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Autore: Ciuscream    22/12/2021    8 recensioni
Poi, d’improvviso, alza gli occhi, come richiamato da una forza centrifuga che rifugge quel centimetro di lana che attira il suo sguardo: si ritrova a cercare sua moglie, l’unica che, con quel profumo di torta alla melassa, con la farina sul naso e sul grembiule, può rimetterlo al mondo con una sola occhiata, con un solo sorriso – anche quelli di rimprovero.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Famiglia Weasley, Harry Potter, Nimphadora Tonks, Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Arthur/Molly, Charlie/Ninfadora, Fred Weasley/Hermione Granger, Remus/Sirius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Questa storia partecipa all'iniziativa “Regali d’inchiostro tra i tavoli del Pub” indetta dal gruppo Facebook “L’angolo di Madama Rosmerta”.


A Greta e Silvia,
alla bellezza delle loro parole.
 


Se non questo?

 
La neve ammanta Londra e la sua periferia come un panno leggero, che copre ma non scalda. Sono giorni che, senza sosta, valanghe di fiocchi si riversano sulla città, litigano e stridono con il sale che decine di mezzi babbani continuano a sparpagliare lungo l’asfalto, lasciando la traccia umida e poltigliosa del loro passaggio. Il signor Weasley è stupito ogni volta della straordinarietà del loro ingegno – essere senza magia, pensa, li ha resi meno pigri, più reattivi, più intelligenti. Ed è con l’ombra di questo pensiero che assottiglia gli occhi sulla strada, dove una mamma trascina una bambina avvolta in un piumino rosa confetto, a fare il paio con il cappello con pon-pon che sventola sotto il vento che sferza leggero e gelido. Non è solo per la loro capacità di far fronte alle carenze di magia che Arthur li invidia; li invidia, soprattutto, perché sono ignari. Li invidia per quel Natale al riparo dalla cappa di paura e malinconia che ammanta tutti loro, che si fa più pungente per lui ad ogni movimento, quando il morso di Nagini torna un ricordo nitido e le sue pupille strette e verticali sono un flash che compare, all’improvviso, dietro le palpebre. Sente una sensazione strana, un brivido in fondo all’esofago, qualcosa che si incastra e lo strizza. Come se gli fosse trapelato dentro un veleno che nemmeno i Medimaghi hanno riconosciuto, come se quel serpente gli avesse rubato qualcosa di più di troppe gocce di sangue e timore – la sua solita serenità placida, quella che gli si piazza in viso con una facilità allarmante, quella che Molly ha sempre descritto come il primo dei mille motivi per cui ha acconsentito a sposarlo, molti Natali prima. Lei, si ritrova a pensare, è sempre stata antidoto – ad ogni tipologia di male.

La bambina vestita di rosa è ormai sparita dal breve angolo di visuale concesso dall’ubicazione del dodici di Grimmauld Place ma lui non l’ha dimenticata – lei e quell’invidia buona che prova per i Babbani. Ha ancora addosso il pigiama con cui è tornato a casa dal San Mungo: Molly non ha fatto troppa resistenza e l’ha lasciato così, nel calore e nella morbidezza di quella stoffa a righe grandi. Lui sa che quella piccola concessione è frutto della felicità di riaverlo a casa – guarito – nonostante i metodi non magici, quei maledetti punti di sudura, come li ha spesso chiamati, che non l’hanno fatta dormire per giorni.
Arthur sorride di quell’errore di pronuncia e si liscia appena una piega del pantalone con la mano; cerca di incastrare nello spazio fra i colori della stoffa quel poco dolore che ancora gli pizzica le ferite, che gli ricorda che sono state lì – come un monito. Poi, d’improvviso, alza gli occhi, come richiamato da una forza centrifuga che rifugge quel centimetro di lana che attira il suo sguardo: si ritrova a cercare sua moglie, l’unica che, con quel profumo di torta alla melassa, con la farina sul naso e sul grembiule, può rimetterlo al mondo con una sola occhiata, con un solo sorriso – anche quelli di rimprovero. Anche se Percy gliene ha rubati un po’ e gliene ha sbiaditi altri, Molly non smette di dispensarne a destra e a manca, ai molti avventori che adesso affollano quella versione inedita di Grimmauld Place, così colorata e così affollata. Così viva.

Si volta verso l’albero genealogico dei Black, nascosto da un abete grande e addobbato alla bell’e meglio: gli ricorda casa, gli ricorda la Tana, e si ritrova, involontariamente, distrattamente, a sorridere. Sua moglie è seduta poco lontano; ha gli occhi puntati su di lui e una pieghetta al centro della fronte, quella che ormai sa riconoscere da miglia di distanza: è un misto di amore e preoccupazione, la stessa con cui ha piantato l’orologio alla parete della cucina, per poter controllare sempre che tutti stessero bene, per averli sotto controllo. Abbandona il lavoro a maglia che dirigeva più con la bacchetta che con i ferri del mestiere e si avvicina a lui con il passo un po’ stanco, con gli occhi piegati in un’espressione d’amore e di purezza limpida, come il colore delle sue iridi. Si scontra con il nocciola di quelle del marito mentre gli carezza piano la guancia con la mano.

“Tutto bene, Arthur caro? Hai dolore?”

Lui scuote la testa e la pieghetta al centro della fronte le si addolcisce appena, così come le sottili rughe ai lati degli occhi, ad incorniciarle il viso tondo e materno. Il calore della sua mano sulla pelle, si ritrova a pensare lui, è davvero una panacea, è l’ultimo rifugio in un mondo che si avvia alla guerra.
Vorrebbe perdersi un altro po’ in quel chiarore così accogliente ma lo sguardo di Molly è già saettato altrove e, precisamente, su un paio di stivaletti piazzati su una poltroncina dall’aspetto logoro. Il proprietario di questi sta stravaccato sul divano, con una mano poggiata sulla pancia gonfia dal pranzo e con l’altra a premersi con forza qualcosa sull’orecchio.

“George!” esclama lei, a richiamarlo e ad intimargli, con un gesto perentorio dell’indice, di togliere le scarpe da quel velluto brutto e consunto, più per educazione che per paura di rovinare ciò su cui tarme e tarli hanno già fatto banchetto.

“Mamma, parla piano! Non riesco a sentire” la rimbecca lui, mostrandole un’espressione concentrata e un veloce cenno del viso, a farle capire che sta ascoltando qualcosa. Lei gli rimanda indietro uno sguardo di rimprovero così truce che Walburga Black annuirebbe fiera. Lui alza la mano libera in segno di resa e slaccia l’intreccio delle caviglie, facendo precipitare di nuovo i piedi a terra, con un gesto volutamente rumoroso e teatrale.
“Fossero sedie belle, poi!”

“Non capisco perché Sirius non le abbia buttate con tutto il resto”
La voce di Tonks arriva dalla sua destra; la ragazza fa sfuggire dalle labbra quella considerazione come se si fosse appena ridestata da un piccolo torpore e fosse riuscita a cogliere solo qualche sillaba di quel breve sprazzo di conversazione. Ha anche lei lo sguardo che vaga sulla strada, con le iridi che cangiano dal sognante al malinconico, buttata tra i cuscini in maniera scomposta, proprio come il suo compagno di divano. Deve avere incrociato anche lei la bambina vestita color confetto, perché i suoi capelli ricalcano lo stesso identico colore. Li scompone con un gesto leggero della mano, prima di acchiapparne una ciocca e prendere ad arrotolarla compulsivamente intorno all’indice, con un movimento meccanico, naturale, sovrappensiero.
A vederli, lì così vicini, sono quasi comici: entrambi stravaccati, disfatti, ma con due espressioni diametralmente opposte. Una è segnata da una concentrazione tenace, l’altra da una morbidezza quasi svogliata, trasognata. Hanno entrambi addosso i maglioni che la signora Weasley ha prodotto senza sosta, nelle sere in cui l’insonnia le mangiava i sogni e in quelle vegliate accanto al letto di Arthur: sono uno di un rosso acceso ed intenso e l’altro di un violetto che sfila al lavanda – accostati, sono di due sfumature belle da vedere come Argus Gazza al mattino.
Entrambi stringono qualcosa tra le mani: lei un pezzo di carta strizzato dentro il palmo della destra, piazzato involontariamente all’altezza del cuore. Lui, l’estremità di una delle Orecchie Oblunghe che ha sistemato di sopra, per non perdersi nemmeno uno stralcio di quella conversazione per cui è deciso a prendere in giro il fratello nei secoli dei secoli amen. Entrambi, per adesso, tacciono, lasciando che sia il rumore degli spargisale e dalle chiacchiere a bassa voce dei signori Weasley a riempire l’aria.

Tutti gli altri rossi di casa sono sparpagliati sui vari piani di Grimmauld Place o si trovano altrove. Ed è a questo altrove che Dora rimanda il fiume di pensieri che le sfocia dalle tempie e si apre a delta in una stanzetta in Romania, nel freddo che immagina avvolgere Charlie, ora che lei non è lì con lui. È un freddo fittizio, però, un freddo soltanto mimato da quella fantasia di pensarlo solo e triste senza di lei, a ricalcare la sensazione che prova, identica, senza i suoi capelli scarlatti tra le dita. Molto probabilmente, però, lui sarà molto più al caldo di lei, avvolto in quel fuoco che non si spegne nemmeno a Natale e che lo ha costretto a riprendere in tutta fretta quella mattina una Passaporta, una volta assicuratosi che suo padre avesse rimesso ai piedi le pantofolone a forma di Puffola Pigmea che sfoggia solo in giro per casa.
Dora ripensa all’espressione preoccupata del secondo dei Weasley, a quell’apprensione che gli si è sciolta in viso quando ha visto Arthur riaprire gli occhi. Sente quella sua pressione di sentirsi quasi di troppo, quel sentirsi colpevole per la lontananza che sempre li separa e che, lo sa, ha paura che un giorno li divida per sempre. Ora anche Dora, però, è un motivo per rimanere arpionato a quell’isola lontana dalla sua nuova casa e, averla ritrovata, è uno di quei regali che non si crede mai di meritare, nemmeno se si è stati molto buoni. È quello che le ha scritto in quel foglietto di pergamena che lei stringe tra le dita, quasi fossero le sue ciocche, mentre sente ancora sulle labbra il sapore dolciastro di quell’arrivederci breve, sapore che le allarga un sorrisetto vagamente ingenuo, che spruzza sulle punte color confetto un timido blu felicità.
Non lo nota nessuno, tantomeno George, che ha ancora in viso uno sguardo assottigliato e l’estremità dell’Orecchio Oblungo adesa al suo padiglione auricolare, a completarlo di un identico semicerchio. Ha la bocca schiusa e trepidante, come se stesse aspettando di sentire qualcosa di importantissimo, qualcosa di succulento e irripetibile. Ed è proprio mentre quello sta per arrivare – immagina la voce di Lee, quella voce, a fare la telecronaca di quell’avvicinamento – il suono d’improvviso s’interrompe con uno scatto e quello che resta, ad uscire sopra il lobo di plastica, è solo un sibilo debole ed intermittente.

“Ma che diam-!” Sventola per il filo l’Orecchio, facendolo ciondolare per aria, come per cercare di riavviarlo e lo riporta, in un andirivieni rapido, lontano e vicino al timpano, per provare a scorgere ancora qualche altra parola.
“Maledetto aggeggio!” aggiunge, incrociando le braccia intorno al petto con un’espressione indispettita che, però, non gli rende spigolosi i tratti, nemmeno per un attimo. D’improvviso, poi, lo stesso viso adombrato gli s’illumina di un’idea subitanea e, a giudicare dall’espressione, piuttosto geniale. Sfila lo sguardo alla ragazza alla sua destra, che ancora sta perdendo gli occhi nelle trame crepate del soffitto, che le rimandano indietro immagini di colline e draghi enormi.

“Ehi, Tonks. Andresti a rimetterne un altro paio al piano di sopra? Se mi becca Fred, mi uccide”
 
 
“Harry Potter, non capisco cosa Silente veda in te! Non azzecchi una mossa nemmeno provandoci!”
Phineas Nigellus, olio su tela, occhi penetranti e giudicanti, fissa Ron e Harry darsi battaglia ad una partita di scacchi magici. Quasi tutti quelli di Harry sono stati presi a sonore mazzate dai pezzi di Ron che, adesso, stanno ritti sul posto, piuttosto tronfi e con aria baldanzosa. Tra questi, il cavallo è il più vanaglorioso e fissa Harry con la stessa espressione dell’antenato dei Black – qualcosa che, più o meno, assomiglia allo sdegno.
Ginny sta accoccolata sull’altro letto e ha tra le mani il libro che Harry le ha regalato per Natale: la storia illustrata delle Holyhead Harpies, corredata dagli autografi delle giocatrici più famose. Lei, però, non ne ha letto nemmeno una pagina: ha ancora gli occhi fissi su quella piccola dedica che lui le ha lasciato, brevi auguri in inchiostro scuro, in cui lei cerca di leggere qualcosa che non vi è scritto ma che spera compaia tra le righe, con tinte meno fosche delle parole che emergevano dalle pagine di Tom Riddle.
Si ferma a guardare la piega delle b, il ricciolo con cui terminano le e, la direzione verso sinistra di ogni lettera, come se un vento avverso soffiasse da in fondo alla riga. Sorride, sforzandosi di nasconderlo, e si mordicchia un angolo delle labbra per trattenerlo, per non farlo alzare. Nessuno ci fa caso, tantomeno Harry.

Nella stanza accanto, Hermione tenta di leggere – è difficile passare dall’essere figlia unica a finire catapultata in quella realtà così ingombrante, numerosa e chiassosa. Ama il via vai che affolla la casa, ama pure le lamentele di Kreacher (o, almeno, le tollera più degli altri) però ha bisogno, ogni tanto, di strappare un pezzo di solitudine a tutto quel trambusto ed immergersi con gli occhi tra le pagine e, semplicemente, perdersi per un po’. Che quelle siano le pagine delle lezioni che affronteranno dopo le vacanze, però, è qualcosa che non confesserà mai – meno che mai a Ron, che potrebbe farglielo pesare per tutto il resto delle vacanze natalizie. Ma con la sua voce a fare il paio con quella di Nigellus nello schernire Harry, si sente al sicuro.

O, almeno, ci si sente fin quando due colpi di nocche rintoccano alla porta della stanza, trascinandola via da un incantesimo di Trasfigurazione piuttosto complesso. Aggrotta le sopracciglia, sorpresa, e borbotta soltanto un “Avanti!” vagamente infastidito, soffiato a mezza voce. La porta si apre leggera, quasi timidamente, scivolando lenta oltre la spinta dall’altra parte.
Quello che si trova davanti, non appena riesce a slacciare l’intreccio di iridi e parole, è la figura lunga e secca di Fred, appoggiato allo stipite della porta con le mani in tasca e con piazzata in viso un’espressione meno ironica di quella di default. Sente un leggero rossore salire veloce a scalarle il collo e il viso, fino a piantarsi sugli zigomi e prendere lì residenza; prega tutte le divinità di cui ha letto in giro per il mondo, che la poca luce di Grimmauld Place che spesso ha maledetto, adesso la protegga da quell’imbarazzo e dal suo tepore.
Fred sorride morbido, piegando leggermente la testa di lato e appoggiandola alla porta, con un movimento così leggero da sembrare impercettibile. La soppesa un po’, con fare divertito e con espressione per nulla stupita, come se non si fosse immaginato altro che trovarla così, a far quello.

“Non ti stanchi mai di studiare?”

Hermione stringe appena la presa sul libro, come se dovesse trattenersi dal tirarglielo dietro, e macchia delle impronte digitali – solo vagamente sudate – le pagine su cui era ferma. Mette su a sua volta un sorrisetto ironico, chiudendosi appena nelle spalle e facendo scivolare, oltre queste, la matassa ingombrante dei suoi capelli.

“Qualcuno, qui dentro, dovrà pur farlo”

Fred sbuffa una risata dal naso e si stacca dalla porta con fare indolente, facendo pressione sulla spalla per rimettersi dritto. Fa scivolare anche le mani dalle tasche e se le lega intorno al petto, incrociandole.

“Se ci tieni tanto, ti lascio anche la mia parte”

Il sopracciglio di Hermione svetta in alto, come preda di un Wingardium Leviosa particolarmente riuscito.
“Tu sì che sei un ragazzo generoso”

“È pur sempre Natale!”

Hermione trattiene a stento una risatina: non vuole dargliela vinta fino a mostrargli quanto quel suo scanzonato modo di vivere, così diverso dal proprio, la irriti e la affascini in un modo che non saprebbe descrivere nemmeno in una pergamena di parecchi centimetri. Ha la pancia un po’ in subbuglio e le guance ancora calde ma lascia gli occhi piantati sui suoi, in attesa, come se si aspettasse di vederlo dire qualcos’altro, visto che ha bussato alla sua porta. Tante volte le è sembrato che Fred arrivasse fino ad un confine preciso e non si azzardasse mai a mettere il naso oltre; forse, si dice, l’ha notato perché pure lei è arrivata ad un millimetro dal baratro e non ha osato mettere quel minuscolo passetto in più. Quindi, lo guarda, soppesa, sorride.

“Sei qui per qualche motivo in particolare o volevi solo ribadirmi la tua allergia per i libri?”

Fred la guarda come se la domanda lo avesse spiazzato, lanciandole un’occhiata quasi interrogativa. Se ne rende conto con un piccolo moto improvviso di consapevolezza: ha perso il coraggio di chiederle quello che voleva chiedere, quello che aveva appena abbozzato a George, quello per cui ha cambiato idea e discorso dal mattino almeno una ventina di volte. Si è volatilizzato nel momento esatto in cui le sue iridi scure gli si sono piantate addosso e le proprie, così chiare, si sono perse nel groviglio magnetico delle sue ciocche, ribelli ad ogni tentativo di domarle.
“Oh, sì, certo” fa lui, sciogliendo le braccia dal petto con finta ovvietà e con finta sicurezza, lanciando i palmi in aria. “Volevo chiederti se ti andrebbe di...” Pensa, Fred, qualsiasi cosa, si dice, mentre cerca e seziona ogni centimetro di cervello in cerca di una scusa plausibile. Giochi babbani, sì. Una linea di Tiri Vispi sui Giochi babbani.
“Se ti andrebbe di aiutarmi con…”

Un’imprecazione piuttosto voluminosa e un piccolo tonfo interrompono quelle parole, salvandolo decisamente in corner. Entrambi, all’unisono, lanciano uno sguardo preoccupato dietro le spalle di Fred, al corridoio in penombra che si snoda in entrambe le direzioni oltre la porta. Il ragazzo sfila la testa all’indietro e trova Remus con un ginocchio a terra e la mano a massaggiare il gemello, reo di essere atterrato – essersi schiantato – malamente contro il legno liso del corridoio.

“Ehi, Remus! Che succede? Tonks ti ha contagiato?”

Lui gli risponde solo con l’estremità di un filo che gli penzola tra le mani, quello su cui è inciampato – strappandolo –, finendo per rovinare sul pavimento lustrato da Molly. Ad un’estremità dello stesso, ciondola un orecchio dalle fattezze quasi reali che oscilla ignaro in quell’incredulità generale. Remus lo fissa perplesso, Fred lo incoccia sgranando gli occhi. Quello che gli attraversa le iridi, un attimo dopo, è il lampo di una necessità di vendetta che sale rapida e repentina, da consumarsi caldissima.

“Ah, fratellino… questa non me la dovevi proprio fare!”

 

Sirius accarezza Fierobecco sul muso, strusciando il palmo sul suo becco liscio e freddo. Lo guarda e – sempre di più – rivede se stesso, stretto in quella cattività obbligata, senza poter stendere mai le ali davvero e perdersi un po’ nel cielo spruzzato da mille fiocchi di neve.

“Ce ne andremo presto, promesso”

Una piccola smorfia gli si dipinge in viso: la scorge riflessa nelle pupille enormi dell’Ippogrifo che gli rimanda lo sguardo. Non solo perché sa che non potrà mantenere quella promessa, non così presto almeno, ma perché quelle stesse, identiche, parole erano quelle che rivolgeva allo specchio, in quella stessa casa, in quella stessa stanza, molti anni prima, quando fuggiva da sua madre e dalla sua vita e si rintanava lì, a pensare in quali modi farla pentire di quel suo trattarlo da animale braccato.
Infliggere la stessa sorte a colui che ha permesso la sua libertà, lo fa star male il doppio. Glielo direbbe, se avesse timpani umani per comprenderlo; glielo direbbe, se non fosse che un’imprecazione d’improvviso spezza l’aria e i suoi pensieri, frangendosi come un fulmine in quell’atmosfera avvolta in una tensione così solida e malinconica.

La voce che l’ha provocata, così come il suo mittente, fanno l’ingresso nella stanza pochi istanti dopo, prendendosi un secondo di tentennamento per bussare due delicati colpi di nocche. Sirius se lo trova sulla porta nel suo completo liso, una mano che massaggia il ginocchio colpito e un’andatura vagamente zoppicante. Gli indirizza uno sguardo che spazia dal preoccupato al canzonatorio, che lui spegne con un sorriso debole ma sincero, talmente tanto da scaldargli un po’ lo stomaco e allagargli il sangue. Anche Fierobecco sbuffa fuori, con un piccolo arruffamento d’ali, la felicità di trovarselo davanti.

“Ehi, sapevo di trovarti qui”

Sirius gli sorride di rimando; un sorriso sorto spontaneo a quelle poche parole, con i tratti stanchi a delinearsi sul viso che non ha ancora perso il ricordo della prigionia – quella che, quel suo essere confinato lì, gli rammenta ogni giorno.
Allunga una mano per aggrapparsi alla sua camicia e gli affonda negli occhi con un velo di supplica. Solo con lui può abbandonarsi a quel suo sbragato modo di essere scontroso e burbero – per quella costrizione, per l’inutilità, per le vacanze che vanno sfumando e che vedono la casa perdere pezzi man mano, così come decorazioni ed addobbi.

“Tu resterai, vero?”

Glielo chiede d’improvviso, quasi volesse prenderlo in contropiede, non dargli tempo né spazio per trovare una risposta diversa, una scusa qualsiasi per dire di no.

“Lo sai che puoi fermarti quanto vuoi. Potresti restare anche quando Harry si trasferirà qui. Saremo… saremo come una famiglia

Le parole di Sirius arrivano ad invadere Remus come un fiume in piena, un fiume in cui è nascosta una paura che, lo sa, non confesserebbe mai – nemmeno a lui. Si blocca per un’istante, le pupille allargate di stupore prima, di un abbozzo inconsapevole di felicità, poi. Alza gli occhi su di lui, lo fissa immergendosi nelle sue iridi, in quello sguardo che ha sempre osservato di soppiatto, fin dai tempi di Hogwarts, e che adesso ancora ama negli anfratti nascosti di quella casa, unica testimone di quell’amore che si è riscoperto, sepolto da troppi, troppi, anni di lontananza, di incomprensione e di pensato tradimento – senza che il dolore si placasse mai, tantomeno quando la luna era tonda e piena e quando la sua pelle era scossa da ben altri tipi di tortura.
Quell’amore che è ripartito dall’ultimo, esatto, punto in cui si erano lasciati sorridendo, nel pomeriggio di quel 31 ottobre che Remus ha maledetto per ogni alba di ogni giorno successivo, fino al loro ricongiungersi, fino alla comprensione, fino al perdono.

“Dici sul serio?”

Sirius si chiude nelle spalle e annuisce leggero; torna con la mano a carezzare Fierobecco, che adesso fissa entrambi e sembra ascoltarli con lo stesso interesse con cui George, di sotto, tentava di origliare la conversazione del fratello.

“Che altro potrei volere, se non questo?”

Remus se lo chiede – per un istante lunghissimo. Cosa potrebbe volere, oltre questo? Una famiglia normale, un amore normale, un uomo normale. Un uomo che non conosce il timore della luna né quello della notte. Un uomo che è semplicemente un uomo, di cui non dover avere paura.
Una consapevolezza lo allaga all’improvviso – Sirius, di lui, non ha mai avuto paura. Non da uomo, non da lupo, non da amico, non da amante, non nella lontananza sopravvissuta all’ombra della speranza.
Non fa in tempo a rispondere, però, perché le grida di George inondano la tromba delle scale, sfilano sotto la lama di luce della porta e arrivano alle loro orecchie, invadendo la stanza e spaventando Fierobecco. Sono animate da una paura finta, da risate gutturali e dai rimproveri di Molly, che si fanno via via più crescenti.

“Fred, metti via quelle Caccabombe! ADESSO!”

Sirius e Remus si scambiano un’occhiata e, con quello che sembra costargli un grande sforzo, il primo apre di nuovo un sorriso largo, che lambisce il confine con la risata.

“Proprio questo, questo?”

Gli chiede Remus, sorridendo a sua volta, prima di avvicinarsi a poggiargli un bacio leggero sulla tempia.
Si ritrova a chiederlo anche a se stesso, di nuovo, in quella formula ormai dipanata lungo tutte le terminazioni nervose, figlia di quesiti retorici di cui conosce perfettamente la risposta: cosa potrebbe volere, se non questo?

 

Note: non so come sia nata questa storia ma sentivo di aver bisogno di raccontare un Natale, proprio quest'anno che l’atmosfera natalizia non riesce ad entrarmi nei pori. E l’ho fatto pensando a Greta e a Silvia, che mi hanno fatto compagnia in questo periodo e in questo intero anno con le loro storie meravigliose. Quindi, davvero, grazie. Questo piccolo stralcio non è un tentativo di sdebitarmi – sarebbe impossibile! – però di ringraziarvi per tutto il bello che avete scritto e ci avete regalato, pubblicandolo. Scusami Silvia se ho preso tutte le coppie di cui tu scrivi e di cui mi hai fatto innamorare e ne ho dato brevissimi schizzi – spero, almeno, convincenti. Scusami Greta, perché le tue storie, in qualsiasi caso, sono inarrivabili.
Vi mando un abbraccio grande e vi auguro un Natale pieno di tanta serenità
   
 
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