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Autore: GReina    14/01/2022    4 recensioni
[fantasma!AU - sakuatsu] [ghost!Atsumu - alive!Sakusa] [light angst con lieto fine]
Sakusa non riesce a capire perché la sua nuova casa costi tanto poco. Sa solo che tutti i precedenti proprietari non sono mai riusciti a sentirsi a proprio agio e gli basta poco tempo per capire il loro malessere. Più tempo, invece, gli serve per rendersi conto che quel malessere appartiene a qualcun altro.
Le presenze esistono, e il nome di quella che infesta casa sua è Miya Atsumu.
Genere: Commedia, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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NEVER ALONE

Sakusa riconosceva di essere una persona difficile da accontentare. Soffriva di misofobia e questo gli rendeva le cose complicate. Che fosse per decidere dove andare a mangiare o semplicemente il posto a sedere in aula, le opzioni andavano valutate attentamente ed imponendosi grande autocontrollo.
Ma Sakusa rimaneva anche uno studente universitario, e in quanto tale era sì esigente, ma anche consapevole di dover scendere a patti con alcuni compromessi.
Come tutti gli studenti, le sue finanze erano limitate. Alloggiare in un dormitorio studentesco con tutto ciò che ne conseguiva era fuori discussione, e dividere l’appartamento con dei coinquilini pure. Fu quindi non del tutto sereno ma anche deciso a tenere le redini del controllo più morbide del solito che intraprese la ricerca del luogo in cui per cinque anni almeno avrebbe abitato.
Dopo case troppo in periferia, appartamenti logori e monolocali non a norma, quindi, gli sembrò fin troppo bello per essere vero aver trovato infine l’appartamento perfetto. Era in centro, ampio, pulito, dalle pareti spesse che lo isolavano bene dai vicini, con mobili ed elettrodomestici nuovi e nessun materiale tra pavimenti e pareti che potesse intrappolare irrimediabilmente lo sporco.
Per la terza volta chiese al proprio agente immobiliare dove fosse il trucco; perché una casa tanto bella fosse a differenza di quelle adiacenti tanto economica, e quello di nuovo gli rispose:
«Non c’è nulla che non vada nella casa, ma ogni inquilino che è venuto ad abitarci non si è trovato bene. In molti hanno cambiato mobili, elettrodomestici o pitturato le pareti pur di renderla più accogliente per loro, ma poi sono andati via ugualmente.»
Kiyoomi si guardò ancora attorno.
Perfetta.
Scrollò le spalle di fronte alle inspiegabili fughe dei precedenti proprietari, poi si rivolse all’uomo al suo fianco:
«La prendo.»
Fu in quel modo che Sakusa Kiyoomi ottenne la sua prima casa. Avrebbe dovuto lavorare per poter pagare le bollette, ma il costo del loco era stato talmente misero che non un debito aveva dovuto aprire con la banca.
Si dedicò da una parte al lavoro, dunque, e dall’altra allo studio. Socializzare non era mai stato parte di lui e lo fu men che meno in quel periodo di nuovo adattamento.
Passarono due mesi e poi tre, mesi in cui Kiyoomi credette di iniziare a capire il senso di disagio di chi prima di lui lo aveva preceduto. La casa era perfetta, non c’era niente che fisicamente non andasse, eppure uno strano senso di amarezza sembrava come intrappolato tra quelle mura. Lottava per uscire, ma non riuscendoci entrava piuttosto in lui.
Il corvino non ci badò più di tanto, in ogni caso, perché si trattava pur sempre di un universitario sotto esami. L’ansia e l’amarezza erano all’ordine del giorno, e se poi a queste vi si aggiungeva il suo disturbo per lo sporco e la repulsione per i contatti umani, nessuna sorpresa che si sentisse in quel modo.
Passarono quattro mesi, poi cinque, e l’angoscia continuò.
Era strano, come se qualcosa di superiore gli imponesse quello stato d’animo. Tanto strano che Kiyoomi arrivò persino a parlarne con suo cugino. Komori rise.
«Il tuo lavoro part-time ti mette troppo in contatto con le persone, Kiyo! Non ti fa un bell’effetto.» e questo era certamente vero, ma Sakusa sentiva esserci qualcosa di più.
Sei mesi, poi sette, ed in casa iniziarono a succedere cose strane.
«Mi sono svegliato con la fortissima sensazione che ci fosse qualcuno nella stanza insieme a me.» raccontò a Motoya il giorno dopo. Di solito il corvino non era così loquace, ma la convinzione della notte prima era stata talmente forte ed assurda che non raccontarlo a qualcuno gli risultò impossibile.
«Ho acceso la luce e mi è anche sembrato di vedere una sagoma seduta ai piedi del letto.» vide suo cugino rabbrividire. «Ho continuato a vederla per diversi secondi, però mi dava una buona sensazione. Non come se fosse un intruso, capisci?» attese qualche secondo, poi concluse: «Sicuramente stavo ancora sognando.»
Komori conosceva bene il suo disprezzo per qualsiasi tipo di tocco, quindi il fatto che gli diede un leggero pugno sul braccio fu la prova definitiva di quanto fosse scosso.
«Dici così per mettermi paura! Smettila di dire certe cose! Sai che io credo alle presenze!!» i capelli di suo cugino erano ritti sulla nuca, la pelle d’oca ben visibile sulle braccia scoperte. Sakusa rise.
«Ancora con le storie di fantasmi? Per quanto tempo ancora crederai a certe cose?»
«Sei stato tu a parlare di sagome ai piedi del letto!» il corvino alzò gli occhi al cielo.
«Era solo un sogno.»
E lo credeva veramente, per questo fu strano per lui rendersi conto – nei giorni a venire – di star ponderando le parole di suo cugino.
Le presenze avrebbero spiegato molte cose. La fuga di tutti i proprietari che l’avevano preceduto, il prezzo tanto basso, il senso di malessere che si impossessava di lui traditore e senza il minimo preavviso.
Era troppo assurdo, però, così continuò ad ignorare i segnali.
Passarono otto mesi, poi nove, e più Kiyoomi tentava di ignorare ciò che percepiva, più quelle sensazioni si facevano nette. Più quelle sensazioni si facevano nette, più Kiyoomi iniziava a credere, e più Kiyoomi iniziava a credere, più iniziava a vedere.
C’era una presenza. Era passato un anno da quando aveva comprato quell’appartamento e finalmente riuscì ad ammettere con se stesso (mai con Komori) che, sì, ci credeva.
La presenza di quella casa però non era cattiva. La percepiva, sapeva di non essere solo, ma sapeva anche di essere al sicuro. Non c’era nulla che lo spingesse a scappare. Quello strano senso di amarezza, ora, imputabile allo stato d’animo del suo invisibile coinquilino. Quello strano senso di amarezza adesso da lui letto come un grido d’aiuto, come un fardello pesante che la presenza non riusciva più a sopportare da sola.
Dunque, rispose alla chiamata di aiuto. Accettò la presenza di qualcun altro all’interno di quelle mura ed accettò anche il peso dei suoi sentimenti.
«Ti aiuto io.» si era ritrovato a sussurrare una notte, quando una morsa sul cuore lo aveva fatto svegliare perché eccessivamente triste, e ad un tratto era sparita.
Sparita la morsa, sparita l’amarezza, ma non la sensazione di non essere solo.
“Ti aiuto io.” aveva affermato sincero, e con quelle semplici parole lo aveva fatto.
Fu solo da quel momento che Sakusa accettò completamente la cosa, e quel fatto cambiò tutto.
Adesso la vedeva, adesso poteva dargli una forma, un volto, un genere.
Era un ragazzo, e se prima sempre lugubre, più Kiyoomi dava segno di notarlo più l’altro si lasciava i brutti pensieri alle spalle.
Iniziarono così: non potevano comunicare né il corvino riusciva a vederlo in modo netto; si limitavano agli sguardi che potevano scambiarsi quelle rare volte in cui il fantasma riusciva a manifestarsi, ma tanto bastava.
Iniziò a formarsi un legame. Semplicemente, Kiyoomi studiava e l’altro lo osservava seduto all’altro capo del tavolo. Era rilassante poter stare in compagnia senza la paura di venire toccato a tradimento.
Poi iniziarono a chiacchierare, o almeno – per forza di cose – iniziò a farlo Sakusa. Quello era del tutto nuovo per lui, e non tanto perché il suo interlocutore era una creatura soprannaturale, quanto perché lui non era mai stato avvezzo alle chiacchiere.
Si chiese cosa in quella situazione lo avesse spinto ad aprirsi, e si rispose che era grazie all’unico modo in cui la presenza era in grado di rispondergli: attraverso i suoi sentimenti. Non c’erano bugie in quello che sentiva, e Kiyoomi sentiva reale interesse nell’ascoltare quello che aveva da dirgli, sentiva reale felicità per il semplice fatto che lui gli stesse parlando.
«Mi crederai pazzo, immagino.» una sera concluse in quel modo un lungo sproloquio sull’importanza di finire tutto ciò che veniva iniziato, e per la prima volta riuscì a sentirne realmente la risposta: una risata.
Si mise seduto ritto per la sorpresa e con occhi spalancati cercò di fissare meglio il punto in cui percepiva esserci l’altro.
«Hai riso!» disse tra lo sconvolto ed il contento. L’aria in cui si trovava il fantasma tremò, la sua sagoma confusa scomparve e riapparve l’attimo dopo. Kiyoomi interpretò il fatto come la sorpresa dell’altro e allo stesso modo poté percepirlo dentro se stesso.
Poi, l’aria della stanza vibrò, come se un suono stesse lottando per uscire, ma senza successo.
«Non riesco a sentirti.» era stato il suo sussurro rammaricato. Non lo sentiva, eppure era chiaro quanto ardentemente l’altro ci stesse provando. Fu amareggiante non riuscire ad arrivare a nessun risultato, eppure quel giorno aveva reso chiara una cosa: comunicare non era impossibile.
Nei giorni a venire, l’aria vibrò sempre più spesso. Kiyoomi si chiese come l’altro riuscisse a farlo e soprattutto cosa fosse cambiato dalla settimana scorsa.
Non aveva importanza. L’importante era continuare a provarci senza arrendersi.
Passò una settimana. Poi – finalmente – un suono:
“O-m-i.” il corvino non ci diede peso perché sicuro di esserselo immaginato, ma poi di nuovo:
“Ki-omi.” strabuzzò gli occhi prendendo a guardarsi intorno.
“-yoo-mi.” lo sguardo di Sakusa si focalizzò su un punto, sulla poltrona più vicina al camino.
“Kiyoomi.”
Una semplice parola; il suo nome. Niente di sbalorditivo ma che portò i loro progressi su un altro livello.
Passò una settimana ancora, dopodiché sentire il proprio nome dalla voce del fantasma divenne qualcosa di quotidiano. Kiyoomi sorrideva in quei frangenti, poi sollevava lo sguardo dove il proprio sesto senso gli diceva esserci l’altro e da lì iniziavano a comunicare in quel loro strano modo.
Un giorno, la presenza lo chiamò e lui sentì di doversi avvicinare alla finestra. Quando lo fece vide che stava nevicando. Sorrise anche allora.
«È bellissimo.»
«Mi piace quando nevica.» persino brevi risposte come quella iniziarono a diventare normali e Sakusa non avrebbe potuto esserne più felice.
Passarono due mesi, poi tre, e finalmente Kiyoomi conobbe il nome del suo coinquilino: Miya Atsumu.
Quello aiutò molto, o almeno così interpretò il corvino, perché da quel giorno sempre con più facilità Atsumu riuscì a parlare con lui.
I progressi di Kiyoomi nel percepirlo erano stati, d’altronde, tutti dettati da quanto il vivente credesse in lui. Prima aveva accettato che forse i fantasmi potevano esistere, e subito aveva iniziato a percepire la presenza di Atsumu. Poi, aveva capito che quella presenza aveva un carattere, dei sentimenti, e sempre più radicalmente li aveva percepiti in se stesso. Ancora, aveva iniziato a ritenerlo umano e dunque a parlare con lui, e Atsumu era stato in grado di farsi sentire.
Sapere il suo nome, adesso, era come mettere la ciliegina sulla torta. Miya Atsumu esisteva; era stato una persona e adesso era un fantasma. Un fantasma che Sakusa era in grado di vedere e sentire.
«Congratulazioni per la tua laurea, Omi!!» gli disse proprio questi non appena Kiyoomi fu tornato a casa dalla propria proclamazione.
Il corvino sorrise.
«Grazie, sono molto felice di questo traguardo.»
«E fai bene! Anche mio fratello si è laureato, sai? Ed ero così felice per lui!!» Kiyoomi continuò a sorridere, stavolta intenerito per l’affetto che Atsumu dimostrava ogni qualvolta che nominava Osamu. Non avevano parlato troppo spesso di lui. Sapeva solo che era il suo gemello e che era per lui che era rimasto nel mondo terreno.
«Dov’è la tua corona d’alloro??» gli chiese il fantasma iniziando a fluttuare in giro alla ricerca dell’oggetto. Non appena la trovò iniziò a vibrare eccitato.
«Forza, mettitela! Voglio vederti con questa in testa!» Kiyoomi rispose con una smorfia.
«Ma è così pacchiana! L’ho presa solo per fare contenta mia madre.» disse così, ma infine la indossò e ne valse la pena.
La visione che Sakusa aveva di Atsumu era translucida e a volte poco nitida, ma fu chiaro come il sole il suo sorriso.
«Vorrei poterti fare una fotografia.» disse sincero questi, poi raggiunse il suo cellulare e – non potendolo di certo afferrare – si limitò ad indicarlo. Kiyoomi rise.
«D’accordo.» concedette mentre apriva la fotocamera interna. «Guarda chi mi hai fatto diventare.» sbuffò «Una persona che si fa i selfie.» concluse con disprezzo. Atsumu rise.
«Non so cosa siano i selfie, ma non sembra qualcosa di tanto brutto.»
«È qualcosa da non-me.» mentre lo diceva sollevò il braccio e si inquadrò nello schermo.
«D’accordo, vieni qui.» fece ad Atsumu. «Non ti vedrai ma almeno io saprò che ci sei anche tu in questa foto.» il sorriso luminoso di Miya tornò ed il suo decise di ampliarsi. Premette sullo schermo ed il click della fotocamera risuonò per tutta la stanza.
Immediatamente dopo, fu il campanello a trillare. Sakusa sospirò ed Atsumu rise.
«Ci sono qui io. Puoi farcela.» gli fece l’occhiolino e Kiyoomi mormorò.
«Spaventi un pochino Motoya?» la sua famiglia aveva insistito per festeggiare il traguardo di entrambi, e casa di Kiyoomi – a quanto pareva – era il posto migliore in cui farlo (una volta da lui stesso esclusi tutti i locali proposti dalla sua famiglia).
«Andata!» acconsentì Atsumu «Qualche brivido non glielo toglie nessuno.» ed infatti così fece.
La festa non fu poi tanto male. La casa era grande, ma non abbastanza da permettere a sua madre di insistere affinché fossero invitate troppe persone. In più, senza alcun dubbio, contribuì molto alla sua serenità l’aiuto di Atsumu.
«Kiyo, perché qui da te c’è sempre così freddo!!»
«Te l’ho detto, il termostato funziona. È Atsumu che porta freddo quando ti sta troppo vicino.» Komori rabbrividì e tutta la famiglia rise mentre il castano indignato gli urlava contro:
«Smettila! So che non ci credi ma io sì! Perché hai dovuto dargli anche un nome?» Kiyoomi rise ed Atsumu pure, così Motoya si voltò di scatto.
«Avete sentito??» d’altronde Sakusa lo vedeva perché credeva in lui. Se era così anche per suo cugino, il fatto che avesse percepito la sua risata non lo stupì minimamente.
«Ti immagini le cose, come sempre.» lo liquidò nascondendo un ghigno e lanciando un occhiolino al fantasma. Questi rispose allo stesso modo facendo pensare a Kiyoomi che fare una festa – alla fin fine – non era stata poi un’idea così brutta.
Quando tutti gli ospiti andarono via, l’umore di Atsumu scese a picco.
«Cosa c’è?» si interessò Sakusa con vena preoccupata. L’altro non volle parlare, così il corvino dovette insistere.
«Puoi dirmi tutto, lo sai.» l’aria vibrò nel punto in cui si trovava Miya, segno che era a disagio, preoccupato.
«Non importa, davvero. Non è importante.»
«Importa, davvero.» lo contraddisse lui. «Ed è chiaramente importante.» Atsumu sospirò.
«Be’, hai finito gli studi.» disse «Quindi ora andrai via.» Kiyoomi corrugò la fronte, così l’altro continuò:
«Avevi preso questo appartamento per studiare, quindi ora…»
«Quindi ora dovrò cercarmi un lavoro che valga la mia laurea.» concesse. «Però no, non lascerò questa casa.»
Sorrise, Kiyoomi, al cambio d’umore di Atsumu.
«Il quartiere è bello, no?» continuò mentre iniziava a pulire il salotto dopo la festa. «La posizione della casa è magnifica, e non è facile trovare coinquilini perfetti come te! Insomma, non sporchi mai, non disordini. Sembra quasi che non tocchi mai niente!» Atsumu rise.
«Humor da fantasma? Davvero?» chiese. Anche Kiyoomi rise.
«Troppo presto?» Miya non smise di sorridere.
«No, direi che va bene.»
Dunque, fece come aveva detto: cercò e – dopo diversi tentativi – trovò lavoro. La giornata lavorativa, specie agli inizi, fu più sfiancante di quanto Kiyoomi non avesse creduto, ma c’era Atsumu a casa ad aspettarlo, e questo compensava tutto.
Divenne il suo migliore amico. Un ascoltatore, un consulente, qualcuno di cui potersi fidare. Iniziò a confidargli praticamente ogni cosa e così – si rese conto parlando con Motoya – Atsumu divenne il fattore che più di ogni cosa lo rendeva felice.
«Sembri diverso.» gli aveva detto con un sorriso suo cugino. Komori aveva trovato lavoro in un’altra città, quindi erano già diversi mesi che non si vedevano di persona.
«Cioè?» l’altro indugiò alla sua domanda, forse tentando di trovare il modo migliore con cui definirlo. Poi rise.
«Se non ti conoscessi, direi che sei felice.» anche Kiyoomi rise, forse scioccando per sempre il suo parente.
«Questa città mi rende felice, in effetti.»
Passarono presto a parlare d’altro, ma quella conversazione gli fece capire quanto Atsumu avesse influito sulla qualità della sua vita.
Trascorsero ancora i mesi, poi gli anni. Kiyoomi cambiò lavoro, gruppo di amicizie e in alcuni casi persino stile di vita. L’unica costante restarono Atsumu e la loro casa.
Compì quarantacinque anni e dopo quattro mesi sua madre morì.
Se n’era andata in pace, attorniata da figli e nipoti e senza nulla da rimpiangere. Sakusa avrebbe dovuto semplicemente essere grato per quello, ma rimaneva pur sempre la sua mamma, così di ritorno dal funerale – al sicuro tra le quattro parenti domestiche di casa propria – si permise di piangere. Atsumu lo consolò.
«Tu come sei morto?» gli chiese in un sussurro roco dopo qualche ora di lacrime. Guardò verso Atsumu, poi riprese: «Non ne abbiamo mai parlato… non sapevo se—» sospirò «Non sei costretto a dirmelo.» anche il fantasma sospirò (non che potesse farlo davvero).
«No, va bene. È successo tanto tempo fa. L’ho metabolizzato.» ridacchiò, e Sakusa con lui. Poi il corvino attese, e non appena fu pronto Atsumu disse:
«Influenza Spagnola. Nel 1919. Avevo diciassette anni… la mia età mi aveva salvato dalla guerra, ma… be’, non si può avere tutto.» Miya rise, ma questa volta l’altro non ci riuscì.
«Mi dispiace.» Atsumu scrollò le spalle.
«Tutti dobbiamo morire. Il fardello maggiore lo portano quelli che rimangono.» Kiyoomi valutò se pronunciare o meno la prossima frase. Infine decise di parlare:
«È per questo che sei rimasto? Tuo fratello. Giusto?» il fantasma annuì.
«Io e Osamu eravamo inseparabili. A quindici anni per poco non abbiamo falsificato i documenti per poterci arruolare insieme.
Quando mi sono ammalato lui ha continuato a starmi accanto ed io ero del tutto terrorizzato. Se fosse morto a causa mia non me lo sarei mai perdonato, ma poi mettendomi nei suoi panni ho capito che io avrei fatto la stessa cosa. Così, quando è arrivato il mio momento, ho scelto. E ne è valsa la pena, credimi.»
«Gli sei stato accanto come per me adesso?»
«Non esattamente. Lui non mi vedeva, però so che mi percepiva. Nostra madre lo riteneva pazzo quando glielo diceva. Tutti gli dicevano di abbandonare questa casa, ma lui non l’ha mai fatto, fino alla fine.» quando capì cosa quelle parole implicassero, gli occhi di Kiyoomi si spalancarono.
Aveva visto suo fratello morire.
«Atsu, mi dispiace così ta—»
«Non devi.» non lo lasciò finire. «L’ho visto diventare un uomo, sopravvivere alla Seconda Guerra, l’ho visto riprendersi la propria vita. L’ho visto innamorarsi. L’ho visto felice.» sorrise contento. «E poi l’ho visto passare oltre. Era in pace.»
«Allora perché sei rimasto?» Atsumu scrollò le spalle.
«Quando scegli è per sempre. Non posso più passare oltre, ormai.» Kiyoomi non poté impedire al proprio viso di incupirsi, abbassò gli occhi e fu solo grazie alla voce allegra dell’altro che tornò a testa alta.
«Non fare quella faccia! Te l’ho detto, ne è valsa la pena. Davvero. Rifarei tutto mille volte. Sarò pur rimasto da solo per una cinquantina d’anni, ma ogni volta che penso al motivo per cui ‘Samu non è qui con me non riesco ad essere triste. Lui è felice, adesso, ed è quello che ho sempre voluto.»
Parlarono di quello ancora per un po’. Dopotutto la madre di Kiyoomi era appena morta e questo era ciò di cui lui aveva bisogno, perché non c’era persona nella sua vita che conoscesse la morte e le sue conseguenze meglio di Atsumu.
Alla fine di quella discussione, Sakusa ebbe il fortissimo impulso di toccare Atsumu. Soltanto toccarlo. Convivevano ormai da più di vent’anni e sarebbe stato inutile da parte sua negare a se stesso cosa provava per lui.
Era strano, come lo era ogni cosa che riguardava i fantasmi. Atsumu aveva una forma, e questa era di un ragazzo giovane, non più come lui. Eppure la sua anima aveva continuato a maturare, cosicché affermare che aveva diciassette anni sarebbe stato corretto quanto affermare che ne aveva cento quarantanove.
Corretto era sicuramente che Kiyoomi sorrideva sempre di più grazie a lui, che Kiyoomi rideva grazie a lui, che Kiyoomi era felice grazie a lui.
Corretto era sicuramente che in ventidue anni vissuti insieme Kiyoomi si era innamorato di lui.
Sollevò la mano e la adagiò nel punto in cui c’era la guancia inconsistente di Atsumu. Tutto quello che sentì fu un gran freddo, ma c’era abituato. Non era la prima volta che lo faceva e sicuramente non sarebbe stata l’ultima. Miya chiuse gli occhi e cercò di godersi quel momento. Molti anni prima gli aveva spiegato che non riusciva a sentire assolutamente nulla, ma che chiudendo gli occhi gli piaceva immaginare come avrebbe potuto essere ricevere un suo tocco.
«Avrei voluto conoscerti quando eri ancora in vita.» si ritrovò a sussurrare. Atsumu riaprì gli occhi.
«È stato meglio così. Quegli anni sono stati brutti… e poi avresti potuto conoscermi solo per diciassette anni. Così abbiamo molto più tempo, no?» Kiyoomi si ritrovò a sorridere.
«Sì, hai ragione. Così abbiamo più tempo.»
Rimasero così: uno di fianco all’altro nel salotto; Kiyoomi avvolto in una rigida coperta nonostante fosse estate ed Atsumu accanto a lui.
Gli anni continuarono a passare, i suoi nipoti a crescere, lui ad invecchiare.
Fu a settantatré anni che conobbe il suo primo pronipote. Lui non aveva avuto figli, ma i suoi fratelli sì e con questi era sempre rimasto in stretti rapporti.
«Ti stai ammorbidendo con gli anni, Omi!» gli disse Atsumu un giorno mentre lui faceva le facce buffe al nuovo arrivato in famiglia. Sakusa si limitò a sorridere al suo indirizzo. Parlare apparentemente da solo, d’altronde, non era l’ideale, soprattutto se la sua famiglia avesse iniziato a pensare di doverlo fare ricoverare. Rivolto dunque al bambino, con una vocina imbarazzante, disse:
«Tanto Hiro sa che anche se fa le facce buffe Omi resta lo zio spaventoso, vero che lo sa?» il bambino rise e sporse in avanti le manine per raggiungere l’anziano dal suo seggiolone. Sakusa si fece indietro ed Atsumu gli si avvicinò.
«Potresti provare a toccarlo. È un bambino, sono sicuro che Kaori e suo marito lo puliscano a dovere da ogni germe.» Kiyoomi sospirò piano, si guardò intorno e una volta appurato che nessuno potesse sentirlo sussurrò:
«Se non posso toccare te, non tocco nessuno.» Atsumu non nascose la propria commozione.
«Così romantico, vecchiaccio mio.» Sakusa grugnì come ogni volta che l’altro lo chiamava in quel modo, ma infine non poté che sorridere. Da tutta la vita Miya tentava di aiutarlo con la propria misofobia. Quella era la prima volta che Kiyoomi ammetteva ad alta voce perché non era mai stato interessato ad impegnarsi maggiormente contro la propria malattia.
 
A Takahiro seguirono Akihiko e Kamiko. Poi nacque Kota ed ancora Hana.
«Non la voglio qui! Portatela via!!» Kiyoomi non era mai stato una persona facile, ma con la vecchiaia, anche se spesso non se ne rendeva del tutto conto, divenne molto peggio.
«Zio, ti prego—»
«No. È casa mia! Non voglio una sconosciuta qui!»
«O questo o la casa di riposo. Per favore, zio Omi!»
«Non lascio questa casa!!» fu Atsumu, all’insaputa di tutti, a risolvere la situazione.
«Omi.» il semplice sentire quelle tre lettere pronunciate da lui ebbe il potere di calmarlo.
«Hai bisogno di aiuto. Io non posso toccarti né chiamare i soccorsi. Cosa succede se cadi e ti fai male?» era perfettamente percepibile il groppo che stava serrando la gola di Atsumu. Senza contare, certo, che come negli ultimi settantadue anni le emozioni del fantasma avevano il potere di riflettersi in lui.
Atsumu era triste e spaventato, e tutto Kiyoomi voleva eccetto che quello.
Annuì seccamente, dunque. Era diventato un vecchio scontroso e sapeva di esserlo, ma sapeva anche quando era tempo di darla vinta.
Una badante si trasferì in casa sua. Alcune zone dell’appartamento vennero modificate per aiutarlo nei movimenti, altre del tutto cambiate. Venne comprato un girello e all’occorrenza anche una sedia a rotelle.
«La vecchiaia fa schifo.» si lamentò un giorno dalla sua comoda poltrona mentre fingeva di guardare la televisione. Atsumu rise.
«Neanche ‘Samu aveva preso benissimo la sua. Lui però non è arrivato a novantacinque anni. Il ventunesimo secolo è fantastico!» Kiyoomi lo guardò male e Atsumu rise più forte.
«Io sono contento che tu ci sia arrivato, Omi.» e come poteva rimanere adombrato quando la persona che amava lo guardava in quel modo?
Sorrise, e fu a quel punto che la ragazza che si occupava di lui entrò nella stanza.
«È di buon umore?» l’anziano la guardò senza perdere il sorriso.
«Sto guardando un film molto bello.» l’altra si sedette sulla poltrona a qualche metro di distanza.
«Di che parla?»
«Non ne ho idea.» tutti e tre risero.
 
Passarono solo sei mesi prima che Kiyoomi cedesse e iniziasse a parlare con Atsumu anche in presenza di Fumiyo. Il fantasma continuava a ridere per le reazioni della badante e diceva a Kiyoomi di smetterla prima che questa iniziasse a ritenerlo pazzo.
«Oh, è troppo tardi per quello.» gli rispose Sakusa un giorno con tono greve. Atsumu rise ancora.
«Scommettiamo che se le chiedi se ti crede ti risponde di sì?» Kiyoomi lo fece.
«Fumiyo-chan, tu credi nell’esistenza di Atsumu?» la ragazza strabuzzò gli occhi, forse tentando di ricordare dove avesse sentito quel nome. Risaliva a quattro mesi fa, d’altronde, la discussione che lei ed il vecchio avevano avuto sull’argomento. Sakusa aveva posto una domanda al fantasma, ma quando era stata la ragazza a rispondere aveva per la prima volta detto sinceramente:
“No, no, parlavo con Atsumu.” facendo a questo seguire tutte le spiegazioni dovute.
«Certo, Sakusa-san.» rispose con il sorriso. «Ci credo.»
Lei non poté sentire la risata di Atsumu, ma Kiyoomi sì, e presto ne fu contagiato.
Rimbambito era sicuramente da tempo un aggettivo in più per definirlo agli occhi della sua famiglia, oltre che burbero. Ma fintanto che gli lasciavano casa propria, Kiyoomi si sarebbe goduto quel tempo, libero di parlare con il suo amato compagno.
Era così che Atsumu lo chiamava sempre più spesso. Quando non trovava le lenti perché le aveva sulla fronte; quando non capiva perché il volume della televisione non si alzava mentre ammaccava ogni tasto del telefono di casa; quando se la prendeva con Fumiyo perché non aveva ancora mangiato ed erano appena le tre del pomeriggio.
«Il mio vecchio burbero rimbambito.» ma se con chiunque altro avrebbe potuto arrabbiarsi, con lui neanche se lo sognava, perché essere definito suo era così bello da fargli dimenticare tutto il resto.
Continuò imperterrito a raccontare del suo amato fantasma ai pronipoti ogni volta che lo andavano a trovare. La maggior parte di loro erano già grandi. Troppo, per credere ai fantasmi, ma d’altronde lui era un vecchio rimbambito e i suoi nipoti delle persone d’oro. Così lo stavano a sentire a un metro e mezzo di distanza e con le mascherine in volto come lo zio Omi voleva mentre il fantomatico Atsumu veniva nominato con amore e la temperatura nella stanza misteriosamente scendeva.
Anche quando il suo cuore prese a farsi più debole, Kiyoomi continuò ad avere un sorriso sulle labbra ad ogni brezza gelata, ad ogni sussurro fantasma, ad ogni vibrazione dell’aria.
«Perché non ti avvicini?» chiese Sakusa ad Atsumu togliendosi per un attimo la maschera dell’ossigeno.
«Se lo faccio sentirai freddo.»
«Se non lo fai mi sentirò solo.» era come da mesi ormai steso nel suo letto; la bombola d’ossigeno accanto e qualche familiare a vegliare su di lui in giro per casa.
Atsumu sorrise, ma solo dopo che Kiyoomi si fu fatto portare una seconda coperta l’altro si decise a raggiungerlo. Il vecchio non nascose un brivido. Dopo più di settant’anni vissuti come li aveva vissuti lui, altro non poteva essere quel brivido che qualcosa di bello.
«Te l’avevo detto.» si lamentò Atsumu. Kiyoomi sorrise.
«Ora va molto meglio.» chiuse gli occhi mentre il tipico freddo emanato dal tocco di Atsumu si intensificava sempre di più, segno che lo stava accarezzando.
«Adesso dormi, riposati.»
«Ti ritrovo qui al mio risveglio?» il fantasma non rispose subito, ma Kiyoomi non aveva fretta. Poi con voce spezzata arrivò in un sussurro:
«Non vado da nessuna parte.» Kiyoomi mormorò un assenso, poi il suo cuore smise di battere.
Fu strano, dopo. Talmente strano che fu difficile persino capire o riuscire a descrivere ciò che visse (sebbene questa fosse senza ombra di dubbio la parola sbagliata).
Seppe solo, a un certo punto, che era di nuovo nella sua camera da letto. Il suo corpo senza vita adagiato sul materasso, quello fluttuante di Atsumu in lacrime e disperato.
Si schiarì la gola.
Era così strano! Perché non aveva una gola. Era incorporeo e lo percepiva, o per meglio dire non percepiva nulla.
Riuscì a farsi sentire ed Atsumu sollevò lo sguardo. Da disperato, divenne ancora peggio.
«No! No, no, no! Omi, no! Perché non sei in pace! Perché non sei andato oltre!! Dovevi essere in pace… perché non lo sei! Il tuo conto in sospeso… ti prego, dimmi che non sono io il tuo conto in sospeso.» Sakusa sorrise.
«Come avrei mai potuto essere in pace aldilà senza di te?» gli chiese. La gola che non gracchiava più per la voce della vecchiaia; i muscoli che non dolevano; la mente lucida come non lo era da anni.
«Ovvio che il mio conto in sospeso sei tu. È una cosa tanto brutta?» Atsumu pianse ancora, così Kiyoomi gli si avvicinò.
«Sei la mia felicità, e lo sarai per l’eternità.»
Tese una mano e tutta l’aria nella stanza vibrò. Atsumu guardò con timore prima lui, poi la sua mano. Tornò al suo viso e lì restò ad ammirarlo per diversi secondi. Kiyoomi sorrise, ed intuendo il suo dubbio disse:
«Ne è valsa la pena, davvero. Lo rifarei altre mille volte.» le lacrime di Miya aumentarono. Atsumu aveva pronunciato quelle stesse parole mezzo secolo prima e lo sapevano entrambi.
Tese la mano anche lui e finalmente si toccarono.
Incorporei entrambi, furono comunque in grado di afferrare l’altro. Di sentire l’altro.
«Lo rifarei altre mille volte…» fu l’eco di Atsumu, e Kiyoomi sorrise. Non aveva mai sorriso tanto in vita sua.
Atsumu aveva avuto ragione quando gli aveva detto che conoscersi così era stato meglio. Avevano avuto più tempo. Adesso avevano l’eternità.
 

Okay mi piace troppo come fine l’ultima frase che ho scritto, quindi questo è un bonus o ne farò una piccola OS a parte in cui entrambi sono fantasmi:
iniziano a infestare casa loro insieme. Atsumu si comporta un po’ come faceva con Komori facendo scherzi buffi ai poveri nuovi proprietari, ma è Kiyoomi quello di cui in realtà tutti hanno assoluto terrore. Si salvi chi può se un po’ di polvere si accumula dopo una settimana senza pulizie. E gli specchi? La scritta “LAVAMI” la cosa più terrorizzante di tutte.
   
 
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