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Autore: Bethesda    22/02/2022    1 recensioni
[Universo Arcane]
Si affezionò più del dovuto e lo sapeva bene.
Da un lato la voleva lontana perché minava la sua autorità essere sempre seguito da una ragazzetta ipercinetica che non si faceva problemi a parlare neanche nelle situazioni meno opportune, ma dall’altra voleva sempre averla sott’occhio. Non aveva ancora capito se per la di lei sicurezza o quella del resto del mondo.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Jinx
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Silco non aveva ancora capito il perché di quella scelta. Vendetta e contrappasso erano due parole che fin dal principio avevano marchiato i suoi pensieri, ma già dopo poco tempo non era più così sicuro della loro autenticità.

Aveva pensato fin da subito a come sfruttare quel piccolo incidente di percorso che era stata la figliastra di Vander: usarla come forma di ricatto in un futuro prossimo, metterla in mostra come premio per dimostrare che sì, era riuscito a ottenere anche la cosa più preziosa che possedeva il suo rivale.

Avrebbe dovuto capire tempo addietro che ogni piano, anche il più perfetto, nascondeva pecche e insidie.

E Powder – Jinx – era ben lungi dall’essere vicina alla perfezione.

 

Lo aveva capito fin dal primo istante che c’era qualcosa di rotto dentro di lei, qualcosa su cui fare leva, che avrebbe potuto permettergli di plagiarla a suo piacimento ma solo se l’avesse maneggiata con cura, forse sostituendo qualche ingranaggio – aveva pensato all’inizio.

Si era ben presto reso conto che ciò che si era procurato fra le mani era un ordigno instabile e che anche lui, per quanto potesse influenzarla, non avrebbe mai davvero avuto presa su di lei.

Non senza il rischio di farsi male, perlomeno.

 


 

 

All’inizio non sapeva neanche come riferirsi alla bambina.

Powder era un qualcosa di vecchio nonostante l’età di chi portava quel nome, un legame ancora troppo forte che voleva lei recidesse da sé.

Se doveva attirare la sua attenzione si limitava a cercarla con lo sguardo – tanto più che era sempre fra i piedi – o a chiedere a qualcuno dei suoi sgherri di recuperarla.

Era semplice farlo, dopotutto: bastava che seguissero i vari disegni che lasciava in giro ovunque.

Nel suo ufficio, in quella specie di bugigattolo che le aveva fatto procurare come stanza, sulle pareti della fabbrica quando era necessario portarla anche lì.

 

Furono proprio i suoi sgherri a cominciare a chiamarla Jinx.

Pensava fosse frutto del loro sacco ma non era così: presto scoprì che era lei stessa a farsi chiamare come tale. Quando parlava con loro, quando borbottava da sola fra sé e sé, quando aveva le sue crisi.

Quelle in particolare andarono ad aumentare sempre e sempre di più, sino a che non la portarono sull’orlo del collasso.

 


 

«Sta facendo il diavolo a quattro», disse Sevika, le braccia incrociate, appoggiata allo stipite della porta. Osservava il suo capo intento a scartabellare alcuni documenti e per un attimo pensò di non essere stata sentita, ma dovette ricredersi quando gli occhi di lui la inchiodarono. Ciò che più la disturbava era il fatto che l’occhio sinistro, per quanto fosse ripugnante, non la faceva sentire tanto giudicata quanto quello sano.

 

«Un gruppo di tagliagole non riesce a tenere sotto controllo una bambina?»

 

«Non le serve un mercenario», sbottò subito lei, punta sul vivo. «Ha qualcosa di malato in quella testa. Non lascia avvicinare nessuno, giù di sotto. Morde, scalcia, ha tirato fuori uno di quei suoi aggeggi scassati e ha minacciato di far saltare in aria tutti».

 

«E non siete in grado di bloccarla».

 

Era una accusa. Non una domanda, non una constatazione.

 

Sevika digrignò i denti.

 

«Se ci permettessi di essere un po’ meno delicati con lei--»

 

Si bloccò prima di terminare la frase.

Le era bastato un lieve spasmo del volto di lui per non era argomento su cui scherzare. Per qualche ragione quella bambina sembrava essere una merce ancora più preziosa dello Shimmer.

Si aspettava che le dicesse nuovamente qualcosa ma ciò non accadde.

Silco si alzò senza far rumore dalla sua poltrona e con aria irritata la superò, dirigendosi verso il luogo del delitto.

 

Il salone principale del locale era privo di clienti ma sembrava che ci fosse appena stata una retata: sedie e tavoli ribaltati, la musica del jukebox a singhiozzo, come se qualcuno avesse fatto saltare la puntina – e capì che così doveva essere, visto lo sgabello che giaceva a poca distanza dallo stesso e dall’ammaccatura presente sulla macchina -, cocci di vetro ovunque.

Al centro della stanza la causa di quel disastro.

 

Intorno a lei, a debita distanza, come petali di un fiore malsano, i suoi uomini.

Li guardò con sdegno e loro si fecero quanto più piccoli possibile.

 

Non volava più una mosca.

Solo le poche note stridule del vinile graffiavano l’aria e si sovrapponevano al respiro pesante della bambina.

 

Superò tutti, entrò nel cerchio. Lì, ai suoi piedi, lei era accartocciata come un foglio spiegazzato. Tutto intorno vi erano ingranaggi di quegli sciocchi oggetti che provava a creare – e con i quali lo aveva quasi ammazzato.

La guardò dall’alto verso il basso, indeciso su come agire.

 

«Cos’è successo?»

 

Uno dei suoi uomini si fece avanti, sbraitando. Sevika si teneva a distanza, osservando la scena dalla ringhiera del piano superiore.

 

«È completamente pazza. Ha iniziato a gridare e--»

 

«Pensi che stia chiedendo a te?»

 

L’uomo si bloccò, facendo un passo indietro. L’occhio del suo capo lo fissava impietosamente e bastò questo per farlo arretrare e tornare al suo posto. Silco invece tornò a rivolgersi alla bambina come se fossero solo loro due.

 

Non vedendo alcuna reazione si inginocchiò, una mano sulla schiena di lei che scattò come ustionata. Si gettò all’indietro, cadendo, le mani a sorreggersi ma pronta ad attaccare ancora e ancora.

 

La vedeva, Silco.

 

La determinazione.

 

La paura.

 

«Va tutto bene».

 

Lei gli si gettò addosso come aveva fatto pochi mesi addietro, senza dire niente questa volta, limitandosi a piangere in silenzio. Sentiva le sue mani afferrarlo, stringerlo come in una supplica.

Senza dire altro la portò via, al piano di sopra.

Non si girò neanche quando ordinò di sistemare tutto per l’apertura serale, come se niente fosse successo.

 

 


 

Soli, nel suo ufficio.

Era tornato a leggere i documenti di poco prima ma non se ne stava davvero occupando. Le ginocchia accavallate, il plico appoggiato su di esse, fingeva di scartabellarlo ma seguiva in realtà con attenzione ogni minimo cambiamento di lei.

La ragazzina dondolava seduta sulla sua scrivania, le ginocchia al petto, lo sguardo nascosto. Non aveva ancora detto cosa l’aveva fatta scattare ma la realtà era che ogni singola cosa sembrava fosse in grado di innescarla.

La cosa importante – pensava Silco – era sapere quale filo andare a tagliare.

Si era reso conto che la sola sua presenza la confortava e che non era necessario parlare, cosa che non gli dispiaceva affatto.

Cosa poteva condividere con una bambina?

Non poteva certo parlarle dei suoi affari, di ciò che gli girava per la testa.

E lei sicuramente non aveva alcunché da offrire che potesse intrattenerlo.

Ma non gli dispiaceva averla lì.

 

Sevika non approvava, lo sapeva bene, ma non gli era mai interessato della opinione altrui e non avrebbe certo messo via un qualcosa di così interessante per una subalterna, per quanto devota.

 

Devozione, ecco.

 

Era quello che leggeva anche negli occhi della bambina quando se li ritrovava addosso.

Un poco lo infastidivano, lo facevano sentire nudo.

Ma era chiaro che per lei lui fosse diventato un riferimento e per quanto la cosa fosse stata repentina era difficile non farsela piacere. Anche in quei silenzi riusciva a capire quanto per lei fosse importante averlo lì, non sentirsi abbandonata.

 

Questa cosa lo faceva sentire terribilmente potente e al tempo stesso debole, un ossimoro che non riusciva a conciliare.

 

«Ti senti pronta a dirmi cosa è successo giù di sotto?»

 

La vide sobbalzare un poco per poi stringersi ulteriormente in sé stessa, un gatto spaventato e pronto a graffiare.

Silco gettò indietro la testa, ruotandola un poco verso di lei, decidendo che non aveva senso continuare quella pantomima.

Abbandonò in un angolo libero della scrivania i documenti e ruotò con la poltrona sino a ritrovarsi direttamente di fronte a lei.

 

«Little girl», sussurrò, allungando una mano verso la treccia di lei. L’accarezzò, sentendola tendersi, ma lei non si mosse. Silco notò quanto i capelli le si stessero facendo lunghi e che la treccia fosse quanto mai disordinata. «Powder», mormorò quasi sovrappensiero.

 

«No!»

 

Lei si tirò dritta a sedere spingendolo indietro con le mani e nonostante non avesse la forza per farlo davvero Silco si lasciò comunque cadere indietro sullo schienale, lo sguardo fisso su di lei.

Si era finalmente degnata di sollevare il volto e vide il volto paffutello striato di lacrime, gli occhi arrossati così come le guance. Una smorfia di disgusto le tagliava le labbra in un modo che non avrebbe dovuto associarsi alla sua età.

Ma dopotutto lei era il sangue di Zaun, come tutti loro.

E non esisteva pietà in quel luogo, neanche per i bambini.

Men che meno per loro.

 

«Non Powder», sputò. «Basta Powder. Basta little girl. Basta Jinx».

 

Si riprese la testa fra le mani, a tapparsi le orecchie con furia, per scacciare quelle voci che sapeva benissimo la tormentavano da un po’ di tempo a quella parte. Ogni tanto la scopriva a chiacchierarci come se avesse avuto effettivamente qualcuno di fronte a sé.

Ma la maggior parte delle volte la tormentavano.

La deridevano e offendevano.

Non le aveva ancora chiesto di chi fossero queste voci ma poteva immaginarlo.

 

Per quanto la sua opera fosse stata non intenzionale, la ragazzina aveva comunque ammazzato padre adottivo e fratelli.

Non tutti sarebbero stati in grado di portare quel peso e lei, nonostante tutto, lo stava facendo.

Con qualche piccolo effetto collaterale.

Silco si sporse in avanti, andandole così vicino che poteva sentirla tremare.

 

«Jinx», disse nuovamente, riempiendosi la bocca. «È così che hanno preso a chiamarti gli altri, vero?»

 

Lei non rispose.

 

«È per questo che ti sei arrabbiata? Che hai fatto tutto quello scempio?»

 

La vide cercare tracce di accusa sul suo volto, spaventata.

 

«Mi dispiace», pigolò.

 

Silco sentì il suo volto tendersi in un lieve sorriso benevolo, cosa che si era riscoperto di essere in grado di fare. Ma solo per lei. Gli bastò toccarsi le ginocchia velocemente per farle capire cosa doveva fare e in un attimo le era in grembo, accovacciata. Sapeva rendersi così piccola quando lo faceva che quasi gli pareva impossibile. La cinse a sé, il naso affondato nei capelli arruffati.

 

Non le chiese di nuovo di parlare: lo avrebbe fatto lei stessa e non attese molto per confermare che aveva ragione.

 

«Yona ha perso a carte e ha iniziato a dire che è stata colpa mia».

 

«Giocavi con lui?»

 

«No. Stavo solo guardando».

 

«E perché lo ha detto?»

 

«Dice che porto sfortuna. Lo dicono tutti. Non mi vogliono».

 

La strinse più forte a sé e lei fece lo stesso, quasi a cercare di diventare parte integrante di lui, il suo unico punto fermo.

 

«Lo dicono anche loro», continuò in un singulto. «Che porto sfiga. Che Yona in questo posto non ci sarebbe mai entrato se non fosse stato per me, se non li avessi abbandonati. È tutta colpa mia se Yona si è preso casa mia».

 

Straparlava, come le accadeva spesso, rispondendo a quelle voci che la tormentavano.

Silco la prese per le spalle, allontanandola, cercandole il volto con una mano.

 

«Questa è casa tua. È casa nostra. Nessuno può portartela via. Ma dobbiamo difenderla. E gente come Yona può starci dentro perché gli viene concesso dal sottoscritto. Basta una parola e non sarà più un problema», le disse guardandola dritto negli occhi.

Non si era mai fatta problemi lei a soffermarsi sul suo sfregio, su quell’orrore che pulsava e che gli lacerava la testa con fitte che a volte potevano piegarlo se non se ne prendeva cura. Lo guardava come se fosse stato normale.

 

«Oppure», riprese, sapendo di avere la sua attenzione, «Puoi occupartene tu».

 

Un’espressione confusa comparve sul volto di lei.

 

«Dicono che porti sfortuna? Che semini disastri ovunque tu vada? Bene. Fallo diventare il tuo marchio. Fai sì che chiunque ti si metta davanti debba fare per forza un passo indietro per non incorrere nella sorte che sei capace di imporre loro. Fai sì che ti temano».

 

Lei lo scrutò approfonditamente e per un attimo temette che non stesse capendo, ma non era così.

Era una ragazzina sveglia e fra loro vi era un’intesa non condivisibile con nessun altro.

 

«E se porto sfortuna a te?»

 

Lo chiese con aria preoccupata e Silco non poté trattenersi di stringerla di nuovo a sé, quasi commosso dal fatto che potesse credere un qualcosa di simile.

 

«Non puoi farmi alcun male, te lo prometto».

 

 


 

 

Si affezionò più del dovuto e lo sapeva bene.

Da un lato la voleva lontana perché minava la sua autorità essere sempre seguito da una ragazzetta ipercinetica che non si faceva problemi a parlare neanche nelle situazioni meno opportune, ma dall’altra voleva sempre averla sott’occhio. Non aveva ancora capito se per la di lei sicurezza o quella del resto del mondo.

 

Aveva momenti buoni e momenti decisamente meno buoni e più volte Silco si domandò se era in grado di controllarla, ma non voleva ammetterlo.

Non poteva certo incatenarla, si sorprese a pensare una volta, di fronte all’ennesimo sfogo di Sevika sul fatto che Jinx avesse fatto esplodere nuovamente lo sgabuzzino in cui la faceva dormire.

Certo, se fosse stato chiunque altro non si sarebbe posto neanche il problema, ma mai avrebbe pensato di fare alla ragazzina quello che avrebbe invece fatto a chiunque si fosse messo fra lui e i suoi obbiettivi.

Capì però che doveva mostrarsi meno propenso verso di lei, più distaccato.

 

Jinx se ne accorse fin da subito e divenne intrattabile ma lui fu inamovibile, non le diede spiegazioni. La trattava bene, ma con freddezza.

Doveva essere solo un’altra delle sue pedine, nulla di più.

 

Fu un mese infernale per tutti.

 

La ragazzina non capiva quell’improvvisa freddezza e tentava in ogni modo di ottenere risposte senza successo, cosa che la faceva cadere sempre più facilmente in crisi debilitanti durante le quali litigava, gridava, scagliava oggetti verso interlocutori immaginari – colpendo però anche gli astanti ignari.

 

Sevika doveva placare gli animi, sapendo quali erano le intenzioni di Silco: era stata lei, dopotutto, a suggerire quel distacco. Eppure la cosa le si stava ritorcendo contro e sapeva bene che l’unica soluzione sarebbe stata ben meno delicata di quella decisa dal suo capo, ma non osava proporla, sapendo bene quale sarebbe stata la risposta.

 

E Silco taceva.

 

Era sempre stato di poche parole ma quel doversi liberare del proprio giocattolo per questioni di buona creanza lo mandava ai matti e non poteva permettersi di mostrarlo troppo.

I tentativi di interazione di Jinx lo intenerivano: disegni lasciati sulla scrivania con frasi di scuse, bicchieri di latte e cacao portati come offerta di pace, occhi profondi e pieni di tristezza che lo fissavano dalla porta.

 

«Ora non ho tempo», tagliava corto lui, senza il coraggio di alzare gli occhi dalla scrivania mentre la scacciava con freddezza.

Non osava alzare lo sguardo su di lei perché sapeva che se l’avesse vista avrebbe ceduto e solo quando la sentiva allontanarsi si concedeva di abbandonarsi sulla poltrona, le orecchie tese per sentire i suoi singhiozzi mentre scappava chissà dove per sfogarsi.

 

«Son troppo vecchio per queste stronzate», si ritrovava a mormorare a sé stesso.

 

 


 

 

Silco non seppe mai davvero se si fosse trattato di un caso o se davvero fosse stata colpa sua, ma dopo un mese di trattamento del silenzio Jinx cadde preda di una febbre debilitante.

O perlomeno fu così che gli venne comunicato da Sevika.

 

«Non si alza da letto?»

 

«Pare non ne sia in grado. Delira e trema».

 

Tentò di mantenere un’espressione impassibile ma dentro di sé Silco sentì una morsa impossessarsi del suo stomaco.

 

«Fai chiamare un dottore».

 

«Non permette a nessuno di avvicinarsi».

 

«E pensi che sia un mio problema?»

 

Lesse un “Sì” crudele negli occhi della donna e dovette ammettere a se stesso che effettivamente quella ragazzina era responsabilità sua e unicamente sua, ma mai lo avrebbe detto ad alta voce.

 

«Trova qualcuno che sia in grado di tenere ferma una ragazzetta di dodici anni. Non mi sembra sia un compito così difficile. E falla sorvegliare. Notte e giorno».

 

Sevika sollevò un sopracciglio.

 

«Abbiamo tre carichi di Shimmer questa notte. I nostri uomini migliori sono impegnati e non abbiamo tempo da perdere dietro a una mocciosa allettata».

 

Silco si ritrovò a conficcare il tagliacarte con cui stava giocando da qualche minuto nel legno intonso della scrivania. Non lo aveva fatto intenzionalmente: il suo istinto sarebbe stato quello di scagliarlo contro la sottoposta, ma si era trattenuto.

 

Lei resse il suo sguardo ma per poco, limitandosi ad uscire dalla stanza con un rancoroso “Sì, signore”.

 

 


 

 

Per due giorni Silco non vide Jinx, nonostante la ragazzina fosse a pochi edifici di distanza dal locale.

Si gettò anima e corpo nel lavoro, ignorando il fatto che spesso si ritrovasse a fissare l’ingresso dell’ufficio, speranzoso di trovarla lì a spiarlo, o magari direttamente alla scrivania, pronta ad allungargli l’ennesimo scarabocchio colorato.

Si impose di non andare a trovarla ma pretese che gli venisse fatto un resoconto sul suo stato di salute ogni sei ore, giorno e notte.

Tanto ormai dormire era diventata un’utopia.

 

La sera del secondo giorno, con il locale pieno e i bassi delle casse che riempivano il locale, Silco attendeva. Le gambe tele sulla scrivania e lo schienale della poltrona reclinato, teneva chiuso l’occhio sano dopo aver trattato l’altro.

Gli doleva terribilmente.

Era difficile curarsi da solo ma non voleva che qualcuno potesse dedicarsi ad un compito così delicato.

Sentiva ancora l’ago trapassare la cornea, sino alla retina scarlatta, dove in quell’istante avvertiva come un fuoco sprigionarsi per i capillari infiammati.

Sarebbe passato, si disse.

Ancora qualche minuto e presto sarebbe diventato come la musica del piano di sotto: un rumore di fondo.

 

Quando la porta si aprì di scatto lui rimase immobile, aspettandosi guai.

 

«Signore», esclamò un sottoposto visibilmente in preda al panico.

 

Una rissa, pensò.

No, per una rissa non si sarebbero spinti a disturbarlo.

E se fosse stato per lo Shimmer sarebbe venuta direttamente Sevika.

Dunque, pensò, cosa poteva aver spinto quell’inetto a disturbarlo?

 

Un pensiero gli trapassò il cranio e prima ancora che potesse esprimerlo a sé stesso lo sgherro parlò.

 

«Jinx è scappata».

 

 


 

 

Nessuno poteva scappare da lui, si era risolto a pensare più e più volte.

Alla fine tutti tornavano strisciando o venivano stanati come topi di fogna, ma con Jinx era diverso.

Quella bambina era in grado di nascondersi e se non voleva farsi trovare non lo avrebbe fatto, non certo da quegli incapaci dei suoi uomini.

Ordinò comunque a più squadre di perlustrare ogni singolo angolo della città, ogni via, ogni tombino.

Sevika non era presente quella notte ma si ripromise di spedire anche lei a caccia non appena fosse tornata con gli altri dalla missione.

 

E per quanto riguardava le punizioni, ci avrebbe pensato dopo, una volta trovata.

Se l’avrebbe trovata.

 

Il pensiero lo trafiggeva.

Quel mese era stato solo un’inutile prova del fatto che ormai quella ragazzetta fosse parte integrante della sua vita, per quanto a distanza tentasse di porla.

Non c’era scusa che tenesse e neanche il suo ruolo lo proteggeva da quello che sentiva.

 

Doveva trovarla e riportarla a casa.

La loro casa.

 

A detta di chi l’aveva tenuta sotto controllo a malapena era riuscita a mangiare in quei giorni. Nei suoi sogni delirava, chiamava la sorella, chiamava Vander. Chiamava Silco.

E lui, l’unico che avrebbe davvero potuto esserci, si era invece imposto una stupida regola e l’aveva abbandonata a se stessa.

 

Si appuntò mentalmente di uccidere Sevika, che per settimane lo aveva tartassato, ma sapeva che per quanto lei potesse aver gettato il seme la colpa era solo e unicamente sua e come tale si prese l’obbligo di uscire a cercarla. Da solo.

 

 


 

 

Svanita.

Una nube di fumo, impalpabile.

Jinx non era in nessuno dei luoghi dove era certo che l’avrebbe trovata.

Non era all’ex sala giochi, non nella casa che aveva condiviso con la sorella, non alla fabbrica. Neanche dal sozzo rigagnolo dove si divertiva a inseguire le rane, quelle che più volte gli aveva portato in ufficio con orgoglio, per mostrargli quanto fossero “carine”.

 

Tornò nel suo ufficio dopo ore, l’occhio che pulsava per lo stress esattamente come la sua testa.

Che fosse salita in superficie, si chiese.

Ma perché mai avrebbe dovuto farlo?

Cosa c’era lassù per lei?

 

Si ritrovò a calpestare il pavimento liso avanti e indietro più e più volte, il cuore in gola, domandandosi cosa potesse aver dimenticato. Nel bugigattolo che era la sua stanza non erano più rimasti né i colori né quel pupazzo che si portava sempre appresso mentre i vestiti erano sempre lì, gettati alla rinfusa. Ma sapeva bene che quelli non erano una priorità per lei.

Anche le sue invenzioni erano svanite.

Restavano solo bulloni e viti sparse.

 

Forse era davvero scappata.

Forse si era sentita male in quei suoi tentativi di arrampicarsi per la città come fosse una scimmia ed era caduta, rompendosi la testa. Magari l’avrebbero trovata dopo giorni in qualche vicolo, sotto a cumuli di spazzatura. Quanti erano i bambini che facevano una fine simile, sparendo nell’oblio?

 

Dovette appoggiarsi alla scrivania per prendere fiato, i pugni sul bordo del mobile talmente stretti da rendere le nocche bianche.

 

«Jinx, dove cazzo sei?», mormorò fra sé e sé.

 

Quando qualcosa lo colpì in testa sobbalzò, interrotto nei propri pensieri, e si guardò subito intorno. La porta dell’ufficio era chiusa.

Cercò l’oggetto che lo aveva colpito e lo trovò oltre la scrivania, ai piedi della sua poltrona.

 

Si chinò a raccoglierlo, perplesso.

 

Un pastello.

 

Sollevò lo sguardo, preso dal panico, cercando di capire come potesse essergli caduto addosso, quando si ricordò che Vander, in quell’ufficio, aveva costruito un piccolo soppalco che fin dall’inizio lui aveva ignorato.

Con un balzo felino salì sulla scrivania, le mani a raggiungere la rientranza che permetteva di accedere a quel ripostiglio improvvisato. Non senza fatica si tirò su, imprecando, sino a che non si ritrovò con il busto all’interno del nascondiglio, le gambe penzoloni. Qualche scheggia di legno gli si era conficcata nelle dita nello sforzo di sorreggerlo ma non gli importava perché non appena si abituò alla penombra riconobbe il volto di chi da ore lo stava facendo dannare.

Jinx dormiva, circondata dalle sue cose, ignara del caos che aveva portato al resto del mondo di Silco.

 

 


 

 

Ordinò agli uomini di tornare alle loro faccende e di non disturbarlo. Non con poca fatica riuscì a tirarla giù di lì, una bambola di pezza infreddolita e ustionante.

La portò nella propria stanza, infilandola sotto le coperte dopo averle sciolto la treccia ormai rovinata e chiamò il dottore, il quale lo informò che nonostante la febbre stava bene, era solo spossata.

Riposo, cibo, medicine e calore.

 

Silco si rese conto che l’unico modo per far sì che ciò avvenisse era farlo da sé e prese come punto d’onore il rimetterla in sesto.

Dopotutto, pensò, era colpa sua.

 

La piccola – la sentiva – delirava.

Chiedeva scusa incessantemente, piangeva nel sonno, si accartocciava sotto le coperte come a tentare di nascondersi ma non sembrava rendersi conto di essere in sua presenza.

Mangiava poco e solo se imboccata, beveva solo quando lui la sollevava di peso per permetterle di ingollare un po’ d’acqua.

Dormiva un sacco, scossa da incubi, e Silco dovette spostare tutti i suoi affari nella sua camera da letto. Permetteva solo e unicamente a Sevika di entrare e per pochi istanti, per comunicarle gli ordini.

Ma per tre giorni e tre notti lui non si mosse di lì, incastrato su quella poltrona dalla quale poteva tenere un occhio vigile su di lei.

 

Si era permesso di spogliarla, di liberarla di abiti stretti e scomodi per farle indossare una camicia da notte che le permettesse di far respirare la pelle e di far trapassare la febbre che sudava.

La puliva diligentemente, facendo attenzione che non prendesse freddo, come avrebbe fatto con un animale abbandonato.

Era così fragile in quegli istanti che non gli sarebbe servita davvero alcuna forza per mettere fine a quell’inconveniente, ma era evidente che ormai non potesse considerarla tale.

Forse non lo era mai davvero stato.

 

Lei aveva bisogno di lui e lui di lei.

Quel mese forzato ne era stata la prova e saperla lì, nel suo letto, un insieme di insicurezze e paure a cui solo lui poteva mettere una pezza – seppur blanda – lo faceva star bene. E Jinx era riuscita a fare lo stesso con piccoli gesti innocenti, da bambina - da figlia – che gli avevano fatto rivalutare ogni singola azione.

 

Lui voleva cambiare il mondo.

Da sempre e per sempre, e sarebbe passato sopra chiunque per riuscirci.

Ma adesso voleva farlo per lei.

 

Non avrebbe mai permesso più a nessuno di separarli.

 

 


 

 

Quando si svegliò, la notte del quarto giorno, sembrava che un po’ di salute fosse tornata in quegli occhi lucidi di febbre. Fu lei ad attirare la sua attenzione perché Silco si era addormentato sulla poltrona, le gambe sollevate sul materasso di fronte per dar sollievo alla schiena indolenzita.

 

«Ciao».

 

La vocina intimidita lo riportò alla realtà e dovette metterci qualche istante per capire da dove provenisse.

 

Jinx lo fissava da sotto le coperte, incuriosita e con gli occhi cisposi per via del sonno.

 

«Ciao».

 

«Dove sono?»

 

«Nel mio letto».

 

«Perché?»

 

«Hai la febbre».

 

«Ah».

 

Si sentì osservare. Evidentemente non riusciva a ricollegare tutti gli eventi e non ne era troppo stupito. Forse neanche si ricordava di essere scappata. Anzi, sicuramente dal suo punto di vista non c’era stata nessuna fuga. Era semplicemente tornata in silenzio da lui.

 

«Da quanto tempo ti nascondi sopra la mia scrivania?»

 

Lei sembrò colta in fallo e cincischiò, ma sapeva bene che non aveva senso mentire. Se Silco chiedeva era perché voleva una risposta sincera da lei e mentire non aveva senso. Avrebbe comunque scoperto la verità.

 

«Da prima ancora che fosse la tua scrivania».

 

«Non me lo hai detto».

 

«Non volevo disturbarti. Sei sempre così serio quando lavori».

 

Si ritrovò a fare un mezzo sorriso.

 

«Perché non mi vuoi più?», chiese a bruciapelo.

 

Silco si congelò.

 

«Ho fatto qualcosa di male?»

 

Sospirò, incerto su come rispondere.

Jinx era intelligente ma non era certo che fosse ancora abbastanza matura, nonostante tutto, per capire il perché di certi suoi gesti.

Gesti che al momento lui stesso non era sicuro di saper giustificare.

 

«No, piccola. No. Non hai fatto niente di male».

 

Lei non sembrò convinta di quella risposta ma non chiese altro e Silco, ben consapevole di cosa potesse muoversi dentro quella testa, decise di abbandonare la poltrona.

In un singolo passo tagliò la distanza che lo separava dal suo stesso letto e con un gesto fluido sollevò le coperte, facendo entrare l’aria fredda della stanza. Jinx rabbrividì, stringendosi nelle ginocchia, ma prima ancora che potesse lamentarsi anche lui era sotto con lei.

 

«Vieni qui», le disse.

 

Jinx non se lo fece ripetere, gli occhi non più pieni di sonno.

La sentì arruffarsi sotto le coperte pesanti sino a che non sentì tutto il peso di lei addosso, sul petto, sull’addome. La testa appoggiata sulla sua spalla e una gamba ad avvolgerlo, come ad impedirgli di scappare.

Silco non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo e si ritrovò a stringerla a sé.

 

«Ho fatto un sacco di brutti sogni», la sentì mormorare sul tessuto della sua camicia.

 

«Vuoi raccontarmeli?»

 

«No».

 

«Va bene così», concluse con un sussurro lui, socchiudendo l’occhio sano, appesantito da quei giorni di stress ulteriore. Si stava così bene lì sotto, da soli, lontani da quel mondo così difficile.

 

«Silco», lo chiamò.

 

«Mh?»

 

«Non mi lasci, vero?»

 

Il dolore dell’occhio mutato sembrava quasi attenuato in quel momento, come se lo avesse appena trattato. Forse gli avrebbe concesso di riposare.

 

Biascicò una risposta placida, rilassata, i capelli blu a solleticargli in naso e la morsa dello stomaco finalmente allentata.

 

«No, bimba mia. Non ti lascio».

 

   
 
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