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Autore: S a p a i    19/01/2022    2 recensioni
Seokjin esce per la prima volta dopo le sue due quarantene - quella preventiva e quella obbligata.
Risucchiato dai suoi pensieri macina metro dopo metro, in una Seoul che gli sembra non conoscere, fino ad imbattersi in un vicoletto stretto, nell'insegna malconcia di un pub dall'aria trasandata.
Aprirà quella porta per poi scoprire, una volta uscito, che quello che si stava lasciando alle spalle era il suo, personale, Magic Shop.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kim Seokjin/ Jin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MAGIC SHOP

Ero uscito per fare due passi e prendere una boccata d’aria, rimettere insieme i pensieri e dire addio a quell’angolo di mondo in cui ero stato costretto a rinchiudermi, a causa della quarantena preventiva prima – e del Covid poi.
Mi ero riappropriato di un po’ della privacy che mi mancava da anni, ormai, e tornare ad andare in giro costretto a dovermi nascondere, in qualche modo, mi spaventava.
Passeggiai a lungo per le strade semi-deserte, col freddo pungente che attecchiva alle ossa, seppure fossi infagottato in un cappotto che mi arrivava fin sotto il ginocchio, le mani affondate nelle tasche, berretto a copertura di fronte ed orecchie e la mascherina a coprire naso e bocca.
Lasciavo fuori solo gli occhi, con cui divoravo la bellezza di una città che non conoscevo affatto, pur vivendoci, che avrei voluto esplorare in ogni angolo, di cui avrei voluto inspirare a pieni polmoni l’odore di quei vicoletti stretti sconosciuti ai più che, però, sicuramente riservavano le migliori sorprese.
Mi resi conto, passeggiando sovrappensiero, che non avevo mai desiderato così ardentemente non essere me. Chiunque altra persona andava bene, tutti tranne Jin: l’idol dei BTS.
Mi sarei accontentato anche d’essere soltanto Kim Seokjin, e mentre mi addentravo in uno di quei vicoletti stretti che avrei voluto tanto conoscere a memoria, mi chiesi cosa sarebbe successo se avessi rifiutato di firmare il contratto con l’allora Big Hit Entertainment.
Avrei perso tante cose, forse troppe. I miei amici, i miei fratelli, le milioni di persone che – pur non conoscendomi – mi volevano bene. O forse, volevano bene a Jin: l’idol dei BTS.
Adocchiai un’insegna cigolante e illuminata a metà, la porta scheggiata di un posto che aveva tutta l’aria d’essere antico, vissuto. Nascosto dal mondo e dagli occhi indiscreti da cui, per chissà quanti altri anni, avrei dovuto nascondermi.
L’aria calda e il profumo d’arrosto mi colpirono immediatamente, una volta aperta la porta. La condensa di respiri accumulati e risate contagiose mi pizzicò la pelle e per un momento ne fui sopraffatto. Lasciai che la porta alle mie spalle si chiudesse da sola, facendo un tonfo che non prometteva niente di buono, e a piccoli passi mi addentrai in quel posto rustico.
Mi liberai del berretto, e solo di quello, perché non potevo sapere – con certezza – che lì dentro non mi avrebbero riconosciuto, ma comunque avvertii un senso di realtà paurosamente poco familiare.
Avevo perso contatto con ciò che era vero, non sapevo più distinguere quali cose mi fossero state costruite attorno e quali invece fossero reali, consistenti, che potessi toccare con mano.
Raggiunsi il bancone, dietro cui si muoveva frenetico un uomo bizzarro, che doveva avere più o meno quarant’anni, con un ciuffo di capelli castani che gli copriva metà della visuale – ad occhio e croce – e i baffi acconciati all’insù, che gli donavano un’espressione buffa – inusuale.
Mi sedetti su uno degli sgabelli, tenendo un piede sul pavimento e l’altro blandamente abbandonato sul poggiapiedi. L’uomo mi si fermò di fronte, s’aggiustò le maniche della camicia consunta e sporca in più punti, e poi mi rivolse un sorriso radioso.
Non era coreano, si percepiva dai lineamenti, dall’attitudine, da quel modo frenetico che aveva di muovere le mani. Niente dentro quel posto era coreano, nemmeno la maggior parte dei clienti, che sembravano trovare in quel pub nascosto dal mondo un rifugio sicuro in cui poter essere sé stessi.
Mi venne da sorridere, pensando che quello potesse essere, per me, il Magic Shop che io e gli altri volevamo rappresentare per i nostri fan.
Un posto in cui nascondersi nei giorni in cui odiavano sé stessi, un luogo in cui trovare conforto, accoglienza e nessun tipo di giudizio.
«Vuoi ordinare qualcosa, giovanotto?» l’uomo aveva preso a fissarmi, ed io nemmeno me n’ero accorto, risucchiato dai miei pensieri.
Non ebbi il tempo di rispondere, sentii dei passi farsi sempre più vicini, uno scalpiccio via via più insistente, fino a che avvertii un cambiamento d’aria e qualcuno si sedette, con pesantezza, sullo sgabello di fianco al mio.
«Il solito, Max» riconobbi che era una voce femminile e mi voltai a guardarla.
Osservai con attenzione il suo profilo stanco, i capelli d’un castano chiaro gonfi e disordinati, che gli ricadevano senza senso alcuno sulle spalle e scendevano lungo la schiena, il naso con una piccola incavatura alla radice, tipica di chi portava occhiali da tanti anni, le labbra secche e screpolate e la pelle – chiara – arrossata in più punti, con qualche imperfezione che risaltava qua e là.
Mi ritrovai a sorridere, era una ragazza bellissima ed era vera. Niente a che vedere con le donne perfette che ci venivano propinate ogni giorno spacciandole per lo standard.
Lei dovette accorgersi che la fissavo perché mi lanciò un’occhiata trafilata, stirò le labbra in un sorriso accennato – che mi parve quello che si riserva ad uno che ti fa estremamente tenerezza, e non in senso buono. Quello, volendo, mi fece sorridere di più.
Non aveva la minima idea di chi fossi, e la cosa mi faceva battere il cuore ad una velocità pericolosa.
«Ecco a te, haebalagi» Max, il barman, fece scivolare un bicchierino di vetro verso di lei che lo portò alle labbra, bevendolo tutto d’un sorso, prima di tornare a guardare me, lo sguardo interrogativo ed un cipiglio quasi infastidito.
«Quello che ha preso lei» mormorai, e Max le fece un occhiolino prima d’allontanarsi per riempire un altro bicchierino.
«Cerchi di farmi una radiografia al cervello?».
La ragazza al mio fianco interruppe il silenzio bruscamente, lanciandomi addosso quell’interrogativo con sarcasmo e un pizzico di nervosismo.
Balbettai qualcosa d’incomprensibile, prima di riuscire a tirare fuori un mi dispiace imbarazzatissimo.
Lei non mi rivolse più la parola, ordinò un altro shot di qualunque cosa fosse, che una volta provato non sapevo come facesse a piacerle. L’alcool mi bruciò la gola quando lo ingollai, tutto in una volta – come aveva fatto lei.
Faceva schifo.
«È davvero così che approcci le donne?».
Lei parlò ancora, e quando voltai nuovamente il viso nella sua direzione vidi che aveva fatto girare lo sgabello in modo tale da starmi di fronte, aveva le gambe accavallate e notai che indossava un paio di jeans larghi, di un blu slavato, e ai piedi delle scarpe da ginnastica.
Non aveva nessuna pretesa, e quella cosa mi incuriosì persino di più.
Avevo imparato nella vita che esistevano donne a cui piaceva curare il proprio aspetto per sé stesse, altre che lo facevano per risultare perfette agli occhi degli altri, e altre a cui – semplicemente – non fregava un cazzo. Quella che mi stava di fianco, in quel momento, apparteneva decisamente all’ultima categoria.
Scossi la testa, sentendo che il suo sguardo stava ancora indugiando su di me.
«Ad essere onesto non approccio una donna da un po’, e nemmeno stavo cercando di farlo».
Lei, inaspettatamente, si mise a ridere. Era una risata scomposta, che le partiva dalla pancia e infatti portò entrambe le mani a quell’altezza e si sporse leggermente in avanti mentre rideva.
«Cosa ci fa uno come te, in un posto così?» mi domandò, e nel farlo additò i pantaloni che indossavo, che erano dei semplici pantaloni taglio standard ma di una stoffa pregiata, e a quanto pare si vedeva.
«Si allontana dagli altri come me» feci spallucce e per la prima volta incontrai i suoi occhi.
Non era coreana, nemmeno lei. Aveva gli occhi grandi e dal taglio, per lo più, tondeggiante.
La pupilla era circondata da un’iride d’un azzurro spaventosamente chiaro, con qualche pagliuzza di verde con quelle luci che gli s’infrangevano all’interno.
La vidi arricciare il naso in una smorfia, avrei pagato oro per sapere a cosa stesse pensando.
«Siete strani, voi ricchi» borbottò poi, lasciandomi di stucco «Avete tutto e vi lamentate del niente».
Per la prima volta mi resi conto di come dovevo trasparire davvero, agli occhi di chi non mi vedeva come Jin l’idol, ma come un ragazzo benestante che se ne andava in giro di notte, entrando per caso in un locale che non aveva pretesa alcuna e frequentato da persone che, allo stesso modo, s’interessavano poco di come apparire.
«Ti sei mai domandata perché lo facciamo?» le chiesi, e lei cambiò l’accavallamento delle gambe, con un’eleganza che faceva a pugni con l’ambiente.
La vidi scuotere la testa. «Nemmeno mi interessa. Io non sono mai stata ricca» affermò, fece un cenno a Max che, probabilmente, significava portami un altro drink e poi riprese a parlare, incrociando le braccia sotto al seno «Non lo sarò mai. Mi accontento di quello che ho, me lo faccio andare bene, sono serena».
Quando le arrivò l’ennesimo shot, io mi decisi a rispondere, dopo aver trascorso altro tempo ad osservarla e processare quello che mi aveva detto. «Hai già qualcosa che io non ho» mormorai, mentre prendevo inconsciamente a torturare le labbra con i denti. «Sei libera».
«Cos’è? Sei scappato dalla torre d’avorio protetta dal drago?» ridacchiò, domandandomi a mo’ di sfottò.
«Più o meno sì».
Lei tornò a guardarmi, la vidi assottigliare gli occhi e qualche rughetta le si formò agli angoli, seppur sembrasse una ragazza giovane, probabilmente più piccola di me.
«Anche tu sei libero. Puoi essere quello che vuoi, ma probabilmente ti conviene di più essere quello che vogliono gli altri».
Stirai le labbra in un sorriso, l’ennesimo.
Poteva essere masochista, ma mi piaceva essere trattato come l’ultimo degli stronzi. Ne avevo fin piene le palle di donne che m’accontentavano per infilarsi nel mio letto prima, e accaparrarsi un bell’assegno con tanti zeri poi.
«È più complicato di così, ma forse in fondo hai ragione» ammisi, mi voltai a cercare Max e gli chiesi anche io un altro shot, anche se quell’alcolico mi faceva ribrezzo. «O forse ho dimenticato chi sono davvero, perché troppo preso ad essere quello che vogliono gli altri».
Il suo interesse in quella conversazione crebbe all’improvviso, me ne resi conto dalla luce diversa che s’infiltrò dentro i suoi occhi, e anche dalla posizione che aveva assunto. Spalle dritte e la testa tra le mani.
Ero sempre stato molto bravo a leggere le persone, Namjoon me lo ripeteva spesso.
«Se non ci fossi, hyung, saremmo persi. Sai anche quello che non ti diciamo».
«Cerca di ricordare. Cerca di ricordarti».
Sorrisi ancora, perché la testa viaggiò in automatico ad un Seokjin ventenne che ancora non sapeva che la sua vita sarebbe stata sconvolta da un contratto. Sognavo di fare l’attore, ma mi sarei accontentato pure di lavorare nell’azienda di papà, mettere da parte i soldi ed aprire un ristorante con mio fratello Seokjoong.
«Ci provo tutti i giorni, ma è difficile. Forse stasera sono capitato in questo posto proprio per avere una spinta in più» dissi, in quello che doveva essere un pensiero ma che però m’era uscito fuori dalle labbra spontaneamente. Senza pensieri, senza pretese – proprio come era quel posto.
Com’era lei.
«Ricco e pure convinto di stronzate come il destino» asserì la ragazza, con un sorriso sarcastico disegnato sulla faccia. «Non pensare che sia il cosmo a decidere per te. Sei tu che te lo crei il destino, da solo. Con le tue mani».
Era molto cinica, o forse aveva solo sofferto tanto. Non avrei saputo dirlo, ero solo consapevole del fatto che mi piacesse, m’incuriosisse, che per quanto sapessi ch’era impossibile avrei voluto rivederla, farmi sbattere in faccia da lei una realtà che io avevo perso di vista da troppo tempo.
La sua realtà, la realtà di chi non era Jin dei BTS, di chi non aveva idea di chi fosse Jin dei BTS.
Che poi a pensarci era strano, che ci fosse qualcuno in Corea che non avesse idea di chi fossi.
La faccia mia e quella dei ragazzi era ovunque, ogni persona che avesse camminato per Seoul almeno una volta, o semplicemente bevuto una lattina di Pepsi, avrebbe saputo riconoscere i nostri visi.
Mi venne il dubbio che forse mi avesse riconosciuto, che la sua fosse solo la farsa ben architettata di chi – poi – in fondo era la peggiore delle sasaeng. E quel pensiero stesso mi fece rabbrividire, mi fece rabbrividire l’idea che non mi fidavo più di niente, nemmeno di cose che vedevo con i miei occhi.
«Tu non lo sai chi sono» mormorai, in quello che – inconsciamente – era un interrogativo.
Avrei usato la mia capacità di leggere le persone per capire se mi stesse mentendo.
«Dovrei?» domandò lei, stupefatta per un secondo. «Nemmeno tu sai chi sono io».
Mi rilassai: non stava dicendo una bugia.
Ci perdemmo in una delle conversazioni più strane delle mia vita, tanto che alla fine fu Max a doverci cacciare a calci in culo, perché doveva chiudere e noi non la finivamo più di parlare.
Mi resi conto solo sulla via verso casa che non le avevo chiesto come si chiamasse, che non avessi idea della sua età e di altre informazioni basiche che, di solito, si chiedono durante una prima conversazione.
Sorrisi al pensiero che avrei dovuto custodire quel momento nella mia testa, perché probabilmente non sarebbe ricapitato più, perché sicuramente dal giorno successivo avrei ripreso ad avere a che fare solo con persone che conoscevano Jin l’idol, ma non avevano idea di chi fosse Seokjin.

Cominciai a comprare un girasole al giorno, sotto gli sguardi attoniti dei miei compagni che non avevano idea di cosa mi fosse preso, di quando e come fosse partita quella mia vocazione per i fiori, per quel fiore in particolare.
Non avrei mai potuto raccontarglielo, non avrei mai potuto spiegargli che haebalagi era l’unico nome che potessi attribuire a quella ragazza che, per una notte, mi aveva fatto sentire vivo e reale.
E nemmeno volevo. Sarei stato geloso di quel ricordo per sempre.
In un’anonima sera di pieno inverno avevo aperto, senza saperlo, la porta del Magic Shop, e l’unica cosa che potevo sperare era che anche i miei sei fratelli, prima o dopo, avrebbero avuto la loro opportunità di farlo.

Angolino autore

Questa è per la mia speciale compagna di viaggio @amnisya, perché da una delle nostre chiacchierate è partita l’ispirazione per questa cosa, che come al solito ha protagonista Seokjin, è vista attraverso gli occhi di Seokjin, e spero non risulti troppo insulsa.
L’ho scritta e la sto pubblicando di getto. Siate clementi. Borahae.
Per chi non lo sapesse, haebalagi significa girasole, spero solo di averlo romanizzato nel modo corretto. 

 
   
 
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