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giudice e autore
di asmodeus
Jean dice,
E si salvaguardia – da qualsivoglia
aggressione personale, perché è facile,
è sempre troppo facile – adattandosi,
colorandosi dei colori di altri, mescolandosi nella chiazza marrone
della
tavolozza; sono troppe le sfumature, nessuna di loro si distingue. E ad
un
certo punto, a tal proposito, dice,
Tra la massa indistinta di volti che
corrono – ridono – si lamentano –
camminano a testa bassa, incappucciati,
incamiciati, con gli zaini pesanti – nel ronzio indelebile di
scarpe che
marciano sulle piastrelle grigie, nel vociare, nell’urlare
– parole mai
sentite, lingue diverse, piani per uscire, chiedere i soldi per le
compere,
mangiare fuori – armadietti che si aprono e chiudono, il
metallo che sbatte; lo
spingono da una spalla mentre è fermo – Jean si
stringe lo zaino con una mano
mentre è fermo, e guarda, lo guarda – in mezzo al
corridoio lo guarda, con i
capelli che gli calano sulla fronte, gli baciano le sopracciglia. Jean
– gli
scoppia il cuore, Jean – Jean dice, facendo degli
sperimentali passi avanti,
E cullandosi nell’idea che, alla
fine, mal che vada – e mal che vada, pensa, premendo le
unghie nella carne
morbida dei palmi, consolandosi nella pena dolce di un supplizio,
autoimposto –
mal che vada, pensa, e non pensa ad altro; quanto male vuoi che vada?,
Vuoi che
vada male, Jean? – c’è una
dignità da mantenere, uno status quo; oh, certo, ma
è l’ultimo giorno di scuola, pensa, prima delle
feste – e sono grande, adulto,
so come gira il mondo (intorno a lui, padre di galassie, di stelle
vive, brillanti,
che pulsano sulle sue guance, sulla punta del naso). Queste cose, i
grandi, le
fanno – tirano dadi, scommettono la vita.
Cullandosi nell’idea che
l’eventualità di un fallimento ferisce come una
freccia in pieno petto, ma
cos’altro posso fare – rimpiangere il momento,
ammirarlo da lontano, rischiare
di non chiederglielo? – quanto voglio essere felice, oggi,
domani? Quanto
voglio – di lui, pensa, e Jean, avvicinandosi, ponendo i
semi, guardandoli
germogliare, mordendosi le labbra – quanto voglio esserlo,
felice? –
tossicchia, e lo raggiunge.
Jean dice,
“Marco,” e Marco si gira, gli sorride, non esita
– non esita
più, oramai sono grandi, grandi, e Jean la vede, la rosa, lo
stelo che cresce, corallo,
la coglie e la strappa, si buca le mani con le spine.
Ma Marco ascolta. E ad un certo
punto – su una panchina, lontano da
orecchie curiose – siedono sotto la gelata
impassibilità di un tramonto precoce
ed invernale, e mentre la neve canta adagio, e si giace
all’umido, sporco
suolo, Marco (e Jean lo aspetta, chiude gli occhi, li stringe),
Marco lo bacia.