Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Ricorda la storia  |      
Autore: Joy    30/12/2021    0 recensioni
È la mattina di Natale, un Natale che sa di solitudine.
E lui è destinato a passarlo al buio.
“Se è mia madre puoi dirle che non sono in vena di asc-”
“Non è tua madre.”

[JeanMarco, Fix-it di Natale, Warning: cecità temporanea]
[Scritta per la Secret Santa, gruppo Facebook Hurt/Comfort Italia]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Conny Springer, Hanji Zoe, Jean Kirshtein, Marco Bodt, Sasha Braus
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Autore: Joy Inblue

Personaggi: Jean/Marco, Sasha, Connie, Hange.

Tag: What-if, Fix-it, Hurt/Comfort.

 

Scritta per il Secret Santa 2021, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia

Prompt: Jean crede che Marco sia morto e ne è devastato, ma il giorno di Natale ha in serbo per lui un miracolo non da poco.

 

Associata alla Santa Lucia Xmas Challenge e all'Advent Calendar con il prompt: “Sa di solitudine.”

 

 

 

 

 

 

 

He appeared in the mist

 

 

 

 

 

“È temporaneo, Jean.”

È la terza volta, da quando è stato portato in infermeria, che Hange ripete quelle parole.

E lui è abbastanza lucido, da sapere che deve aver notato il tremito costante che si è impossessato di tutti i suoi arti, nel momento in cui lei ha medicato i suoi occhi e spento il suo già scarso campo visivo con due giri di bende attorno alla testa.

“Tranquillo, andrà tutto bene” seguita, e sente la mano che indugia sul suo collo e un lieve picchiettare rassicurante, prima che scivoli via dalla sua pelle e sparisca.

“Andrà tutto bene se non permetterai a Sasha di aiutarti nelle ore dei pasti” scherza Connie, per allentare la tensione. Proviene dalla sua destra. “In quel caso, finirai per morire di stenti e niente sarà andato bene.

L'acuto in cui s'innalza la voce di Connie sull'ultima sillaba, gli fa sapere che Sasha non ha gradito la battuta.

Ride. Si sforza di farlo, ma in realtà non c'è niente che vada bene.

Niente.

Da quando Marco non è più lì con lui.

E sono passati sei mesi.

“Non hai danni permanenti. Il pulviscolo dell'esplosione ti ha causato delle micro ferite, ma guariranno presto. Devi solo tenere gli occhi a riposo.”

La voce gli giunge lontana, accompagnata dal clangore metallico dei suoi strumenti. Se ne sta andando.

“Se hai bisogno, chiama. C'è sempre qualcuno qui in infermeria sia di giorno che di notte” aggiunge.

Jean vorrebbe non doverlo fare, non è mai stato bravo a chiedere aiuto, e Marco compensava quel limite con un intuito invidiabile.

Sospira e si appoggia con la schiena alla testiera del letto.

Il materasso si piega sul lato destro, la presenza di Sasha diventa concreta solo nel momento in cui sente la sua mano sul ginocchio.

“Non preoccuparti” commenta allegra. “Restiamo con te.”

E Jean gli è grato, ma dubita che potranno saltare gli allenamenti e rimanere con lui ogni istante del giorno e della notte.

“Starò bene” mente.

Il silenzio che segue gli rivela che non è stato molto convincente.

E dannazione, è mai possibile che riesca sempre a comportarsi come un maledetto moccioso.

La mano di Sasha gli stringe confortante il ginocchio, Jean tenta d'intercettarla e scopre che non è così semplice: è lei, che consapevole, l'afferra tra le sue.

“Devi solo aver pazienza” aggiunge Connie. “Si sistemerà tutto.”

Annuisce, mentendo di nuovo.

Tutto, tranne Marco.

Un' imposta sbatte sotto le raffiche di vento; Sasha sobbalza, riesce a capirlo solo perché la sua mano crea quel ponte necessario a “vedere” senza usare gli occhi, e perché la superficie del materasso gli trasmette i suoi movimenti.

I passi di Connie invece li sente risuonare sul pavimento.

“Sta piovendo” commenta, coprendo il cigolare della maniglia in ottone che sblocca i chiavistelli.

A Jean arriva solo una folata fredda e umida, prima che con un colpo secco Connie blocchi l'imposta e richiuda il vetro.

Sasha sbuffa.

È la vigilia di Natale, speravano tutti che fosse neve.

Non importa, in fondo lui non avrebbe potuto vederla comunque.

Avverte anche un fruscio lieve e questa volta non riesce a capire da dove provenga: è più inquietante di quanto avesse immaginato.

“Siamo solo noi nella stanza?” domanda incerto.

Sasha esita: “N..no, è entrata Lia per portare via la biancheria sporca.”

Non l'ha sentita.

Il suo battito cardiaco accelera, lo sente sbattere contro la cassa toracica senza che abbia la possibilità di controllarlo.

Tutto gli sta sfuggendo di mano.

E deve essere ormai chiara sul suo volto, quella paura che non riesce più a contenere, perché i palmi di Connie gli piovono contemporaneamente su entrambe le spalle.

“Ehi...” gli dice piano. “Sei al sicuro, tra amici.”

Si scansa e se ne pente all'istante, perché senza alcun contatto il buio è più nero.

“Sono molto stanco” biascica, costringendosi ad allontanarsi da loro e a sdraiarsi sotto le coperte. “Potete avvisare che nessuno entri nella stanza?”

“Va bene” la voce di Sasha è troppo flebile. “Lascio la lampada accesa, Jean?”

“Non fa molta differenza per me.” Si sente in colpa, ma non riesce a trattenere l'amarezza.

Sente la carezza lieve delle sue labbra sulla guancia e un sussurro che si allontana lentamente da lui: “La lascio accesa.”

 

***

 

Si sveglia e il mondo buio del suo incubo lo segue nella realtà.

Siede di scatto sul letto e allunga le braccia in cerca di qualcosa, qualunque cosa, che gli sia familiare, perché è difficile capire cosa è reale e cosa non lo è, se verità e sogno sono entrambi avvolte nell'oscurità.

Avverte il calore sotto le dita, avvicina la mano e lo sente trasformarsi in dolore.

Si ritrae con un gemito.

Forse è la lampada.

O forse no.

Forse è quel falò che torna in tutti i suoi incubi, neanche fosse impresso nelle sue palpebre chiuse, e che gioca con la sua mente, danzando crudele sulla pelle ora arrossata dalle scottature.

Quello che ha ingoiato molti dei suoi amici.

E Marco insieme a loro.

Non trova altro a cui aggrapparsi, tranne le lenzuola: le stringe nella mano.

“C'è qualcuno?” grida, e non è sicuro che sia vera nemmeno la voce, non sembra la sua, tanto è spezzata. “Qualcuno mi sente?”

Non riceve risposta, nemmeno il confortante picchiettio della pioggia contro il vetro della finestra.

Solo silenzio e buio.

Boccheggia.

Scosta le coperte e getta le gambe oltre il bordo del letto.

Qualcosa cade, sente i vetri che s'infrangono sul pavimento.

Non gli importa: non può stare da solo in quel buio.

Posa cauto i piedi per terra, trova il pavimento bagnato e qualcosa che lo punge.

“Fermo, Jean.”

Sobbalza.

Non riconosce la voce è troppo bassa, poco più di un sussurro; la mano che si posa sulla sua spalla ha un tocco familiare.

“Non muoverti, ci penso io.”

La mano scende sul suo petto, lo tiene distante, gli impedisce di piegarsi.

“Fammi togliere questi vetri.”

Scende ancora e la lieve carezza che gli deposita sul ginocchio, vibra in tutto il suo corpo.

“Chi sei?” chiede. Allunga entrambe le mani e trova spalle chine e braccia indaffarate a rimediare al casino che ha fatto ai piedi del letto.

“Shhh, non preoccuparti di questo ora. Torna a dormire.”

Muove i palmi e la figura che prende forma sotto il suo tocco appartiene a qualcuno che può tornare da lui solo in sogno.

Non può essere reale.

“Marco...” mormora e se non avesse gli occhi così strettamente fasciati, piangerebbe.

“Sdraiati, devi riposare. Hai un po' di febbre.”

“Marco.”

“Shhh, bevi questo, ti aiuterà.”

Il bordo di una tazza compare vicino alle sue labbra insieme a quella mano che ferma l'ondeggiare della sua testa, e a quel pollice che gli accarezza la guancia come quando...

Gli sfugge un singhiozzo asciutto che contiene il nome di Marco, perché quella è la carezza che precedeva il suo bacio.

“Va tutto bene...” mormora di nuovo la voce, ma adesso trema un po' pure quella.

Si lascia convincere da quel fremito e beve fino a vuotare la tazza.

Ha tanto sonno e non capisce più se è sveglio o se sta sognando.

Braccia familiari lo aiutano a sdraiarsi e lo lasciano solo quando ha già posato la testa sul cuscino: Jean si sente precipitare di nuovo nel buio.

“Non andare, ti prego...” mormora, perché non importa che sia solo un sogno: ha bisogno di aggrapparsi a lui per trovare il coraggio.

“Non vado da nessuna parte.”

Il materasso si piega, Jean sente il fruscio della stoffa, e le mani che lo guidano contro il petto.

Sì, quello è Marco, si dice inspirando profondamente.

Con la pelle che sa di sole e prati verdi anche a Natale.

Con labbra dolci che gli sfiorano la fronte.

E con quella voce calma, da sempre in grado di riportarlo alla luce.

 

***

 

Lo sveglia un brusio di sottofondo. Non è l'andirivieni ansiogeno e nervoso tipico dell'infermeria, ma un fermento allegro e leggero che a Jean ricorda le mattine di Natale della sua infanzia, quando sua madre non mancava di svegliarlo con un sorriso e un tavolo ricoperto dai suoi piatti preferiti.

Muove le mani sul lenzuolo: sente ancora il tepore confortante che l'ha guidato nel sonno e un odore familiare che gli ricorda cose belle, persone belle, e non vuole svegliarsi davvero, vuole crogiolarsi in quella sensazione, spegnere la mente e non tornare più.

“Jean, come ti senti?”

Hange evidentemente non è disposta a permetterglielo.

Grugnisce e affonda la testa nel cuscino, ma la mano che gli sfiora la fronte non si fa scoraggiare dalle sue proteste e scende sul collo.

“Stanotte hai avuto un picco di febbre” seguita, “ma sembra che il mio antifebbrile sia stato efficace.”

Si siede sul letto, rassegnato a tornare ad una realtà che non gli piace.

“Fortuna che siamo arrivati in tempo” riprende, “o avresti calpestato i vetri e ti assicuro che una delle suture più fastidiose è proprio quella alla pianta dei piedi. Lia puoi portare via quei cocci dal comodino?”

Si passa una mano sulla fronte, cercando di dissipare la confusione.

“Eri tu stanotte?” alita. “Voglio dire... so di aver chiamato, ma non ho capito chi... credo di aver sognato.”

Sospira e Hange non risponde.

“Bevi questo” gli dice dopo un istante, mettendogli tra le mani quella che all'odore sembra una tazza di tè fumante. “Dopo di farò portare qualcosa di più sostanzioso, ma prima hai una visita.”

Il tono è leggero, sembra quasi che sorrida e Jean si chiede onestamente che motivo abbia per farlo: è la mattina di Natale, un Natale che sa di solitudine.

E lui è destinato a passarlo al buio.

“Se è mia madre puoi dirle che non sono in vena di asc-”

“Non è tua madre.”

Sente Sasha e Connie che bisbigliano nel corridoio, non distingue le parole, ma sembrano euforici.

Hange gli posa una mano sulla spalla e stringe incoraggiante: “Resto sulla soglia, se hai bisogno.”

 

***

 

Il passo è lento, quasi esitante, accompagnato da un respiro lieve che non dovrebbe essere in grado di udire, ma la sua stanza è ora piombata nel silenzio più assoluto e nella sua mente in allerta persino la polvere fa rumore.

Jean trattiene il fiato d'istinto e per quanto irrazionale, ha la sensazione che una tempesta stia per travolgerlo, quasi fosse in bilico sulla bocca di un ciclone e non seduto in un letto d'infermeria.

I passi s'interrompono.

“Ciao, Jean.”

Trema.

Il respiro incespica e rimbalza nel suo petto.

Non sa come fare a buttarlo fuori, ma non gli importa.

“Posso sedermi sul letto di fronte a te?”

Quella voce.

Il vortice del tornado s'ingoia tutto: fiato e parole.

Raddrizza la schiena contro i cuscini e si porta le mani alla testa, infilando le dita sotto le bende che deve togliere.

Il prima possibile.

“Non farlo, Jean.”

La voce di Hange è distante, probabilmente è ancora sulla soglia: farà in tempo a togliere prima che possa fermarlo.

È l'unica cosa a cui riesce a pensare, perché ha bisogno di vedere la persona davanti a lui.

Ha bisogno di sapere che non è impazzito e non sta sognando, che quello è Marco, il suo Marco,

tornato dal mondo dei morti come il più potente dei miracoli, o la più terribile tortura, se la mente lo sta ingannando.

“Aspetta!”

La voce di Hange ora è più vicina, ma le mani che raggiungono le sue ai lati della testa, le coprono e stringono con gentilezza, non appartengono a lei.

“Jean...” mormora la voce. Gli arriva un po' rotta, umida di commozione. “Lo so” sussurra. “È difficile.”

Il sospiro che gli sente uscire dalla gola, libera anche il suo.

Si lascia guidare dal suo ritmo e da quelle mani che allontanano le sue dalle bende.

“Puoi riconoscermi lo stesso” mormora, trascinandole fino al suo viso.

E Jean può sentire le guance calde sotto le dita, le pieghe di un sorriso che prende forma nella sua mente come se non se ne fosse mai andato.

“M..Marco?” chiede e lo sente annuire sotto i palmi e deglutire un singhiozzo commosso.

“Sì” aggiunge. “Sì.”

Sfiora le sue labbra con entrambi i pollici e segue in punta dita le linee delle sue sopracciglia, perché ha bisogno di vedere tutto, di sentire che è lui, vivo, sotto le sue mani.

Marco lo lascia fare.

“Vorrei tanto abbracciarti, Jean” dice dopo qualche istante.

E lui gli crolla addosso, e il mondo può anche fermarsi.

Smette di trattenere i singhiozzi e china il viso sulla sua spalla, affondando le mani nei capelli.

“Non piangere” mormora Marco contro il suo orecchio, mentre gli avvolge le braccia attorno. “O bagnerai le bende.” Sta piangendo anche lui, però.

“Va bene” concede Hange. “Dopo le cambieremo.” È flebile e distante, seguita da un: “No, non ora Lia. Vieni, ho una cosa importante da farti vedere.”

E questa volta Jean sente lo scatto della porta che si chiude e poi il silenzio, che interrotto dal respiro di Marco, non fa più molta paura.

“Eri tu stanotte?” sussurra ancora aggrappato al suo collo.

“Sono arrivato con la diligenza notturna. Hange mi stava visitando quando ti abbiamo sentito chiamare.”

“Pensavo di aver sognato” confida in un soffio. “Mi sembra di sognare anche adesso.”

È patetico, lo sa, ma Marco lo stringe più forte a sé e gli deposita un bacio tra i capelli.

“È reale, Jean” conferma.

 

***

 

Vede solo figure sfocate quando Hange gli cambia le bende un'ora dopo, ma la sagoma di fronte a sé è quella di Marco, non ha dubbi, e la mente riesce ad aggiunge i dettagli che i suoi occhi non possono cogliere. E il mondo non è mai stato tanto luminoso.

“Non ci sono complicazioni, Jean” decreta Hange, più allegra del solito. “Tra qualche giorno potrai togliere le bende definitivamente.”

Sorride, e non per la bella notizia in sé, ma perché ha intuito, dal modo in cui le sue spalle si sono mosse, che anche Marco sta sorridendo: sorride e continua ad accarezzargli il dorso della mano con il pollice, ubriacandolo di felicità.

“Va bene” riprende Hange una volta terminata la medicazione. “Pronto per un nuovo bendaggio?”

Jean non lo è, ma la porta si apre sbattendo e Sasha piomba nella stanza portando chiasso, agitazione e annunciando un vassoio di biscotti presumibilmente rubati dal refettorio, ed è quasi istintivo per lui chiudere gli occhi affaticati.

Marco si sposta di fianco e gli avvolge le spalle con un braccio finché il bendaggio non è completo.

Torna tutto buio e i rumori si fanno più intensi.

“Passerò a controllarti stasera prima di andare a dormire” lo informa Hange con un colpetto al ginocchio. “Se ti è possibile, cerca anche di riposare.”

Non sottolinea la necessità di non bivaccare in quella che è a tutti gli effetti una stanza dell'infermeria, né menziona il vassoio trafugato, canticchia tra sé allontanandosi da lui, finché lo scatto della maniglia non sancisce la sua uscita dalla stanza.

Le grida di gioia sono quasi istantanee, come lo spostamento d'aria e il materasso che sobbalza violentemente.

“Perché non ti sei fatto vivo prima?!” esclama Sasha, la voce ridente a pochi centimetri dal suo orecchio.

Marco sta sicuramente abbracciando lei e Connie, ma non ha perso la presa sulla sua spalla. Jean gliene è grato, perché in quel mondo buio, il massimo della distanza che può tollerare da lui è appunto quella di un braccio.

“Ero confuso” mormora in risposta. “Non ricordavo molto.”

Il tremito che scuote il torace di Marco, però, non se lo aspettava; si volta verso di lui anche se non può vederlo, spinto da una memoria fisica che non riesce a controllare e gli posa una mano sul ginocchio. Vibra anche quello.

“Ti abbiamo creduto morto” aggiunge Connie. “Jean ha trovato il tuo cadavere, o almeno è quello che ha creduto...”

“Lo so, Hange mi ha spiegato...” esita. “M..mi dispiace di avervi fatto soffrire, non avrei voluto.”

Adesso trema anche la voce, Jean cerca la sua mano -anche se forse è Marco stesso a fargliela trovare- e la stringe.

“E cosa hai fatto in tutti questi mesi?” seguita Sasha, pendendo dalle sue labbra.

A Jean non importa cosa ha fatto, basta che sia lì, ora. Basta che il cadavere che ha visto non fosse il suo.

Marco esita, dalle labbra gli esce un sospiro talmente lieve che Jean può sentirlo solo perché si è avvicinato gradualmente fino a posare la testa sulla sua spalla.

“Ho lavorato in una fattoria” confessa dopo qualche istante. “Aspettando che qualcosa tornasse, anche se non sapevo esattamente cosa dovesse tornare.”

C'è una nota malinconica nel tono della sua voce, come se fosse consapevole di aver perso qualcosa d'importante e l'incertezza di non sapere se sarà mai in grado di recuperare tutto, è la causa principale dell'insicurezza che lo fa soffrire.

“Per questo sei andato da Hange, appena tornato?” chiede.

La presa sulla sua mano si fa salda.

“Sì” ammette. “Lei dice che tornerà tutto. Col tempo.”

C'è un sorriso forzato sulle labbra che modulano quella risposta, Jean lo sente. E per quanto si odi per l'egoismo che dimostra, non riesce a fare a meno d'irrigidirsi al pensiero dei ricordi condivisi che Marco potrebbe aver dimenticato.

“Jean.”

Lo riscuote la breve carezza, che dalla spalla scende sull'avambraccio, stringendolo di più a sé.

“Nella mia mente, tu sei stato il primo a tornare.”

 

***

 

Non vuole smettere di guardarlo, non adesso che finalmente può farlo.

Nemmeno se Marco stira le labbra e inarca i vertici delle sopracciglia al centro della fronte, arrossendo in modo adorabile.

Nemmeno se la mano che stringe il lembo del lenzuolo, vorrebbe sollevarsi e portarlo fin sul petto.

Ma non lo fa, si lascia guardare e Jean vorrebbe dirgli che gli è mancato tanto da sentire il dolore trapassarlo quasi fosse una palla di cannone, lasciando una sagoma vuota e margini vivi dove prima aveva il petto, a rendere tangibile l'assenza.

Vorrebbe dirgli che non ha mai avuto il coraggio di sperare, ma solo quello di soffrire, e che averlo nudo nel letto lo commuove al punto da non riuscire neanche a toccarlo come vorrebbe.

E sì, che non ha nemmeno mai osato sognarlo, un miracolo simile.

È Marco a spostarsi sopra di lui e a far aderire la pelle alla sua.

È lui a posare la fronte sulle sue clavicole e a muovere le labbra contro il suo petto, mischiando parole, fiato e desideri.

E il rossore ha ormai coperto ogni sua lentiggine...

Jean potrebbe guardarlo per ore e ancora non basterebbe a crederlo reale.

“A..ancora non mi sembra vero...” balbetta e tenta di convincersi sollevando le mani fino a posarle sulle sue guance calde.

Marco volta la testa e gli bacia le dita. Poi si china e gli posa le labbra sulla punta del naso, sugli occhi e sulla fronte.

“Come posso aiutarti?” gli chiede ridendo, muovendosi piano sopra di lui.

Il brivido caldo gli percorre la pelle seguendo le dita di Marco.

Lo desidera all'istante. Come ha sempre fatto.

“Questo è un buon modo” ammette.

 

 

Fine.

 

 

 

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: Joy