Non posso dire altro, se non che ha affascinato ed ispirato anche me. Buona lettura.
L'autrice
Let it fall, let it fall, let it fall
Please don’t stop the rain
Let it fall, let it fall, let it fall
Please don’t stop the rain
Quando
nacqui era un giorno di settembre e aveva minacciato
brutto tempo tutta la mattinata.
Mia madre mi mise al mondo con un ultimo rantolo, un gemito
soffocato, un sospiro di sollievo, tra le lenzuola non più
immacolate di un
ruvido ospedale di periferia.
Scivolai fuori nel mondo, strappata brutalmente dalla
rassicurante certezza del suo ventre, per precipitare
nell’ignoto, nel male,
nel nuovo universo del dolore. Tra le mani dell’ostetrica.
E gridai.
I miei piccoli polmoni cominciarono a funzionare, l’aria mi
attraversò come una dolorosa sferzata, e nonostante tutto
era vita anche se
dolorosa, e gli infermieri sorrisero.
Mia madre tese le mani per prendermi in braccio e mi strinse
affannosamente al seno, incredula. Già lucidi, i suoi occhi
ricominciarono a
tremare, a muoversi- pozze grigie per effetto del cielo fuori. Lacrime
calde
cominciarono a caderne, atterrando sul camice, sulle braccia, sul mio
viso.
La prima pioggia della mia vita.
A nove anni ero una bambina gracile e pallida. Mia madre non
mi aveva mai tagliato i capelli, fin da quando avevo un anno
d’età. Mi arrivavano
alla schiena, lisci e fluidi come un ruscello inquinato. Erano scuri,
castani,
e banali, se non fosse stato per quella strana torbidezza che li
rendeva in
qualche modo belli, come si può trovare bello il letto di un
fiume prosciugato,
ancora umido di vita, nonostante i rifiuti sul fondo.
A nove anni per me era difficile giocare con gli altri
bambini. Nata in un giorno pieno di nuvole, avevo in qualche modo
assorbito la
loro trasparenza nella pelle, e la loro fragilità nella
salute. Asmatica, di
salute delicata, per me gesti come correre e giocare rappresentavano
uno sforzo
immane, un traguardo da raggiungere con gli incoraggiamenti affettuosi
di mia
madre, ma che per me rimanevano là, irraggiungibili.
Lontani.
Quando avevo nove anni e la mia vita non era ancora stata
decisa, ancora non capivo tante cose. Mia madre mi pettinava i capelli
attenta
a non usare spazzole di legno, perché a contatto con il
ruscello torbido di
questi marcivano piano piano, diventando ben presto inservibili.
Mi pettinava con delicati pettini di plastica e cantava,
cantava con la sua voce melodiosa vicino alla finestra. Io sedevo con
le mani
in grembo e la ascoltavo, muovevo piano la testa.
Era bella, mia madre, quando alzava una mano e scioglieva il
nodo dei capelli della sua testa, e quelli ricadevano sulle sue spalle,
morbidi
e lucidi, nascondendo la nuca bianca e morbida. Era bella anche quando
mi
carezzava e mi stringeva a sé, e mi cantava Oh my darling,
oh my darling. Io
sorridevo, avevo le labbra sottili e sempre screpolate, forse
perché tutta la
mia fluidità veniva attirata dalla mia chioma,
prosciugandole. Alzavo una mia
mano e le carezzavo il viso, le dicevo oh mamma, canta ancora. E lei mi
accontentava, serena.
La ascoltavo, muovevo piano la testa.
Era bella, mia madre.
Da quando avevo un anno, ancora nessuna forbice li aveva
violati; mi arrivavano quasi alle ginocchia, sempre fluidi, sempre
torbidi.
Rifiutai.
Ero abbastanza grande da pettinarmi da sola, eppure ancora
chiedevo a mia madre di prendere in mano il pettine di plastica e
attraversare
dolcemente i miei capelli.
Mi piaceva ancora ascoltarla cantare, riflettendomi alla
finestra , guardando i miei occhi restituirmi lo sguardo.
Di solito erano di un colore indefinito, tra il grigio e
l’azzurro. Erano l’esatto opposto dei miei capelli,
limpidi e chiari, ma
sfuggenti. Tutta la parte più linda di me si raccoglieva in
loro, in quelle due
piccole pozze chiamate iridi, di una chiarezza così
allarmante che mia madre
talvolta aveva temuto che sarei diventata cieca. Mi ha anche portata da
un’oculista, che mi ha ferita con luci abbaglianti e chiesto
se riuscissi a
distinguere una a da una zeta, e io ho sopportato docile stringendo le
labbra,
ma non ho permesso che mi facesse stendere sul lettino di pelle nera
per
scrutare a fondo nei miei occhi.
Non gliel’avrei mai permesso.
Comunque questo bastò a tranquillizzare mia madre,
nonostante ancora oggi la sorprenda talvolta a guardarmi attraverso il
vetro,
preoccupata. La vedo sospirare, talvolta sbaglia una nota- un si acuto
al posto
di un dolce la.
A quindici anni, non ho un amico.
La scuola è sempre stata per me un enorme labirinto, le
chiacchere dei miei compagni grida perforanti, le lezioni da seguire
inutili e
noiose.
Per quanto dicesse di poter spiegare tutto, il mio
professore non era riuscito a dirmi perché i miei occhi
cambiavano con la
pioggia.
Quando le prime gocce cominciavano a cadere, le avvertivo
con un brivido quasi violento. Le sentivo scorrere sulla finestra, ma
anche
sulla mia pelle, e sul braccio dove mia madre aveva versato le sue
lacrime
quindici anni prima. La pioggia mi chiamava cantando, tendeva le sue
braccia
d’acqua verso di me.
Vieni, diceva.
E i miei occhi cambiavano.
Tutta la loro sfumatura, la loro chiarezza, la loro
insipidità sparivano. Una vampata di vita li agitava,
diventavano mulinelli
furiosi, nuvole tempestose, acqua fragorosa.
Dello stesso colore della pioggia fuori.
Tutto il mio essere voleva correre fuori e bere la pioggia,
berla fino a riempirsi e scoppiare, e sciogliermi come un fiocco di
neve,
diventare anch’io acqua che scorre, sporca, purifica, cade,
sale, vive.
Ma avevo sempre resistito.
C’era mia madre con me, e me stessa. Mio padre non
l’avevo
mai conosciuto. Una volta mamma mi sussurrò che ero figlia
del cielo, che non
appartenevo a lui ne a nessun altro. Capii che lui mi aveva
disconosciuta, che
forse prendendomi in braccio e vedendo i miei occhi non aveva
riconosciuto
quelli di sua figlia.
Una sera, stavo quasi per cedere. C’era una tempesta
tremenda fuori, le strade erano allagate, i miei occhi così
dilatati che quasi
faticavo a mettere a fuoco, la voce dell’acqua
così forte da costringermi a
tapparmi le orecchie. La finestra era aperta. Mi alzai a fatica,
lottando
contro il vento e le grida, alzai una mano per afferrare la maniglia e
chiuderla fuori; ma la morsa dell’acqua era troppo forte.
Come un cacciatore
che ha capito di aver attirato nella trappola la sua preda, la pioggia
mi
afferrò brutalmente per il polso. Gridai, chiamando mia
madre, dibattendomi,
mentre l’acqua risaliva lungo il mio avambraccio. Guardai con
orrore la pelle
diventare trasparente, fondersi, diventare gocce che pian piano
volavano fuori
nella tempesta. Ma allora, come una furia, nella stanza
entrò mia madre. Corse
come forse non aveva mai corso in vita sua per strappare quella che
riteneva
sua figlia dalla morsa fatale della sua peggior rivale. Mi
afferrò,
strappandomi via dalla finestra, dal mio destino. Ricaddi indietro,
battendo a
terra, rovinando sul tappeto, mentre mia madre lottava per richiudere
la
finestra. L’acqua si ritirò, muggendo furiosa. Lei
si voltò verso di me, con
gli occhi lucidi e terrorizzati. Io abbassai lo sguardo.
Avevo capito che non sarei mai potuta sfuggire al mio fato.
Avevo undici anni.
Da allora, quando minaccia pioggia chiudiamo tutte le
finestre a chiave. Ho comprato un paio di cuffie, anche se so benissimo
che non
basteranno mai a chiudere del tutto fuori le voci.
Era solo questione di tempo.
Si avvicinava Natale, e con esso la neve. Era ancora presto
per me, tirare un sospiro di sollievo. Il richiamo dei fiocchi di neve
era più
tiepido, come congelato, trattenuto. Ma era sempre pioggia, e le nostre
finestre
rimanevano chiuse.
La scuola finalmente chiuse. Avevo parlato con mia madre, e
l’avevo convinta a non farmici ritornare, a gennaio. Lei
aveva smesso di
tagliare il pane, aveva abbassato gli occhi.
Voglio stare con te, le avevo detto.
E lei aveva annuito. Anche se poi quel pomeriggio l’avevo
vista piangere, sul suo vecchio letto matrimoniale, dove dormivamo
insieme.
La sua salute peggiorava. I medici le avevano dato ancora
poco da vivere; difficoltà respiratorie, raffreddori
continui e sfiancanti,
influenze.
La pioggia aveva avuto la sua vendetta, infine.
Io le stavo vicino. Le sue mani avevano smesso di impugnare
il piccolo pettine di plastica, la sua gola era troppo infiammata per
cantarmi
le sue adorate canzoni. Ma sorrideva ancora, e mi stringeva al petto,
carezzandomi la mano destra- da cinque anni più malsana e
rugosa di quella
sinistra, come invecchiata o marcita.
Ti voglio bene, mamma, le dicevo. E lei sospirava e mi
diceva che sentiva che ogni giorno me ne andavo di più.
Scivoli via, ripeteva.
E io non potevo far nulla, perché sapevo che era vero.
Erano settimane che non uscivo di casa, e l’aria di dicembre
era così pungente da farmi tossire.
Mi strinsi le braccia al petto, e cominciai a camminare.
Passo dopo passo, cercai di ascoltare, chiudendo gli occhi.
Quando cominciai a sentire l’eco lontano di quelle voci per
me tristemente conosciute, mi fermai di scatto,
all’improvviso, e aprii gli
occhi.
Davanti a me c’era un piccolo ruscello, incastrato nella
terra, a pochi passi da un boschetto.
Fissai le increspature dell’acqua, con il cuore in gola.
La sera prima aveva piovuto. E stasera avrebbe piovuto
ancora.
A quelle gocce rimaste lì, in attesa di essere riprese dalle
loro sorelle, avevo un messaggio da lasciare.
Facciamo un patto, dissi.
L’acqua del fiumiciattolo che avevo trovato a mezzo
chilometro da casa mia rimase immobile, senza vita. Voleva beffarsi di
me, ma
non ci sarebbe riuscito.
Mi accovacciai , posando la mia mano destra sull’erba,
vicino alla riva. Sentivo il frinire delle cicale, il gracidare dei
rospi
entrarmi nelle orecchie.
Ti supplico, solo un po’. Lascia che stia ancora con me.
Lascia andare mia madre, per un po’, e poi ti giuro che non
sfuggirò più al mio
destino. Ti verrò incontro.
Ti supplico, lasciala andare.
Il ruscelletto si mosse.
Sospirai.
Gli
ultimi anni con mia madre furono forse i più belli della
mia vita.
Guarita come per miracolo da tutti quegli insidiosi mali che
prima la affliggevano, sembrò rinascere. Danzava per la
casa, cantando di
nuovo. Spolverava tutto, puliva tutto, sorrideva per tutto.
Le volevo bene.
Insisté ancora un po’ per convincermi a tornare a
scuola, ma
senza troppa convinzione. Stavamo così bene, io e lei, fuori
sulla veranda a
bere il the, a guardare il tramonto.
Con i risparmi di una vita di lavoro in casa di altri, ed il
ricavato dalla vendita dei miei libri, potemmo partire per un viaggio.
Alla
fine, ci spostammo solo di poche decine di chilometri; ma era eccitante
lo
stesso per due persone come noi, costrette da anni a vivere quasi
sempre chiuse
in casa.
Mia madre non capiva come mai le mie paure fossero sparite
all’improvviso. La pioggia non mi preoccupava più,
ormai. Le sue voci avevano cambiato
tono.
Viaggiavamo, senza una meta, senza uno scopo, per il puro
gusto di viaggiare. Avevo la mano dentro quella di mia madre e ci
bastava,
vedevamo il sole sorgere, sentivamo l’aria, la vita.
Mia madre comperò un fornellino, così che potemmo
anche fare
il the e guardare insieme il sole tramontare.
Dormivamo in letti nuovi, con lenzuola sempre pulite ed
asciutte.
Le uniche note di ansia c’erano di notte, quando pioveva. Io
non riuscivo a fare altro che ascoltare, gli occhi spalancati, i
capelli
davanti come a proteggermi dal mondo.
Prima o poi, diceva la pioggia.
Prima o poi.
Mia
madre morì un mese dopo.
Spirò di mattina, accanto a me, con una tazza di the in
mano. È proprio una bella giornata, aveva detto, e mi aveva
carezzato una guancia.
Ti voglio bene, tesoro, sorrise.
Morì con un sorriso sulle labbra. La tazza quasi le cadde di
mano, ma io la afferrai e la misi sul comodino, accanto a lei.
Venne sepolta vicino casa nostra, a due passi dai cespugli
di rose che amava tanto curare. Sulla sua tomba depositai un mazzo dei
suoi
fiori.
Al funerale non c’era quasi nessuno. Chiusa in casa,
dedicata la sua vita solo a me, non aveva conosciuto quasi nessuno.
C’era una
sua cliente, un nostro vicino di casa che guardava in continuazione
l’orologio.
Ed io.
I riti funebri durarono poco. Il parroco mi fece le sue
condoglianze, mi chiese distrattamente se avessi bisogno del suo
conforto.
Rifiutai con gentilezza, gli strinsi la mano.
Rimasi a guardare allontanarsi il saio scuro del prete, la
giacca elegante del vicino, il vestito vaporoso della donna. Stetti in
piedi
quasi un minuto, finché le loro sagome non scomparirono
all’orizzonte.
Poi, mi voltai.
Entrai in casa in punta di piedi, per non disturbare lo
spirito di mia madre, che sentivo cantare nel soggiorno. Entrai in
camera da
letto, aprii il secondo cassetto del secondo comodino. E presi il
piccolo
pettine di plastica che le sue mani avevano tenuto tante volte.
Mi avvicinai alla finestra e cominciai a pettinarmi. In
salotto mia madre cantava e io cominciai a cantare con lei, la stessa
canzone.
Non avevo mai cantato in vita mia, e mi sorpresi di trovare la mia voce
sottile
ma potente. Mia madre rise, sentii una folata di vento scompigliarmi i
capelli.
Ne presi una ciocca, soprappensiero, aprendo il primo
cassetto del primo comodino.
Le mie dita si strinsero delicatamente sulle forbici.
Sorrisi.
Il vento si fece più forte, mentre alzai gli occhi al cielo.
Le nuvole cominciavano ad ammassarsi, a formare un unico nucleo
compatto.
I miei occhi cambiarono colore, diventarono mulinelli
furiosi, nuvole tempestose, acqua fragorosa.
Pioveva.
L’acqua scendeva fitta, calando un velo grigio e azzurro sul
mondo, ricadendomi sul viso, sui miei capelli per la prima volta
violati.
Le grida mi invasero forti come non erano mai state, mi
entrarono ed uscirono da un orecchio all’altro
attraversandomi tutta, facendomi
inarcare per la loro potenza. Allargai le braccia, come in procinto di
spiccare
il volo.
Vieni, vieni, gridava.
Chiusi gli occhi.
Vidi la mia vita, i miei compagni di scuola. Vidi la mia
casa, mia madre. Vidi le sue mani, le sue labbra muoversi, i miei
capelli, la
mia scuola, i miei libri, la finestra, il tramonto.
Vidi come sarei stata tra qualche attimo, come sarei
diventata pioggia.
Sorrisi di nuovo.
Rain, rain, mi chiamava la pioggia.
Eccomi, gridai dentro di me. Sono qui.
Sono qui.
Per favore, non fermarti.
E poi, tutto ad un tratto- morii.
Rinacqui nello stesso istante, elevandomi forte, non più
gracile, asmatica, non più me. Vidi i miei vestiti, vuoti, a
terra. Risi, e la
mia voce era uno scroscio, era forza, bellezza, era vita e distruzione,
era
tutto.
Finalmente, ero me stessa.
Insieme alle mie sorelle, gocce ed acqua e pioggia, mi
sentii libera.
Gocce d’acqua sui
vestiti bagnati, resti di una vita vissuta.
Aveva smesso di
piovere.