L’Inferno era tutto un brulicare di anime
urlanti, lamenti incessanti e pianti eterni, arrivati troppo tardi a chiedere
perdono.
I diavoli, servitori del signore di quelle
terre inospitali, radunavano a mucchietti i feroci assassini, gli stupratori seriali
e i traditori dell’umanità stessa, coloro che in vita avevano perso la loro
anima in cambio di un’immortalità a metà, bagnata dal sangue.
I demoni, ritrasformati in esseri umani,
venivano puniti con violenza, afferrati con uncini infuocati e messi a cuocere
nel sakè bollente.
C’era chi invece si era macchiato di crimini
peculiari, quali l’omicidio-suicidio: costoro erano infilati a forza sotto
un’immensa lastra di ghiaccio: le persone più disonorevoli, nell’Inferno del
Jigoku venivano prontamente silenziate.
Un giovane dallo yukata scuro camminava incerto
sul terreno bruno, che solo a smuoverlo faceva risalire in superficie spruzzi
di lava e vapore acqueo.
Accanto a lui, c’era una bella ragazza, Koyuki
Soyama, la quale lo teneva a braccetto con aria rassicurante.
Hakuji, questo il nome del ragazzo, era un
peccatore, un divoratore di uomini, un vendicatore che aveva ucciso a sangue
freddo sessantasette uomini con le sue nude mani.
Quei malvagi gli avevano portato via maestro e
futura moglie, e lui aveva lavato via quel crimine con il sangue che aveva
appestato l’aria per settimane, mesi interi.
L’odio che aveva provato il diciottenne aveva
attratto a sé il capo dei demoni, e lui era entrato a far parte di quella
famiglia malata, di cui avrebbe fatto parte per un secolo e mezzo abbondante,
diviso tra la volontà di diventare sempre più forte, la voglia di spezzare il
collo al suo superiore Doma per poi lasciarlo bruciare al sole, e la lealtà con
la quale obbediva a Muzan, la Luna Piena, il Demone progenitore.
Quanto alla bella Koyuki, lei era innocente. Era morta a sedici anni e non
aveva mai fatto del male a nessuno.
Lo aveva seguito negli Inferi per amore.
Poteva l’amore arrivare a simili picchi di follia? Hakuji non lo sapeva.
Frattanto, i diavoli seguitavano a punzecchiare
peccatori sulla schiena nuda, a tatuare parole quali “assassino” e “violento”
su braccia, clavicole e fronti, ad afferrare per i capelli le Medee che avevano
dato la vita per poi toglierla.
Hakuji veniva ciclicamente condannato a
soffrire un buco nelle viscere, che col tempo si richiudeva.
Una condanna singolare, che assumeva però i
contorni della tortura infinita più nella mente che nel corpo dell’eterno
giovane.
Sadicamente, i diavoli gli avevano marchiato
una fiamma sull’addome.
Un tatuaggio bello da vedere, insopportabile da
patire.
Dal nucleo grigio partiva una fiammella gialla,
poi una rossa, poi una arancione.
Hakuji veniva spogliato del suo yukata e fatto
specchiare, affinché quel tatuaggio continuasse a tormentarlo al di là delle
retine, fino al cuore ed al cervello.
Koyuki restava con lui quando veniva sottoposto
a quella tortura, ma non poteva fare alcunché per aiutarlo, o l’avrebbero
mandata nella Terra dei Defunti, dove si allietavano i giusti, e questa volta per sempre.
“Assassino.”
“Ladro.”
“Demone.”
Koyuki ascoltava quelle parole dure come
frustate; conosceva i trascorsi di Hakuji come umano e sapeva che per oltre un
secolo aveva terrorizzato le genti e divorato una quantità incredibile di
uomini nei panni di demone.
Ma non sapeva nulla del marchio a forma di fiamma, e Hakuji si rifiutava di
risponderle.
Un giorno, dopo l’ennesima tortura, con le
lacrime agli occhi lo aveva implorato:
“Cosa significa, Hakuji, dimmi cosa significa!”
Allora un diavolo con il muso di maiale, con
sadico piacere e gli occhi che brillavano le aveva risposto:
“Onorevole da parte tua essere qui con il tuo
sposo, la cui mente arde obnubilata dal desiderio per la fiamma impressa prima
nel pensiero che nelle carni.”
I begli occhi di Koyuki scrutarono con fare
interrogativo prima il diavolo e poi il marito, che seguitava a sanguinare e a
guardare per terra.
Quando i diavoli si furono allontanati, Koyuki
accarezzò la fronte sudata di Hakuji. Non sapeva più cosa fare per sondare l’animo
enigmatico del suo compagno, qualcosa di duro e impenetrabile come un diamante
nero.
Incredibilmente, fu lui a parlare, finalmente,
dopo un lungo sospiro.
“Il marchio che mi hanno inflitto appartiene
alla famiglia di un uomo che ho ucciso.”
Koyuki sussultò; finalmente poteva avere le
risposte tanto agognate.
Hakuji si guardò le mani, focalizzandosi su
quei solchi che avevano stretto colli e spezzato ossa.
Già si era pentito di averle detto quelle cose,
e infatti non trovava il coraggio di continuare a raccontare.
“Perché ti hanno impresso proprio quel marchio?”
In fondo, Hakuji aveva ucciso uomini
provenienti da moltissime famiglie, sia da umano che da demone.
Le palpebre del ragazzo si abbassarono,
malinconiche.
“Perché quell’uomo...”
Cosa poteva dirle? Che avrebbe voluto
rivederlo, ma che era impossibile perché le anime pie non si mescolavano con la
feccia? Che aveva cercato di corromperne la fiammante purezza? Che avrebbe
voluto averlo accanto per tutta l’eternità e forse anche oltre?
Dov’era lei quando bruciava di piacere
demoniaco? Era nei suoi attacchi, nei nomi e nelle forme delle sue tecniche.
Lui aveva usato l’amore gentile e intenso di sua moglie per sedurre un uomo
giusto, per sporcarlo. Ancora una volta Hakuji pianse, intossicato dalla
spirale di violenza nella quale era precipitato e dalla quale faticava a
uscire.
Lui era con i suoi cari nella Terra dei Defunti,
con il suo sorriso, i suoi occhi di Sole, i capelli indomabili e lo spirito
incandescente. Lui non avrebbe mai ascoltato le sue parole di perdono, non l’avrebbe
mai consolato. Lui non l’avrebbe mai
più rivisto.
Credeva che la passione velenosa che gli aveva
pervaso ogni fibra sarebbe sparita una volta morto, una volta tra le braccia
dolci di Koyuki.
Invece era stato tutto inutile e forse sarebbe
stato meglio che lui l’avesse rimandata tra le persone giuste, anziché farle
respirare l’olezzo dello zolfo e farle ascoltare i continui pianti di gente che
in vita aveva levato la spada contro i propri fratelli.
Erano trascorsi cinquant’anni dalla sua morte, e
tutti coloro che in vita erano stati i suoi compagni di uccisione ora giacevano
smembrati in blocchi di ghiaccio, o erano costretti a far girare a vuoto una
macina da mulino frustati da diavoli femmina, come era accaduto a Doma.
Non sentiva la mancanza per nessuno di loro.
Provava solo una nostalgia talmente potente da
renderlo completamente insensibile a qualunque stimolo.
Ancora una volta, pensava a lui.
Come il giorno prima, come il mese prima, come
vent’anni prima.
Ogni singolo giorno ripensava al Sole che aveva
lasciato e mai più ritrovato, e che gli aveva lasciato una pesante scottatura
sulla pelle.