informazioni sugli orari di visita e sulla durata, poi indagò sul programma giornaliero di Kirsten e alla fine, soddisfatto di quanto appreso, si congedò raccomandandosi di non far menzione con la moglie di quella chiamata. « Preferirei essere io ad avvisarla del mio arrivo » spiegò e la donna dall’altra parte della cornetta non poté fare a meno di acconsentire a quella richiesta. 

La giornata al Newport Group passò che Sandy nemmeno se ne rese conto, non sapeva nemmeno cosa avesse fatto nelle dieci ore precedenti: riguardò distrattamente i conti della società, rispose a qualche domanda dei finanziatori, preoccupati dalla morte improvvisa di Caleb e visionò qualche progetto per pianificare un’azione di vendita che potesse sanare il bilancio; ma era difficile restare concentrato sulle scartoffie quando gli occhi correvano rapidi sull’orologio ogni volta che potevano, impazienti di vedere le lancette puntare le 19:00. 

(...)

Prima di mettersi in viaggio per la Suriak, Sandy chiamò a casa per avvisare i ragazzi che sarebbe tornato tardi quella sera. 

« Vado in clinica a trovare Kirsten, non penso di tornare per cena. Vi ho lasciato i soldi nel cassetto della mia scrivania, cercate di non combinare guai » si raccomandò con Ryan che aveva risposto. 

« Non preoccuparti, noi ce la caveremo l. Tu pensa a stare un po’ con lei e salutala anche da parte nostra. Ci manca molto » rispose il ragazzo prima di agganciare. 

(...)

Sandy arrivò in clinica che il sole stava ormai tramontando, parcheggiò l’auto, si registrò e senza aspettare l’infermiera, si precipitò nella camera in cui Kirsten alloggiava. La porta era aperta, probabilmente da regolamento, e Sandy poté ammirare sua moglie per qualche istante prima di annunciarsi: era sdraiata sul letto, con le spalle appoggiate tra il cuscino e la spalliera, aveva in dosso i pantaloni grigi del pigiama e la canotta verde, teneva gli occhi puntati verso la pagina che stava leggendo, completamente assorta nella lettura. Sandy sorrise nel vederla così, era bellissima come sempre e sembrava anche più serena dell’ultima volta che l’aveva vista. Questo lo rassicurò.  Bussò piano con la nocca dell’indice per farle sapere che era lì. 

« Si può? » chiese, restando fermo sull’uscio della porta. 

Kirsten alzò lo sguardo distrattamente verso di lui ma quando lo vide gli regalò uno dei sorrisi più raggianti che aveva. Sandy era vestito come al solito di tutto punto, in giacca e cravatta, come ormai lei era abituata a vederlo da vent’anni. Nel periodo dell’università Sandy Cohen non era certo l’emblema dell’eleganza, quando Kirsten lo aveva conosciuto, lui non sapeva nemmeno farsi il nodo alla cravatta. La prima volta che provò ad indossare uno smoking fu per accompagnarla alla festa per l’anniversario dei suoi genitori. Nel ripensare a quel momento Kirsten sorrise, Sandy era davvero buffo mentre armeggiava con quel pezzo di tessuto per trasformarlo in una cravatta. Lo aiutò lei, spiegandogli passo passo cosa doveva fare ed ora l’avvocato Sandy Cohen aveva una sfilza di cravatte ben piegate nel cassetto della loro camera da letto, accumulate nel corso degli ultimi vent’anni. 

Kirsten scosse il capo leggermente, ritornando alla realtà.

« Hey » gli rispose, chiudendo il libro per poggiarlo sul comodino. 

Sandy le si avvicinò ma quando lei fece per alzarsi lui la trattenne. « Non alzarti » le disse, mentre le si sdraiava accanto, cingendole le spalle con un braccio per portarla sopra di sé. 

« Non pensavo che ti avrei visto oggi » commentò Kirsten, con il viso poggiato sul petto del marito. « Non hai chiamato, credevo saresti rimasto in ufficio.  » 

Sandy la strinse più forse a sé con entrambe le braccia, accarezzandole la schiena. Affondò il viso tra i suoi capelli e ne respirò il profumo, baciandole il capo. Le era mancata così tanto che non gli pareva vero di averla lì con sé in quel momento. 

« Volevo venire direttamente qui » le spiegò Sandy « E non so se sarei stato in grado di aspettare fino ad adesso, se ti avessi parlato stamattina. » 

Kirsten non disse nulla, ma spostò il viso verso il marito, poggiando il mento sul suo petto. Rimase a guardarlo per una frazione di secondo: era stanco e lei poteva leggerglielo in faccia. Tutta quella situazione stava logorando anche lui; avevano alle spalle mesi difficili, fatti di silenzi, bugie e feroci litigi e il periodo che si prospettava davanti a loro non sembrava migliore. Sandy si era fatto carico del Newport Group e Kirsten non voleva che il marito si lasciasse trascinare a fondo dalla società del padre; sapeva quanto lui detestasse quel luogo e quanta fatica gli costava doversene occupare, ma sapeva anche che lo stava facendo solo per lei, per alleggerirla dallo stress che la morte di Caleb le aveva fatto crollare sulle spalle. Nel vederlo così provato, il senso di colpa di Kirsten si fece più violento, divorando ogni centimetro del suo corpo e della sua mente. 

Dopo Rebecca le cose tra loro si erano incrinate ancora di più, nonostante Sandy avesse provato in ogni modo a colmare la voragine che li aveva divisi mentre lei sentiva di non provato affatto. Era talmente ferita, arrabbiata, che per quanto avesse voluto perdonalo, non ci era riuscita. 

Ora gli sistemava con le dita le ciocche di capelli che gli ricadevano sulla fronte e non poteva impedire a se stessa di domandarsi se Sandy si fosse pentito di non aver seguito Rebecca quella notte. Sapeva che si trattava di un pensiero stupido, ma non riusciva a smettere di torturarsi.

Sandy era lì, con lei

Lui voleva essere lì e anche lei lo voleva lì. 

Le sue erano paure insensate e forse lo erano sempre state, fin dall’inizio.
Eppure Rebecca continuava ad ossessionarla e terrorizzarla; negli ultimi tre giorni aveva parlato spesso di quella donna, del modo in cui il suo ritorno l’aveva fatta sentire ed ogni volta era sempre più difficile scavare a fondo nelle emozioni di quelle settimane. 
Gli incontri di gruppo e quelli individuali erano stati devastanti e dopo ognuno di essi il primo istinto di Kirsten era stato quello di cercare Sandy per rifugiarsi tra le sue braccia e poter così scappare dalle voci nella propria testa, dai ricordi che ancora le bruciavano dentro. Nelle ultime settantadue ore aveva avuto bisogno di lui come mai prima d’allora e non averlo lì con lei aveva resto tutto ancora più difficile da affrontare. Si era sentita sola tra quelle mura, nuda davanti alle domande degli psicologi e terribilmente fragile mentre rispondeva. 
Ora, però, il senso di smarrimento si stava assopendo sotto le carezze di Sandy; per un attimo si era scordata di dove fosse e del perché era lì; tenendola stretta a sé Sandy era riuscito a scacciare via ogni sua irrequietezza, proprio come aveva sempre fatto negli ultimi vent’anni.
La sicurezza che Sandy riusciva a darle le era mancata da morire, non solo in quelle ore, ma durante tutto quell’interminabile anno. Mese dopo mese, l’idea che il loro matrimonio stesse per sprofondare nel baratro della distruzione non le aveva dato tregua  e solo in quell’istante sentì, finalmente, di riavere Sandy con sé. 
Il suo Sandy, l’inguaribile idealista, impulsivo e testardo di cui si era innamorata.
Kirsten lasciò che le proprie dita scivolassero via dai suoi capelli per posarsi sul sul suo volto, lo accarezzò col dorso del pollice mentre accennava un sorriso stanco; si protese lentamente verso Sandy, poggiando timidamente le proprie labbra sulle sue. Quel contatto cancellò la realtà che li avvolgeva. Sandy rispose con delicatezza a quel bacio, assaporandone ogni istante. Kirsten si strinse a lui sempre più forte. Per un momento ad entrambi parve che tutti i problemi di quell’anno non fossero mai esistiti; per un interminabile momento entrambi crebbero di non essersi mai persi.
Erano lì, insieme. 
Entrambi bisognosi di sentire l’altro vicino.
Continuavano a sfiorarsi, mentre le loro labbra si esploravano a vicenda come fosse la prima volta e nessuno dei due accennava a voler smettere. 
Fu Kirsten la prima ad allontanarsi, ormai senza fiato. Teneva la fronte poggiata contro quella di Sandy, gli occhi ancora chiusi e le dita affusolate smarrite tra i suoi capelli corvini.

« Mi sei mancato da morire » gli sussurrò a fior di labbra. Sandy la strinse a sé con decisione, voleva che sentisse quanto disperatamente aveva bisogno di lei.

« Anche tu » le rispose, accarezzandole il viso. 

Di nuovo, la passione ebbe la meglio sulle parole. 

Kirsten si lasciò andare contro il materasso portando con sé Sandy, la bocca di lui aveva già trovato la propria strada per il suo collo. Scese lenta, assaporando ogni lembo di pelle che imprigionava, fino al seno, coperto dalla stoffa della maglia. Kirsten sospirò, stringendo le proprie dita tra le ciocche disordinate della nuca di Sandy. Stava per chiamare il suo nome ad alta voce quando, dalla porta, sbucò fuori un’infermiera sulla trentina: indossava la divisa color indaco della Suriak e teneva i capelli raccolti in uno chignon; gli occhi di Kirsten incontrarono quelli della donna distrattamente, senza realizzare subito cosa stavano puntando. Solo quando l’infermiera parlò, visibilmente imbarazzata, Kirsten ritornò sulla Terra e allontanò Sandy, che finì con le spalle contro il materasso. 

« S-scusate » balbettò la ragazza, rimanendo paralizzata sulla soglia. Allontanò lo sguardo da Kirsten e lo portò su Sandy, rivolgendogli un sorriso gentile. « Signor Cohen, il bagaglio » aggiunse, sollevando una borsa di media grandezza. Sandy stava sdraiato di fianco alla moglie, tenendosi su con gli avambracci. Si sentiva ancora su di giri e fuori dal mondo quando l’infermiera iniziò a camminare nella sua direzione per porgergli la borsa che aveva lasciato all’entrata al suo arrivo. Regole della struttura le aveva detto la donna alla reception: non era possibile introdurre nulla all’interno della Suriak se prima non veniva ispezionato; serviva per evitare che ai pazienti arrivassero droghe e alcol, vanificando, così, il loro percorso di riabilitazione. 
Per qualcuno poteva sembrare stupido – Sandy era tra quelli – ma succedeva più spesso di quanto si credeva che i parenti, nel tentativo di alleviare le sofferenze dei loro cari, portassero loro ciò che serviva per placare i sintomi dell’astinenza; ancora – e questo succedeva ancora più spesso – essendo i pazienti della Suriak uomini e donne molto ricchi, c’erano persone che avevano interessi nel non farli disintossicare, perciò provavano in ogni modo a compromettere la permanenza dei loro clienti d’oro in clinica. 

« Grazie! » Sandy si mise in piedi, prendendo la borsa dalla mano dell’Inter idea per poggiarla ai piedi del letto. 

La giovane donna fece un cenno col capo, rivolgendo lo sguardo al pavimento, in risposta, prima di voltarsi e dirigersi nuovamente verso la porta. Si fermò nuovamente sulla soglia, poggiando una mano allo stipite e voltando leggermente il capo in direzione delle due persone alle sue spalle. 

« Signori Cohen, mi dispiace ma… Vedete, il sesso qui non è consentito, » Era visibilmente imbarazzata e così anche Kirsten, l’unico che sembrava cogliere il lato divertente della situazione era Sandy, che a fatica si tratteneva dallo scoppiare a ridere. Accompagnò l’infermiera fuori dalla porta mentre annuiva, sorridendo. « Ricevuto! » la rassicurò, prima di tornare dentro la stanza, dove si lasciò andare ad una fragorosa risata. 

Kirsten lo guardava con disapprovazione, ancora imbarazzata per quanto successo. 

« C’è poco da ridere! » lo rimproverò lei. « Sono qui da tre giorni e ci siamo già fatti riconoscere. »  Stava seduta sul bordo del letto con entrambe le mani poggiate su di esso, rivolgendo il proprio sguardo verso Sandy che continuava a ridere mentre le camminava incontro. 

« Io lo trovo molto divertente invece. Se escludiamo la relcluscione forzata e beh… tutta la questione… Uhm… Della Vodka. È come essere tornati al college » scherzò lui, sedendo accanto a Kirsten sul letto e cingendole le spalle con un braccio per attirarla a sé. Lei sorrise istintivamente alle parole del marito: era proprio da Sandy scherzare in una situazione simile; Seth aveva ereditato dal padre la sua capacità di fare ironia su tutto, anche nei momenti più improbabili. Quello era il loro modo di aiutare gli altri ad alleggerire la tensione e proteggere se stessi dalla brutalità della realtà e Kirsten era grata ad entrambi per non essersi comportati in modo diverso quando avevano scoperto la sua situazione critica. Almeno così riusciva a vedere la normalità attorno a sé, anche se di normale, ormai, nella sua vita, c’era ben poco e quelle pareti bianco ardeide ne erano la prova. 
Kirsten sospirò mentre la mano di Sandy scendeva e risaliva lungo la sua schiena per darle conforto. Lei posò il capo sulla sua spalla e lui istintivamente le baciò i capelli biondi, tenendola stretta a sé. 

Da quando aveva parcheggiato l’auto nell’ampia area davanti all’ingresso della clinica, Sandy si era sentito sopraffatto dalle emozioni: una parte di lui ancora non realizzava cosa stava succedendo, dove si trovasse. L’immagine di Kirsten prigioniera di quelle mura sembrava ancora surreale e la consapevolezza che lui era stato una delle cause di quel dolore che l’aveva portata a rifugiarsi nell’alcol rendeva l’aria nei propri polmoni densa come il cemento. Non c’erano parole che in quel momento potessero cambiare le cose, nessuna giustificazione nessuna scusa sembravano avere senso per Sandy. Kirsten era sempre stata gelosa di Rebecca, fin dai primi mesi in cui lei e Sandy avevano iniziato a frequentarsi; era come se una vocina nella sua testa le suggerisse che lui sarebbe stato innamorato di quella donna per sempre e che lei non poteva fare niente per cambiarlo. Sandy l’aveva sempre rassicurata, le aveva giurato dal primo momento che Rebecca era parte del passato, qualcuno che per lui non significava più niente; ma aveva fallito nell’unica occasione che aveva avuto per dimostrarle che quelle promesse erano la più sincera verità. sembrava l’unica via d’uscita per allontanare dalla mente quei pensieri, l’unica cosa che poteva aiutarla a colmare il vuoto che il muro tra lei e Sandy le aveva lasciato dentro. 
Una parte di Sandy tremò al pensiero di essere andato così vicino a perdere l’amore della sua vita. 
Prima Carter, poi l’incidente. E l’alcol. Quel maledettissimo veleno che per settimane le aveva annebbiato la mente, tenendola lontana da lui. 
Al ricordo della notte dell’incidente, del corpo di Kirsten tumefatto tra i rottami e sporco di sangue, Sandy sentì l’aria abbandonare i polmoni. Di nuovo.

In quel momento abbassò gli occhi, allacciando le proprie dita con le sue e rimase a fissare le loro mani. Quella di Kirsten sembrava così piccola stretta alla sua. Anche chi non li conosceva avrebbe potuto facilmente capire dal colorito differente della loro pelle che la spiaggia non era una passione comune. Kirsten era bianca come il latte e quell'estate non avrebbe potuto godersi neanche godersi il sole e le calde giornate di Newport, distesa a bordo piscina, come era solita fare. Ma non fu quell’immagine a catturare l’attenzione della mente di Sandy. Il suo sguardo non studiava la sua pelle diafana, ma l’anulare spoglio. 
Per vent’anni, quel dito era stato ornato dal solitario con cui lui le aveva chiesto di sposarlo. L’anello vinto a San Francisco, durante la nottata in cui lui, Paul e il resto dei suoi amici avevano deciso di festeggiare la laurea imminente. Sandy ricordava quella notte come se la stesse vivendo in quel preciso istante. Ricordava di aver litigato con Kirsten prima di partire:  tutto era nato da una sciocchezza da nulla, una domanda. Lui aveva finito il college, lei aveva ancora tre anni da affrontare. Come avrebbero fatto? Come si sarebbero ritagliati il loro spazio? 

« Dove stiamo andando? » Era stato ciò che Kirsten gli aveva chiesto. Un attimo di esitazione. Il silenzio. E si erano ritrovati a gridare l’uno contro l’altro senza nemmeno rendersene conto. Sandy se n’era andato, sbattendo la porta e lei non lo aveva seguito, lasciandolo partire senza più dire nulla. 
Per tutta la sera Sandy si era interrogato sul significato di quella lite. 
Qualcuno gli aveva detto che era fortunato: stava per iniziare un nuovo capitolo della sua vita, stava avendo un nuovo inizio, perciò era tempo di divertirsi e di lasciar stare qualsiasi pena d’amore. 
Non ricordava neanche chi del gruppo glielo avesse detto, erano un po’ alticci quella sera e l’erba aveva fatto il resto, ma Sandy sentiva ancora addosso il brivido che lo aveva percorso da capo a piedi quando le parole nuovo capitolo gli avevano sfiorato le orecchie. Era vero, il lunedì successivo la sua vita sarebbe cambiata per sempre, sarebbe stato tutto diverso, tutto nuovo. Ed era pronto. Aspettava da anni quel momento, quello in cui avrebbe potuto dirsi avvocato; si era preparato per tutta la vita e ora non aveva paura. Voleva solo iniziare a vivere quel nuovo capitolo il prima possibile ed era sicuro di volerlo fare con Kirsten accanto. Perciò quella notte, contro il parere dei suoi amici, ormai troppo ubriachi per capire cosa stava succedendo, Sandy aveva deciso che sarebbe tornato a casa con un anello in tasca. Non importava da dove arrivasse, non per ora, ciò che contava era averlo per poter tornare da Kirsten e dirle quello che sentiva. 
Passò quasi tutta la notte guardando salire e scendere la pinza in ferro, lui provava a muoverla con estrema cautela, cercando di calcolare le distanze, quale uovo fosse meglio prendere. Paul aveva continuato a prenderlo in giro paragonandolo ad uno scienziato. 

« Non stai cercando la cura per il cancro, Cohen. Datti una mossa e prendine uno. » Sandy ricordava chiaramente il tono divertito dell’amico alle sue spalle e ricordava altrettanto bene di non essersi nemmeno girato a guardarlo prima di rispondergli, perché era troppo concentrato sul recupero di un uovo di plastica verde in cui era certo che avrebbe trovato quello che cercava. 

« Sta’ zitto, Paul! Non devi distrarmi. »

Paul rise.

« Tu sei tutto pazzo, amico mio, fattelo dire. » 

Sandy finalmente premette il tasto rosso che troneggiava al centro dei comandi e la leva iniziò la sua discesa verso il pezzo di plastica. 

« Ne riparleremo quando ci sarai tu al posto mio » replicò Sandy, senza staccare gli occhi dal vetro. 

Per un attimo tutto attorno a lui parve allontanarsi; l’unico rumore che sentiva era quello del suo cuore che batteva violento dentro al petto. La pinza intanto continuava a salire con l’uovo stretto nella sua morsa. 

Non cadere. Non. Cadere. – continuava a ripetere Sandy, guardando quel pezzo di ferro muoversi. Sembrava ci stesse mettendo un’eternità. 
Quando finalmente i tre arpioni di metallo lasciarono cadere l’uovo nell’apposita uscita, Sandy si lasciò andare ad un urlo di trionfo, con entrambi i pugni rivolti verso il soffitto. 

« Come fai a sapere che l’anello è proprio lì? » domandò Paul, guardando l’amico piegarsi verso l’apertura a scatto da cui stava recuperando l’uovo verde. 

Sandy per un attimo ignorò la domanda, premendo con il pollice e con l’indice i lati del pezzo di plastica, che subito si aprì con un suono secco. 

« Ci sono solo quattro uova di questo colore dentro alla macchina » spiegò, estraendo un cerchietto di plastica color argento. 

Era fatta. 
Aveva l’anello. 
Sapeva cosa doveva dire. 
Ora stava a Kirsten prendere una decisione. 

Sandy non aveva aspettato un minuto di più quella sera, si era messo in macchina e aveva guidato fino a Berkeley, aveva fatto irruzione in camera di Kirsten, svegliando sia lei che Helen. Erano quasi le quattro del mattino ed entrambe temettero il peggio quando lo videro sulla soglia della porta, sudato ed agitato. Tremava come un bambino al buio, forse perché era proprio così che si era sentito davanti a Kirsten quella notte. 
Ma lei aveva detto sì, senza neanche riflettere un secondo. Lo aveva guardato negli occhi, erano entrambi commossi. Rispose con un filo di voce e lo attirò a sé per stringerlo tra le braccia. 
Sandy non avrebbe mai potuto dimenticare quel momento. Quella sensazione. Stretto a Kirsten credette che il cuore non avrebbe retto un’ emozione così grande, temeva stesse per esplodergli nel petto; ma non accadde e Sandy, quella notte, imparò qualcosa di nuovo sull’amore. Quello vero non uccide. Riempie il cuore, ma non lo fa esplodere, lo fa crescere e crescere ancora, per poter contenere tutto ciò che verrà. 

Ed ora, seduto sul letto di quella stanza alla Suriak, con Kirsten tra braccia, la vista di quell’anulare nudo gli fece tremare le gambe, perché era il simbolo di quell’anno, della loro lontananza. Era il ricordo di tutte le volte che in quei mesi si erano persi e questo lo spaventava. 
Kirsten notò lo sguardo di Sandy e la cupidigia che gli aveva tumefatto il volto e subito capì a cosa stava pensando. In fondo, era lo stesso pensiero che nelle ultime settantadue ore aveva messo radici dentro di lei. 

« Mi dispiace, Sandy… Per tutto. » Le parole uscirono fuori prima che lei potesse fermarle. Una lacrima le solcò la guancia, lasciando una scia umida su tutto il suo viso per cadere e perdersi sul suo braccio. 

Sandy provò a fermare la successiva col dorso del pollice, annodando le proprie dita a quelle di Kirsten. Lei accennò un sorriso languido. Aveva sposato un uomo a cui le scuse, in momenti come quelli, non interessavano, ma ciò non significava che non gli fossero dovute. E lei sapeva di dovergliene. Tante. 
Non solo per gli ultimi mesi. 
Sandy aveva dovuto far fronte a numerosi sacrifici per stare con lei. Kirsten sapeva quanto lui amasse Berkeley e quando gli aveva chiesto di lasciare quella città  per trasferirsi a Newport, non aveva battuto ciglio. 

« È per tua madre. Ha bisogno di te ora e tu hai bisogno di me e Seth a Newport. E poi, possiamo sempre tornare, no? »

Ma non lo avevano fatto, perché lei, dopo la morte di Rose, era voluta rimanere vicino a Caleb. E ancora una volta, Sandy aveva anteposto la sua felicità alla propria. 
Kirsten non conosceva molte persone che avrebbero fatto lo stesso. 

Ricordava ancora quando, dopo Seth, avevano provato in vano ad avere un altro figlio. Sandy lo voleva disperatamente. Guardava Seth, ormai grandetto, e si chiedeva come sarebbe stato avere tra le braccia un altro, piccolo fagotto con le manine e piedini paffuti che ti guarda con gli occhietti dolci. 
Ci avevano provato. Ancora e ancora. Finché la cosa non era diventata frustrante. 
Qualcosa in lei sembrava non funzionare più. 
Sandy continuava a ripeterle che era tutto a posto, che non era colpa sua. 

« Magari dovremmo aspettare e riprovare tra qualche anno. Abbiamo ancora tanto tempo davanti, tesoro, non dobbiamo farne una malattia. » 

Aveva deciso di mettere da parte quel rinnovato desiderio di paternità per lei. Solo per lei. E in tutti quegli anni non aveva ritirato fuori l’argomento neanche una volta per paura di ferirla. 
Perciò sì, Sandy meritava delle scuse. 
E forse meritava qualcosa di più dalla vita di una moglie insicura e alcolizzata, che non faceva altro che pensare a se stessa. 
Forse avrebbe dovuto lasciarlo andare. 
Forse… 
Forse sarebbe stato più felice con Rebecca

« Ehi… » Sandy mormorò contro il suo viso, avvolgendola con entrambe le braccia per stringerla a sé. La sentiva singhiozzare mentre si aggrappava a lui con tutta la forza che aveva in corpo e qualcosa, dentro, gli si ruppe. 

« Non c’è niente di cui scusarsi. Non è colpa tua. » Le lacrime avevano iniziato a rigare anche il suo viso, morendo tra i capelli di Kirsten. « Niente di tutto questo è colpa tua. »

« Ti ho trascinato a fondo un’altra volta » continuò lei, senza ascoltarlo. 

« Non è vero. »

« Quanto ancora dovrai sacrificare per starmi accanto, Sandy? Non ci hai pensato? »

In quel momento Kirsten ebbe una rivelazione: era un disastro. Come donna, come moglie e pure come madre. Aveva tradito la sua famiglia per una bottiglia di Vodka, poi un’altra e un’altra ancora. Quante volte, negli anni, si era rifugiata nell’alcol quando la sua famiglia aveva bisogno di lei? Quante volte aveva abbandonato Sandy a se stesso a risolvere problemi in cui lei lo aveva cacciato? 
Lo guardò negli occhi, entrambi avevano le guance rigate. Perché l’amore doveva fare così male? 

« Ascoltami! » Sandy non le diede modo di darsi una risposta, allungò le mani verso di lei e le prese il viso per assicurarsi di avere la sua completa attenzione. “Chi ha parlato di sacrifici? Niente di quello che riguarda noi due e la nostra famiglia è un sacrificio per me. La nostra felicità è l’unica priorità per me. So di non avertelo dimostrato in questi mesilabbra, ma amore mio, tu sei l’unica cosa che ha davvero un senso nella mia vita. Sei tutto ciò di cui ho bisogno. L’unico sacrificio che sto facendo in questo momento è passare queste giornate lontano da te. Ti amo, lo sai questo?” 

Lo sapeva. Eccome se lo sapeva, ma proprio non riusciva a pensare di meritarsi quell’amore, quell’uomo. Gli aveva fatto passare un anno d’inferno, lo aveva incolpato di non essere un buon padre, lo aveva accusato di non tenere al loro matrimonio, stava per arrivare a tradirlo pur di dimostrarsi di poter vivere senza di lui eppure, nonostante tutto, Sandy era lì davanti a lei, giurandole ancora una volta di amarla più di quanto meritasse. 
Non lo meritava. 
Nemmeno in un milione di anni sarebbe stata degna di quell’amore, di quelle parole che lui le dedicava con tanta passione… Non dopo che non era riuscita a fidarsi di lui. 

« Sandy… » Fu un fiato appena udibile. 

« Kirsten, no. » Lui la interruppe immediatamente, sapendo che avrebbe cercato un altro modo per scusarsi, altrei motivi per incolparsi e non glielo avrebbe permesso. « Non voglio sentire le tue scuse, voglio sentire che anche tu mi ami, che supereremo tutto questo insieme. » L’avvicinò a sé fino a sentire le loro fronti premere l’una contro l’altra. « Ti prego » mormorò a fior di labbra. 

« Non potrei farlo con nessun altro, Sandy. » Kirsten chiuse gli occhi e le labbra di Sandy sfiorarono le sue; erano indulgenti su di lei, perché in nessun modo Sandy avrebbe potuto forzarla in quel momento o in qualunque altro momento. Era certo di ciò che le diceva: non voleva sentirla mai più chiedergli scusa per l’alcol, per Carter o per i ragazzi. Non gli importava, non pensava che fosse colpa sua… Non era colpa sua. Avrebbe voluto farglielo capire, farle provare ciò che sentiva lui; avrebbe dato tutto perché lei sapesse che non c’era una sola parte di lui che non incolpava se stesso per quell’anno. Si incolpava di averla ferita a tal punto da farla sentire come se non avesse nessuno. Carter era stata solo ed esclusivamente colpa sua, l’alcol era colpa sua… Lei era solo e per l’ennesima volta la vittima impotente del suo egoismo e della sua distrazione. 
Quel pensiero lo portò a stringerla più forte: una delle mani che le stringeva il volto, si insinuò tra i suoi capelli, catturando più e più ciocche tra le dita. Sapevano di casa, di lei. E i sensi di Sandy si annebbiarono, i suoi baci divennero più audaci, fino a lasciarla senza fiato. 

« Ti amo » lo anticipò lei, mentre entrambi affannavano. 

Certo ci sarebbe stato molto altro da dire e Kirsten sentiva che in quel momento avrebbe potuto lasciare andare tutto quello che in quei mesi si era tenuta dentro: dalle scuse che sentiva di dovergli rivolgere per l’estate passata, per non essersi fidata di lui abbastanza da perdonargli il suo riavvicinamento a Rebecca, per Carter e se avesse scavato ancora a fondo, certamente avrebbe trovato altri motivi per cui scusarsi con Sandy; ma sentiva anche che in quel momento avrebbe potuto finalmente confessargli il turbine oscuro di pensieri che l’aveva inghiottita da quando il nome di Rebecca era saltato fuori quella maledetta mattina in cui Max lo chiamò. Avrebbe potuto, sì. E lo avrebbe fatto, ma mentre la sua mente cercava le parole, Sandy le aveva baciato la fronte e si era alzato. Lei lo seguì con lo sguardo, incapace di cogliere cosa sarebbe seguito dopo.
Stava già andando via? Si stava guardando intorno? 
Come se quello fosse il momento giusto per farlo, poi. 

« Sand- » provò a dire, ma la voce si interruppe a metà mentre lui si inginocchiava davanti a lei, con lo sguardo basso, rivolto alle mani che nascondevano qualcosa. 

« Certo non mi sarei mai aspettato di farlo qui » iniziò Sandy, rivolgendo i suoi occhi blu a quelli azzurri di lei. « In questi anni ho pensato tanto a quando lo avrei rifatto e mi immaginavo la spiaggia, se mai fossi riuscito a convincerti a venire con me, o la casa dei tuoi, quella a Palm Spring. Te la ricordi? » I suoi occhi brillavano. 

Kirsten sorrise: certo che la ricordava. Suo padre l’aveva fatta costruire proprio ad un passo dalla spiaggia, per sua madre, ed entrambe l’adoravano. Aveva enormi volte, intere pareti fatte di vetro trasparente da cui si potevano ammirare il bosco e l’oceano e lei ricordava bene il primo Natale che lei e Sandy avevano passato insieme, in quella casa. Passavano tutto il loro tempo sul divano, davanti al fuoco, mentre fuori nevicava timidamente. Era stato il Natale più bello della sua vita e niente avrebbe potuto portarle via quel ricordo. Ma dirlo, in quel momento, sarebbe stato inutilmente prolisso, così si limitò ad annuire, incapace di trattenere un sorriso nostalgico e commosso. 

« Ci abbiamo trascorso il nostro primo natale, lì. Stavamo insieme da quanto… Due… Tre mesi? - Kirsten annuì ancora - e io ero già completamente e irrimediabilmente pazzo di te. Quando ci siamo conosciuti non volevo nemmeno innamorarmi, né di te né di nessun’altra. Credevo di aver conosciuto l’amore e di averlo lasciato fuggire. » Fece una pausa per prenderle la mano. «Quando ci siamo conosciuti ero rassegnato » terminò, accarezzandole l’anulare spoglio. « Non sono mai stato uno che credeva in cose come il destino e non gli ho mai dato grande importanza, ma credevo nell’idea che ci si innamora veramente una sola volta in tutta la vita e ci credo ancora, perché c’era qualcosa quel giorno… nel modo in cui ci siamo parlati, in cui mi hai guardato. Non potevo lasciarti andare via senza la certezza che ti avrei rivista. Perché avevo ragione: l’amore vero lo incontriamo una volta sola nella vita e io, il mio non lo avevo ancora conosciuto. Tu hai messo un punto fermo nella mia vita, hai segnato un prima e un dopo e io me ne sono accorto quando, ormai, non potevo più fare a meno di noi. Sei l’amore della mia vita Kirsten Nichol Cohen e so che a questo punto, forse, non ho il diritto di dirtelo, ma in tutto questo anno, non c’è mai stata una sola volta in cui il mio amore per te è stato in dubbio. Rebecca è stata un capitolo della mia vita, ma tu sei la cooprotagonista della mia storia, della mia vita e non voglio trascorrere un solo minuto senza avere la certezza che tu la stia vivendo con me, perciò… » La voce di Sandy sfumò, la sua mano si schiuse attorno ad un piccolo cofanetto di velluto rosso, talmente piccolo che Kirsten non aveva potuto notarlo fino a quel momento. Sandy le sorrise. «  … Spero che tu dica sì un’altra volta. » E così dicendo rivelò uno splendido anello su cui svettava un diamante incastonato nell’oro bianco. Lo lasciò sospeso a mezz’aria tra loro due, incapace di contenere la gioia e l’emozione che si facevano spazio nei lineamenti del suo viso. « Kirsten, vuoi ri-sposarmi? »

Le gote di Kirsten si rigarono di calde lacrime dolcissime. Annuì con la testa, ripeté quel sì all’infinito come se fosse la prima volta e lui non attese un secondo di più per stringerla a sé. 

« Ora è fatta » le mormorò tra i capelli «Sei mia moglie… di nuovo. »

E finalmente riuscì a farla ridere… di nuovo, mentre le lasciava correre l’anello sull’anulare. 

 
 
   
 
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