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Autore: WiredDreams    28/02/2022    0 recensioni
Jude è in questa stanza da ore.
La credono la nuova vigilante di New York che i media hanno chiamato "Volpe Blu". Lei continua a negare.
A volte ci sono cose più importanti da proteggere che la propria identità.
Anche se gli Avengers lo stanno chiedendo gentilmente.
Nota: la traduzione è stata fatta su una mia storia dall'inglese disponibile su AO3, se siete curiosi.
Genere: Azione, Comico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Seduta in una stanza quadrata e fredda guardo oltre le mie mani, strette da una fascetta bianca sul tavolo di plastica trasparente, e studio il mio riflesso sullo specchio bidirezionale.

I miei capelli castani rossastri sono ancora raccolti in una coda di cavallo, ora più disordinata; i miei occhi azzurri sono nascosti dalle ombre create dalle luci artificiali che battono fredde dal soffitto; le mie labbra sono screpolate dalla secchezza dell'aria condizionata e il mio continuo mordicchiare nervoso. Non riesco a vedere la piccola cicatrice bianca sulla parte sinistra del mio mento.

All’unico suono da ore, sbircio alla mia destra quasi trasalendo allo swoosh della porta nascosta che scorre, aprendosi. Studio la donna bruna che entra: snella, vestita impeccabilmente in blu marino, non indossa proprio un abito, più un’uniforme; la sua espressione è impassibile e ha in una mano una cartelletta e nell’altra un tablet.

Si siede di fronte a me, poggiando le sue cose sul tavolo in mezzo a noi e, solo allora, incontra il mio sguardo con i suoi occhi marroni.

«Jude.» Dice solo il mio nome, come se fossimo conoscenti che s'incontrano semplicemente per strada.

«Ehm…sì?»

«Jude Jefferson. Jude Summers. Jude Winchester. Quale preferisci?»

«Jefferson.»

Lei annuisce e digita sul tablet. Apre la cartelletta e tira fuori uno dei tanti fogli all'interno, posandolo davanti a me. È una foto di una maschera scadente, di plastica blu, con un lungo taglio sotto il foro per l’occhio destro e due piccole orecchie da volpe sulla parte alta della sua superficie ovale; forme e linee nere disegnano il naso e i baffi di una volpe.

I miei occhi si spalancano nel vederla.

«La riconosci?»

«Nah-ah.» La mia voce è un tantino acuta.

«Lo vedo.» Sembra che un sorrisetto spunti sulle sue labbra per un secondo, prima che il suo volto ritorni inscrutabile.

È successo davvero?” «Io…ehm… non credo di ricordare il suo nome. Lei chi è?»

«Maria Hill.»

Pensavo avesse più una faccia da Robin.” «E....perché sono qui?»

Smette di sfogliare i fogli della cartelletta e alza gli occhi su di me. «Davvero non riesci a immaginarlo? Hai mandato una ventina di persone all’ospedale: segni di piccoli shock, ustioni elettriche, sistemi nervosi in tilt… vuoi che vada avanti?»

Mi agito sulla sedia e borbotto la mia risposta. «Va bene così. Ed erano trafficanti.»

«C’erano dei poliziotti sotto copertura tra di loro.»

«Oh.» Scivolo indietro sulla mia sedia, scioccata dalla rivelazione. Non ne avevo idea e come potevo? “Ma loro non possono essere certi che sia stata io, per questo sono qui.” Faccio un attimo marcia indietro. «E lei pensa che io c'entri qualcosa?»

Invece di rispondermi, lei spinge una nuova foto di fronte a me. La prendo per studiare il fermo-immagine di me in un tubino grigio, giacca dello stesso colore, a piedi nudi con un tacco delle mie scarpe che spunta dalla borsa a tracolla sulla mia spalla. Ho un bambino tra le mie braccia con indosso un maglioncino rosso e la strada attorno a noi è piena di persone che corrono nel panico.

«Quattro Maggio duemiladodici. Eri a Midtown Manhattan durante l’Incidente.»

Sappiamo entrambe che è la verità e lei non me lo sta davvero domandando, ma io annuisco lo stesso.

«Perchè avevi in braccio il bambino?»

«Lo stavo aiutando… aveva perso la madre nel caos.»

La donna mi mostra un’altra immagine. Questa foto non è chiara come l’altra, ma riconosco la gonna grigia, la maschera blu, uno dei miei tacchi nella mia mano come un coltello da lancio.

«Stesso giorno. Qualche isolato più vicino alla Torre degli Avengers. Questa sei sempre tu.»

«No, non è vero», mento spudoratamente.

«Allora raccontami cos'hai fatto quel giorno.»

«Dall’inizio?»

Maria annuisce. «Da poco prima dell’Incidente.»

 

Stavo pensando ai fatti miei, con gli auricolari nelle orecchie che urlavano punk-rock e i miei occhi concentrati sullo schermo del mio smartphone, dove stavo cercando un appartamento in affitto in città che fosse entro il mio misero budget. Me ne stavo andando dal quinto colloquio in due giorni con niente di fatto, chiedendomi se fossi destinata a tornare nel mio paesino natale, invece di avere la vita di città che avevo sempre sognato. Stavo vagando senza fare tanta attenzione a dove stavo andando.

Pensandoci bene, c'era una sensazione formicolante che mi stava spingendo verso qualcosa, senza che ne fossi davvero cosciente, ma mica lo vado a dire a lei.”

Improvvisamente, un uomo mi venne addosso, facendomi volare il cellulare dalle mani, che si ruppe cadendo sull'asfalto. Mi voltai verso quel tipo, dai capelli bruni, pallido come qualsiasi altro businessman e dall'abito senza una piega fuori posto, e lo vidi lanciare uno sguardo con occhi castani spalancati alle mie spalle. Non mi guardò neanche e la mia rabbia mi morì in gola, mentre lo vidi correre via. Non stava facendo jogging, stava scappando da qualcosa. Per questo mi voltai, togliendomi gli auricolari, e mi resi finalmente conto del caos che mi circondava.

Macchine ferme in entrambe le corsie, persone che scappavano come forsennate, urla e grida riempivano l'aria. Non stavo più respirando ossigeno, ma panico allo stato puro.

Non riuscivo a muovermi, né a credere a ciò che stavo vedendo. C'erano cose che venivano fuori da una cosa nel cielo. Un raggio blu connetteva una ferita nel cielo alla famosa Torre Stark, una porta dell'inferno da cui calavano diavoli, portando distruzione sulle strade sottostanti.

Ciò che ero in grado di pensare era solo: "ma che diavolo?!".

Fu un grido in particolare a farmi ritornare nell'immediatezza di caos e panico attorno a me. «Mamma!! Mammaaa!»

Vidi un bambino in un maglione rosso, tutto solo a un centinaio di metri di distanza. Iniziai a correre. Contro la folla, spingendo contro la corrente impanicata, corsi verso il bambino. I miei tacchi mi rallentavano, così mi fermai un attimo per toglierli e, riprendendo la corsa, li buttai nella mia borsa, ignorando l'inizio del dolore pungente sulle piante dei miei piedi. Raggiunsi il bambino, aveva forse cinque anni e i capelli neri disordinati, con il viso rotondo intriso di lacrime.

Mi abbassai accanto a lui. «Ehi, ciao.» Cercai di ottenere la sua attenzione, per prima cosa. «Io sono Jude. Come ti chiami?»

Mentre mi rispondeva con un mormorato «Mickey», lo osservai dalla testa ai piedi, preoccupata di vedere tagli o ferite.

«Ti sei fatto male da qualche parte, Mickey?»

Lui fece di no con la testa e io quasi svenni dal sollievo.

«Stai cercando la tua mamma? Come si chiama?»

«Karen.»

«Oh, proprio un bel nome da mamma! Che dici se ti aiuto a trovarla? Posso prenderti in braccio?»

Il bimbo annuì e insieme gridammo il nome di sua madre, mentre camminavo velocemente oltre un incrocio dopo l'altro nella direzione da cui ero partita.

Mi girai quando sentii una donna chiamare «Michael! Mikey!» da una via parallela.

Il bambino quasi saltò via dalle mie braccia e, insieme, sparirono velocemente nel caos che stava inondando le strade.

 

Mi fermo, pensando che Mickey mi ricordava i miei fratellini gemelli, quando erano così piccoli. Forse è questo il motivo che mi ha spinto a muovermi, quel giorno. “Forse è stato il motivo per cui non mi sono fermata.”

«E poi?»

«Dopo sono scappata come il vento. Via da lì. Come tutti.»

Maria spinge alcuni fogli sul tavolo verso di me. Abbasso lo sguardo sulla mia cartella medica. «Avevi dei tagli e tracce di vetro nelle tue ginocchia, oltre a un'ustione sul tuo palmo sinistro. Come te li sei procurati?»

Sfoglio le pagine senza guardarle veramente. Ricordo il vetro che mi tagliava le ginocchia, quando mi inginocchiai accanto a quell'uomo con la gamba schiacciata da un taxi capovolto. Cielo, quella era una ferita da incubo, con il sangue che continuava a ricoprire muscoli e vestiti lacerati; credo di aver visto anche qualcosa di bianco in mezzo a quel casino. L'ustione è tutta un'altra storia: l'alieno Chitauri atterrato tra me e la valanga di macchine una sopra l'altra, dove alcune persone erano ancora intrappolate, la luce bianca-blu che volava verso di me, il dolore scottante che mi traversava il braccio sinistro fino al petto e poi il braccio destro e si sparava fuori dalla mia mano destra, colpendo l'alieno. «Io… non ricordo precisamente...c'era caos dappertutto. Probabilmente mi sono tagliata inciampando. Credo.» “Seh, sto continuando a mentire, malamente anche, ma quando cresci nascondendo chi sei veramente a tutti tranne che alla tua famiglia, diventa una specie di impulso.” Ricordare quel giorno mi sta drenando psicologicamente, però, quindi sono sicura di poter essere più convincente e suonare meno depressa di così.

«Facciamo una pausa. Hai bisogno di qualcosa», Maria mi chiede, alzandosi.

Mi siedo più dritta, cercando di sembrare più composta. «Un bicchiere d'acqua, per favore.»

Lei annuisce ed esce dalla stanza fredda.

Costringo le mie dita a girare le pagine della mia cartella medica, giusto per fare qualcosa e non continuare a ricordare quel giorno. Non devo aspettare molto, prima che la porta si apra di nuovo, ma non è Maria Hill a entrare questa volta.

Cerco di guardarlo come fosse la prima volta che lo vedo dal vivo. I suoi capelli corti sembrano più biondi alla luce severa della stanza, che adombra i suoi occhi chiari e luminosi e le sue labbra incurvate in un sorriso amichevole. Se non fosse per il suo modo di fare gentile, sarebbe un uomo terrificante anche in maglietta blu scura e jeans. Rimane attraente da morire, con le sue spalle larghe, il corpo sodo e i suoi movimenti fluidi e forti.

Capitan America, alias Steve Rogers, si siede al lato opposto del tavolo rispetto a me. «Ehi, Jude.»

«Salve.» La mia voce esce gracchiante e cerco di schiarirmi la gola.

Lui passa una bottiglietta d'acqua verso di me. Non ho notato che ce l'avesse in mano, quando è entrato.

«Grazie.»

«Prego.»

Bevo un paio di sorsi, sentendomi i suoi occhi addosso. Mi ha osservato con la stessa intensità anche nel bel mezzo della Battaglia, la prima volta che lo incontrai. Quasi gli puntai addosso un fucile alieno, tanto ero sorpresa, e forse proprio per quello rimase parecchio guardingo nei miei confronti per i primi minuti.

«Mi riconosci.»

«È una celebrità. Chiunque la riconoscerebbe.»

«Ho la sensazione di averti già incontrata.»

Evito di guardarlo negli occhi, lui ha un qualcosa che mi spinge a dire la verità. Come quando mi chiese il mio nome, una volta che ci trovammo brevemente circondati da Chitauri morti, una piccola pausa durante la Battaglia, e io fui lì lì per rivelargli il mio vero nome per intero. Quindi, tengo gli occhi sul tavolo e lascio che siano le mie mani a enfatizzare le mie parole. Muovo l'indice in un cerchio che racchiude tutto il mio viso. «Ho solo una di quelle facce.»

«No, non ce l'hai. Sappiamo che eri tu, Jude.» Si poggia sul tavolo per avvicinarsi. «Perché continui a mentire?»

Forse perché ho mandato un paio di poliziotti all'ospedale per sbaglio?”, penso tra me e me, ma rispondo: «non sto mentendo. Non ero io».

Sospira, arretrando contro lo schienale della sua sedia. Dà un'occhiata al tavolo e qualcosa attira la sua attenzione. Prende una delle foto. «Sai... aiutare le persone non è così facile come la gente crede. Hai visto quanto lavoro c'era da fare anche dopo la Battaglia. Eri con me, sai di cosa sto parlando.»

La mia mente richiama immagini di Capitan America che cammina un passo avanti a me, dando istruzioni ai dipartimenti di polizia e vigili del fuoco, dandomi indicazioni nell'aiutare le persone ancora intrappolate, perse e ferite. A me come ad altri volontari, ma io ero l'unica con una maschera sul volto.

«Sei una brava persona, Jude. Stiamo solo cercando delle risposte. Se capiamo cos'è successo quella notte… cosa ti è successo… credo che possiamo aiutarti, sai?»

«Non potete. Non sono chi credete voi.» Non è neanche una bugia e sia la mia voce che i miei occhi non nascondo niente, in questo momento.

«D'accordo.» Si alza. «Vuoi qualcosa da mangiare? Sei qui da un pò. Hai bisogno di usare la toilette?»

«Oh, ehm… sì, per favore. A entrambe le cose.»

«Bene. Qualcuno verrà per accompagnarti e sono sicuro che ci sarà qualcosa da mangiare ad aspettarti, quando torni.»

«Grazie.»

Annuisce e se ne va, con le spalle un pò meno dritte di quando è arrivato, osservo con una punta di senso di colpa.

Non devo aspettare neanche un minuto, prima che la porta si apra ancora.

Coperta da una divisa aderente completamente nera, la donna formosa entra nella stanza, con movimenti aggraziati e sicuri, e si ferma appena oltre la soglia. Capelli mossi e rossi, più lunghi dell'ultima volta che l'ho vista, incorniciano il suo viso delicato e bellissimo, adornato da luminosi occhi verdi e un sorrisetto, i suoi tratti distintivi, che rivolge a me. Devo sforzarmi nello stare ferma e non dar alcun segno di reazione all'improvvisa presenza di Black Widow, la Vedova Nera. Spero tanto che le mie guance non siano rosse e calde tanto quanto credo, di nuovo.

Capitan America è un figo, ma lei è dannatamente bella!”

«Dai.» Inclina la testa verso la porta nascosta dietro di lei. «Sono la tua scorta.»

Deve aver visto una certa confusione sul mio viso, per aggiungere quella breve spiegazione. Mi alzo e la seguo fuori.

Camminiamo fianco a fianco in un corridoio stretto e malamente illuminato. Mi concentro per non sfiorare col mio braccio il suo alla mia sinistra, mentre noto dei piccoli rettangoli neri sulle pareti, disposti a intervalli regolari. Non c'è molto altro da vedere, lungo il percorso, se non la mia guardia.

Improvvisamente, è lei a parlare per prima, nella sua voce bassa e setosa. «Per qualcuno che insiste a negarlo, hai le stesse movenze della Volpe Blu.»

«Forse è lei che si muove come me?»

«E anche la stessa voce.»

Ignoro il suo sorrisetto sicuro. “Sta cercando di farmi confessare?” Mi fà fermare davanti a una porta, l'unica visibile, e la apre per me. Lei mi segue all'interno. Il bagno è ricoperto da piastrelle nere ed è scintillante, tanto è pulito, con una serie di cabine sul lato sinistro e una fila di lavandini sulla destra. Io entro nella cabina in fondo.

«La prima volta che ti ho visto con quella maschera ho pensato che stessi rischiando la tua vita per una stupida fantasia, per giocare a fare l'eroe.» La sua voce mi arriva da oltre la porta del cubicolo. «Ma, poi, ho visto come combatti. Dove hai imparato, Jude? Il tuo non è solo talento naturale. Qualcuno ti ha addestrato.»

Il suono dell'acqua che scorre la interrompe. Esco e mi avvicino subito al lavandino che vedo di fronte. “Pensavo sarebbe stato più difficile, con questi lacci ai polsi.” Mentre mi lavo le mani, la guardo furtivamente attraverso lo specchio.

«Ho anche trovato un video molto recente che ti riprende mentre fermi dei rapinatori, davanti a un vicolo di Harlem. Il modo in cui combini il combattimento con i tuoi poteri parla di anni e anni di addestramento.»

Mi asciugo le mani e, con quello che spero sia un sorriso innocente, dico: «non ho mai combattuto in vita mia. Sono una persona pacifica».

Usciamo dal bagno e camminiamo verso la stanza degli interrogatori, in silenzio. A pochi passi dalla fine del corridoio, dove credo si trovi la stanza fredda da cui siamo partite, noto con la coda dell'occhio un movimento della Vedova Nera. In un istante, posiziono i miei piedi a un passo di distanza per avere un equilibrio maggiore e mi abbasso per evitare un pugno.

Mi blocco nella mia posizione semi accovacciata e alzo lo sguardo su di lei.

La mia guardia ghigna. «Avevo una teoria sui tuoi riflessi. Credo di non essermi sbagliata.»

«Questo non prova niente», spero ad alta voce, raddrizzandomi.

La rossa preme dei bottoni sulla tastiera piccola, nera e rettangolare sul muro, ovviamente coprendoli al mio sguardo. «Vedremo.» Sorride e mi fa cenno di entrare.

Una volta dentro, mi fermo sui miei passi.

«Ne è passato di tempo, volpetta.»

Sospiro, non riesco a trattenermi. Mi siedo al lato opposto del genio miliardario dai capelli e gli occhi scuri, il pizzetto ben curato e un completo grigio scuro. «Non l'ho mai incontrata faccia a faccia, signor Stark.» Non è totalmente una bugia. La prima volta che l'ho incontrato, durante la Battaglia, stava volando sopra di me nella sua armatura rossa e oro di Iron Man.

«Ti stai aggrappando a dettagli tecnici, fulminella. Quello è il mio lavoro. Di solito. Fame?» Mette da parte i fogli che Maria Hill ha lasciato e, da una borsa poggiata a terra accanto a lui, inizia a occupare la superficie del tavolo con contenitori di cibo e lattine. Mentre descrive le varie prelibatezze cinesi che ha portato, come fossimo due vecchi amici che si preparano a condividere uno snack insieme dopo tanto tempo lontani, mi passa un paio di bacchette e una manciata di tovaglioli. Iniziamo ad aprire i vari cartoni e mille odori ci investono in pochi istanti. Dopo il primo morso, Tony Stark inizia il suo discorso. «Saltiamo alla parte divertente, basta con le sei-tu-non-sono-io stronzate, sappiamo entrambi che ho ragione io. Okay? Ottimo. Come hai avuto i tuoi poteri?»

Mando giù un morso di pollo al curry, prima di parlare. «Diciamo, ipoteticamente, che lei abbia ragione. Di che poteri stiamo parlando?»

«Ah, ho capito.» Apre altri contenitori e prende un pò di tutto tra le sue bacchette. «È il solito non-sono-io-è-un-mio-amico.» Mastica e io faccio lo stesso, aspettando che continui. «Facciamo 'sto gioco, allora, ma tu rispondi sinceramente alle mie domande. Affare fatto?»

«Non è un gioco», borbotto, masticando. Poi, più chiaramente «affare fatto».

«Ottimo. Che poteri, hai detto? Stiamo parlando principalmente di elettrocinesi e forse riflessi sovrumani. Non a livello di Cap, forse, dovremo testarli, ma comunque sopra il normale.»

«Elettrocinesi?» Sono confusa dal termine scientifico dato che non ho mai pensato a dare un nome alle mie abilità.

«Oddio, sono circondato da gnomi senza scienza.» Mormora tra sé, alzando gli occhi al soffitto prima di riportare la sua attenzione su di me e il cibo che abbiamo di fronte. «È tutto nella parola: elettro per elettricità, cinesi per il movimento ottenuto tramite forza mentale; i cinesi non c'entrano. Facile, no?»

Abbasso lo sguardo, pensierosa. «E se non fosse mossa dalla mente, se fosse più come…», cerco il modo migliore per descriverlo. «Un muscolo. Un muscolo che nessun altro ha?»

«Quella è fantascienza, volpetta. Questa, invece, è la realtà.»

Nascondo la mia espressione ai suoi occhi grazie a un cartone di spaghetti di soia. Sono un pò sconcertata dalla naturalezza con cui ha scartato la mia opinione, forse anche un pò irritata, ma se lo vede scritto sulla mia faccia sono finita. Questa pagliacciata avrà fine e io mi ritroverò, probabilmente, intrappolata dietro a delle sbarre o in qualche laboratorio. Non riesco a trattenermi nel dire «dice l'uomo che vola in una lattina e combatte con un gigante verde radioattivo e un eroe di guerra decongelato. Per citarne giusto qualcuno».

Mangiamo in silenzio per un pò.“Sta pensando seriamente a quello che ho detto?”, mi chiedo, studiando la sua espressione da dietro il muro di cibo in mezzo a noi.

Dopo qualche momento, è lui a rompere il silenzio, mormorando: «c'erano voci, negli anni novanta. Solo qualche gossip bisbigliato qua e là, di persone nate con i poteri. Venivano chiamati mutanti…». Usa le bacchette per muovere il cibo avanti e indietro, ma non sta più mangiando. «Stai dicendo che sei una di loro?»

Afferro il cartone che ho davanti con forza, tesa e speranzosa, sporgendomi in avanti sul tavolo. Non so perché, ma voglio davvero che lui mi creda. «E se lo fossi?»

Mastica pensieroso, mandando giù il boccone e prendendo un sorso da una delle tante lattine a bordo tavolo. «Cambierebbe le cose. Non molto, ma...non so se posso…» Sembra perso nei suoi pensieri per un secondo, poi sospira, si alza e se ne va senza aggiungere altro.

Il mio appetito diminuisce. Mangiucchio un pò nel silenzio freddo della stanza, conscia del fatto che qualcuno mi sta ancora guardando e lo ha sempre fatto, sin dall'inizio. Il tempo passa. Non so quanto. A un certo punto, il disordine sul tavolo mi dà sui nervi e inizio a sistemarlo, impilando le confezioni vuote e gli avanzi, mettendoli da parte. Dopodiché, mi rimetto seduta e aspetto ancora. Ogni tanto giocherello con la fascetta che mi lega le mani. “Chissà quanto mi ci vorrebbe per romperle?” Mi sento sempre più tesa e nervosa, quindi cerco qualcosa per distrarmi, prendendo i fogli del file e leggendo qualche riga qua e là. Uno attira la mia attenzione, un report su un certo Richard Portman, con in allegato una foto di un giovane dagli occhi marrone-verdi e i capelli castani chiari. C'è anche una nota sulla sua gamba amputata. Non potrei mai dimenticarmi di lui.

Avevo appena lasciato il piccolo Mickey con sua madre, quando guardai alle mie spalle, dove la distruzione si faceva sempre più vicina. Fu in quel momento che vidi una macchina cappottarsi, forse un chilometro giù per la strada, e un urlo straziante riempì l'aria in un'eco tra i grattacieli. Allora iniziai a correre di nuovo contro la folla, spingendo e chiedendo scusa a destra e a manca, mentre studiavo ogni centimetro di cemento cercando qualcosa che mi potesse coprire il volto. Ricordo di aver pensato "uh, guarda guarda!", quando qualcosa di blu catturò il mio sguardo dall'altro marciapiede e andai a prenderla. Senza guardarla veramente, la indossai con l'aiuto della sua fascetta nera. Aveva i buchi degli occhi abbastanza grandi da farmi vedere bene e questo era tutto ciò che mi interessava.

Quando arrivai al luogo da dove era partito l'urlo, c'era un uomo con la gamba intrappolata sotto il tettuccio di un taxi ribaltato. Mi fermai, inginocchiandomi al suo fianco, guardando con orrore alla sua situazione. «E-ehi amico. Non ti preoccupare, ti dò una mano io.» Lui grugnì, respirando affannosamente. C'era vetro dappertutto e poi anche nelle mie ginocchia, ma non avevo tempo di pensarci. Guardandomi attorno, cercai di non farmi prendere dal panico, pensando: "non sono certo un'esperta, ma se i Pirati dei Caraibi mi hanno insegnato qualcosa è che con la giusta leva tutto è possibile. O qualcosa del genere". Trovai una barra di metallo di qualcosa di distrutto dell'edificio più vicino, poi tornai al taxi e la misi vicino alla gamba dell'uomo. Usai tutto il mio peso. «Prova a strisciare fuori!» Spinsi con tutta la mia forza, sperando fosse abbastanza. Il tizio intrappolato non si mosse molto, perché non riusciva o era troppo ferito non potevo saperlo. Mi serviva una piccola spinta e, con la maschera addosso, potevo pensarci io. Fortunatamente, era tutto di metallo e se mi fossi concentrata a sufficienza, potevo risparmiare all'uomo qualsiasi effetto collaterale.

Scintille blu corsero tra le mie dita. Piccoli scoppi di elettricità che incrementai e guidai al metallo della barra in un secondo e...boom! La macchina saltò via da noi. Lasciai la barra di metallo, concentrandomi sulla gamba dell'uomo. Sperai di non averla vista. Era un casino, tra sangue e pantaloni stracciati, e vidi qualcosa di bianco lì in mezzo. Stava sanguinando profusamente. L'uomo era sempre più pallido. «Okay, okay. Ehi, stai sveglio, bello.» Non sono un dottore, ma anch'io sapevo che se non avessi fermato l'emorragia, quel tizio non ce l'avrebbe fatta. Quindi scavai nella mia inesistente conoscenza medica, mi tolsi la borsa e diedi la tracolla di finta pelle allo sconosciuto. «Mettila in bocca e mordi, forte.»

Speravo davvero che i film mi avessero insegnato qualcosa di giusto, di tanto in tanto.”

Mi fermai con la mano destra a pochi centimetri dalla ferita e guardai il viso dell'uomo. Aveva seguito le mie istruzioni, ma il panico era evidente, la paura quasi palpabile. Gli offrii la mia mano libera. «Stringi quanto vuoi, non farti problemi. E mi dispiace, davvero, ma farà parecchio male.» Per cauterizzare una ferita ci vuole calore e l'elettricità può bruciare. Questo era il mio ragionamento e, mentre mi concentravo flettendo la mia abilità e dirigendola sulla ferita, sperai che avrebbe funzionato. Passò un momento in cui il tizio urlò a pieni polmoni e quasi mi stritolò le dita, ma non vidi nessuna differenza. Allora flessi di più e spinsi più elettricità sulla lesione, finché non vidi del fumo. Quando mi fermai, l'uomo era quasi senza fiato e sbatteva le palpebre in modo frenetico, ma il sangue si era fermato. Con un sospiro di sollievo mi avvicinai al suo viso. «Ehi, amico, come ti chiami?»

«Io... Richard…»

«Richard. Posso chiamarti Rick?» Lui annuì, o forse era così senza forze da non controllare più i suoi muscoli. «Rick, adesso ti sollevo. Come vedi, sei più alto di me, di almeno una testa direi, quindi qualsiasi cosa faccia farà male. Dobbiamo muoverci, però, qui non è sicuro. Okay?» Aspettai la sua risposta, ma non ne ricevetti nessuna. «Ehi, Rick. Rick, resta con me. Non credo sia una buona idea mettersi a dormire adesso. Parlami, okay?» Lo sollevai. Il suo urlo e i suoi grugniti erano segni sicuri che fosse sveglio, almeno. Con un suo braccio sulle mie spalle e un mio braccio attorno alla sua vita, presi tutto il suo peso su di me e iniziai a camminare. Era un processo lungo e lento, ma necessario. «Allora, ehm…» Mi guardai attorno in cerca di aiuto, ma le strade si stavano svuotando. Chi rimaneva stava correndo lontano dal pericolo. «Sei cresciuto qui a New York?»

Un suono riporta la mia mente dai ricordi alla stanza vuota e mi volto verso la porta che si sta aprendo.

Il biondo Hawkeye, Occhio di Falco, scivola all'interno, guardando con i suoi occhi azzurri le carte che ho tra le mani, e mi saluta con un cenno. «Ehi.»

«Ciao.»

Non è grosso come Capitan America, direi più snello, ma sempre muscoloso. Indossa una maglia blu-grigia e jeans. Si siede sulla sedia al lato opposto del tavolo e prende il file che ho davanti. «Ah, lui. Se non fosse stato per te, non ce l'avrebbe fatta. L'ha detto lui stesso.»

Mando giù il nodo che sento in gola, cercando di non mostrare nella mia espressione alcuna traccia del senso di colpa che sento. “Non ne sono così sicura.”

«Come le persone su quell'autobus con cui mi hai dato una mano, ricordi?»

Alzo lo sguardo su di lui. Mi guarda con un morbido sorriso e io sospiro. «No…»

Anche lui sospira e posa i gomiti sul tavolo. «Perché? Sarebbe così orribile ammettere tutto il bene che hai fatto in queste settimane?»

Non proprio.”

«Se sei preoccupata per gli agenti sotto copertura, stanno bene. Nessuno si è fatto male sul serio, si riprenderanno.»

Mi sento sollevata nel sentirlo. «Buon per loro.»

Forse legge qualcosa sul mio viso, perché il suo sorriso si allarga. «Bene. Allora ce lo puoi dire, adesso.»

Aggrotto le sopracciglia, assumendo un'espressione di confusione che non sento realmente. «Dire cosa?»

Lui si passa una mano tra i capelli. «Sei una brava persona, Jude. Hai rischiato la tua vita per aiutare degli innocenti durante la Battaglia, ti sei messa in prima linea al nostro fianco nello scontro con quegli alieni. Sei andata avanti per settimane fermando scippatori e piccoli criminali dal Bronx a Lower Manhattan, fino a Brooklyn. Hai aiutato un sacco di persone. Poi, sì, hai avuto un problemino, ma si risolverà da solo, nessuno s'è fatto male sul serio. Eppure continui a mentire. Di cosa hai paura?»

Evito il suo sguardo.

«Non hai paura per te. L'hai provato più volte...credo che tu voglia proteggere qualcuno.»

Sussulto alle sue parole, incontrando i suoi occhi sorpresa, ma mi mordo il labbro per evitare di farmi sfuggire una qualsiasi reazione a voce.

«Lo so cosa si prova. Non devi credermi, ma lo so meglio di chiunque, qui. Certe persone sono più importanti della nostra stessa vita.»

Ciò che dice mi fà ricordare una chiamata che feci dal telefono di un ristorante due giorni dopo l'Incidente.

Digitai il numero a memoria e aspettai due, tre squilli, prima che la chiamata si connettesse.

«Pronto?» Rispose la voce rauca ma morbida di mia madre.

«Ehi, mà. Sono io.»

«Jude!»

Allontanai il ricevitore di qualche centimetro dal mio orecchio, mentre mia mamma urlava imprecazioni di sollievo, rabbia e qualcosa di troppo simile alla disperazione. Cercai di interromperla. «Mà, mamma, mi dispiace di non aver potuto chiamare prima.»

«Ti abbiamo vista in TV, Jude! E non avevamo idea se fossi viva o morta!» Iniziò a piangere.

«Mamma, scusami, mi dispiace, non potevo…» Cercai di farla calmare.

Dopo un paio di suoni incomprensibili, una nuova voce prese la parola, anche questa scossa dall'emozione. «Tesoro, siamo così felici che tu stia bene…»

«Papà! Mi dispiace, vi avrei dovuto chiamare su-»

«No, no, lo capisco. Lo sappiamo. È così bello sentire la tua voce. Hai un minuto? I ragazzi vogliono parlarti.»

«Sì, sì ho tempo.» Asciugai le mie lacrime.

«Prima, però, dimmi che sei al sicuro. Nessuno ti ha vista, vero?»

«Sì, sono al sicuro. Ho trovato un appartamento e un lavoro. E, sì, sono stata attenta.»

Sentii il sospiro di mio padre. «Bene. Okay, tesoro, molto bene.» Rivolto a qualcun altro, disse: «sì, dammi un secondo». Poi più chiaramente, proseguì dicendo: «ti voglio bene, tesoro. Stai attenta».

«Sempre. Anch'io ti voglio bene, papà.»

Ci fu un rumore di voci lontane, sovrapposte, poi parlò una, chiara e mascolina. «Jude! Dannazione! Per poco non fai venire un infarto a quei due! Che t'è preso?!»

«Ehi, avresti fatto la stessa cosa anche tu!»

Aspettò un momento, prima di ribattere. «Sì, forse, ma sono più forte di te. E più grande.»

«E a chilometri di distanza, Johnny.»

Sospirò. «Stai bene?»

«Sì. Non ti devi preoccupare così tanto. Ho trovato da affittare nel Bronx, e un lavoro.»

«È la maledizione del primogenito», borbottò. «Che lavoro?»

«Ugh, data entry, noioso da morire. Un lavoro d'ufficio.»

«Ma e ai mu- ehi!»

Sentii i suoni tipici di una piccola zuffa e imprecazioni.

«Juls, che figata di maschera! Ti hanno dato un nome da supereroe!»

«Dar! Ridammi il telefono!»

In sottofondo, sentii anche la voce di mio padre dire «Jo, lascia il telefono ai gemelli, prima di romperlo» in un tono esasperato.

Risi, con lacrime ancora intrappolate tra le mie ciglia.

«Jude! Posso venire da te? Potremmo fare una squadra di supereroi, io li acceco e tu li fulmini!»

«Dan, non sono un supereroe.»

Darren interruppe il gemello prima che Daniel potesse aprire di nuovo bocca. «Che stai dicendo?! Sì che lo sei! Se potessimo dire a tutti che siamo i fratelli della Volpe Blu, saremmo i più popolari della scuola!»

«Scemo, ovvio che non possiamo! Vuoi anche far vedere a tutti come muovi le cose con la mente? Baka!» [Stupido!]

«Dai, smettetela di litigare. Come va la scuola?»

Mi ignorarono, ovviamente.

La mamma riprese in mano il telefono. «Oh, Jude. Per favore, stai attenta. Che nome stai usando adesso?»

«Sempre Jefferson. Non devi scrivertelo, mà, non lo sentirai al TG. Promesso.»

«Prenditi cura di te, tesoro. Chiama quanto più spesso puoi.»

«Credo di poter riuscire una volta alla settimana.»

«Bene, e se ti servono più sol-»

«No, mamma. Davvero, me la cavo.»

«Okay. Ti voglio bene, Jude.»

«Anch'io, mà.»

Sbatto le palpebre, tornando alla stanza fredda e Occhio di Falco di fronte a me. Lui si alza dalla sua sedia e si appoggia al tavolo, fissandomi dritto negli occhi. «Se parli con noi adesso, possono restare un tuo segreto.» Sorride, ma è un sorriso triste. «Se non lo fai, troveremo chi stai proteggendo e non potrai più farci nulla. A te la scelta.»

Mi lascia sola con le sue parole che mi rimbombano in testa.

Sono da sola a rimuginare, persa nei miei pensieri per non so quanto tempo, scandito solo da qualche sorso di bibita dalle lattine che il signor Stark mi ha lasciato. A un tratto il mio stomaco si fa sentire di nuovo. “È ancora lo stesso giorno?”

Pensando al diavolo, spuntano le sue corna, camminando impettito verso la sedia vuota con una borsa di cartone tra le mani. Senza dire una parola, poggia due involucri sul tavolo e ne spinge uno verso di me. «Pronta a parlare adesso?»

Esito.

«Se hai un problema con me, dillo, volpina.»

«Non con lei, signor Stark-»

Mi interrompe: «Tony. Abbiamo già mangiato assieme, puoi chiamarmi per nome. È come se fossimo già al secondo appuntamento». Scuote il suo hamburger per sottolineare il suo commento.

Sospiro. «Va bene. Ma credo che potresti essere tu ad avere un problema con me.»

«Perché mai?» Dà un morso.

«Perché sono una mutante.»

Annuisce, sorprendendomi con la sua reazione tanto tranquilla. Continuo a osservarlo, mentre inizio a mangiare anche io. «Ho avuto tempo per digerire la cosa. Siamo a posto. Quindi Jefferson non è il tuo vero nome.»

«No, ma preferirei che non andiate a scavare ancora.»

«E ci dirai tutto?»

«Esatto.»

«Okay, possiamo muoverci così. Jude Jefferson, allora. Hai davvero ventitré anni? Sembri più giovane.»

«Sì, davvero. Li ho compiuti qualche giorno fa.»

«Buon per te. Ottima genetica. E sei nata con i tuoi poteri.»

«Sì.»

«Tutti quanti?»

«Tutti quali? Posso solo usare l'elettricità presente nel mio corpo, che ne ho molta di più del normale. E quella di fonti esterne, ma solo se le tocco. Ho riflessi più veloci della media, ma questo è quanto.»

«Dovremo testarlo.» Annuisce e ci concentriamo sui nostri hamburger per un attimo. «Dimmi, da quando hai deciso di diventare una vigilante?»

«Dalla Battaglia di New York.»

«E prima?»

«Prima? Ero al college, ho avuto a male pena il tempo di ubriacarmi una volta.»

«Solo perché hai deciso di comprimere quattro anni di studio in due. Potevi prendertela con calma, nessuno ti rincorreva, o sbaglio?»

«Andare al college è dispendioso. Finendolo prima ho speso meno.»

«Esistono dei piccoli aiuti economici chiamati Borse di Studio, ne hai mai sentito parlare?»

«Non sono mai stata la prima della classe, né la più povera. Ero nella media. Non sono riuscita a ottenerne.»

Lui piega la testa, studiandomi un attimo, prima di tornare al suo hamburger. Poi: «non era per colpa del nome falso?».

«Beh, quello non ha aiutato.»

Gli sfugge una risata sommessa. «Puoi essere divertente, quando sarai pronta a smettere di tenere il broncio. Ma passiamo a cose serie, un attimo.» Dà l'ultimo morso, finendo l'hamburger, e stropiccia un tovagliolo tra le mani, pulendosi. Poi prende il suo smartphone dalla tasca, digita qualcosa e lo poggia sul tavolo. Il dispositivo attiva un ologramma che appare, sospeso, mostrando un'immagine sgranata di una figura in lontananza con indosso una maschera blu decisamente familiare. È l'unica cosa che riconosco della figura, quindi la studio sentendo un mix di sorpresa e timore.

Credo ci sia una parola per descriverlo.”

«È stata presa da una telecamera di un molo accanto. Le telecamere di quel molo sono state messe fuori uso dai cattivi, ovviamente.» Si ferma per studiare me e il fermo-immagine. «Quello è un nuovo look, ma c'è solo una ragazza elettrica per le strade di New York. Per fortuna.»

Ricordo la sensazione di plastica bruciata delle mie scarpe nere sotto i piedi, l'aria attorno a me carica di elettricità, sia visibile che invisibile. Nella foto, posso vedere chiaramente cinque o più colonne di elettricità blu che dal mio corpo si estendono in spirali verso il cielo. C'è un bagliore blu, che non ho mai visto, che illumina l'ombra dei buchi per gli occhi della maschera.

«Vuoi raccontare al resto della classe cos'è successo esattamente quella notte?»

 

Quella notte era una come le tante in cui vagabondavo tra le ombre della città, in cerca di guai da fermare. Indossavo come sempre leggings e scarpe da tennis neri, e una maglietta larga blu scura sopra il mio reggiseno sportivo nero - senza maniche perché faceva più caldo del solito.

 

«Non m'interessa la tua scelta di abbigliamento, bluetta.»

Sbuffo alla sua interruzione e al pessimo nomignolo, l'ultimo di una serie troppo lunga, prima di continuare.

 

All'improvviso sentii del movimento in una zona quasi abbandonata dei moli a pochi metri davanti a me. Feci più attenzione del solito a fare meno rumore possibile, perché sentii molte voci bisbigliare. Inoltre, pensai: "strano che ci siano ancora carichi e scarichi nel pieno della notte, anche per le navi serali". La cabina delle guardie di sicurezza era anche vuota, notai quando mi abbassai vicino alle sue finestre. "Questo non è proprio un buon segno", pensai.

Quando arrivai abbastanza vicino da guardare senza essere vista, all'ombra di una porta estremamente larga, notai una piccola folla in piedi vicino a delle casse di metallo e di legno. Mi chiesi se fossi capitata contro i miei primi trafficanti. I loro borbottii rimanevano incomprensibili alla distanza in cui mi trovavo, i loro volti nascosti nell'ombra, ma quando uno di loro aprì una cassa, ci fu un pò più di luce. Non avevo mai visto delle luci violacee di quel tipo. La situazione mi stava rendendo nervosa. Più vedevo e più la cosa non mi piaceva. Soprattutto non le armi aliene che stavano maneggiando.

Non avevo mai affrontato così tante persone in una volta, ma non potevo lasciare che mettessero quelle mostruosità per le strade. I criminali sono già abbastanza pericolosi muniti di coltelli e pistole.

«Ehi, tu!»

La voce di un uomo mi fece voltare, sorpresa, con le mie dita già avvolte da elettricità. Non mi girai neanche del tutto, prima che l'uomo cadde a terra, privo di sensi. Il nostro breve scontro-incontro, però, non sarebbe passato inosservato.

Voltandomi verso la piccola folla oltre il mio nascondiglio, si stavano già muovendo, armi in mano, verso la mia posizione, chiamando un nome; probabilmente quello dell'uomo svenuto. Non potevo fare altro che muovermi da lì. Così corsi verso di loro, lanciando colpi di elettricità dalle dita, schivando, saltando. Quasi sorrisi nel vedere che il loro numero diminuiva a vista d'occhio, finché un piccolo gruppo munito di armi aliene non mi mise con le spalle al muro. Letteralmente.

Il cemento e il metallo alle mie spalle tremavano e si sgretolavano poco a poco. Il mio nascondiglio non sarebbe durato ancora a lungo. Stava scomparendo. Fui colpita alla spalla sinistra e urlai. Sentii un calore bollente formarsi nel mio braccio, ma ero distratta dal fatto che non ero morta e c'era un altro raggio lanciato contro di me.

Sollevai il mio braccio sinistro.

Era come se un istinto che non sapevo di avere mi stesse guidando.”

L'attacco contro di me fu intercettato dall'energia palpitante e calda che fuoriuscì dal mio corpo, come una pietra lanciata da una cerbottana; improvvisa, fu dolorosa uscendo tanto quando era entrata. Un rivolo di sangue mi scorreva sulla pelle, formando piccole gocce rosse sulle punte delle mie dita. Non avevo idea di cosa stesse succedendo, ma al seguente raggio di energia sparato contro di me, alzai le braccia e… lo assorbii. Lasciai scorrere l'energia nei miei muscoli e li sentii tendersi e distendersi. Mi sentii ricaricata. La lasciai andare, creando un'esplosione che rovinò le mie scarpe e il cemento che mi circondava. Gli uomini rimasti di fronte a me persero l'equilibrio. Era la mia occasione.

Mi concentrai sull'elettricità nel mio corpo e non ne avevo mai sentita così tanta crepitare appena sotto la mia pelle e tutt'attorno a me. Stava anche bruciacchiando i miei vestiti. Portando la mia attenzione sui miei obiettivi, la mia energia, la mia abilità seguì il mio volere e colpì tutti gli uomini in un colpo solo, facendoli cadere a terra privi di sensi. Ricordo che sperai di non avergli fatto troppo male, ma pensai che di sicuro si sarebbero svegliati con qualche ustione.

Mi sentii improvvisamente svuotata su gambe traballanti. Non riuscii nemmeno a trattenere uno sbadiglio, mentre frugavo tra le loro tasche in cerca di un cellulare da poter usare. Trovandolo, avviai la chiamata e aspettai.

«Nove uno uno, qual è l'emergenza?»

«Ciao, ehm… ci sono degli uomini che stanno trafficando armi pericolose, non ho idea in quale molo, lascio la chiamata aperta così potete tracciarla, notte.»

Ignorai la voce dell'operatore che continuava a chiedermi qualcosa, ma non riuscivo a registrare nessuna delle sue domande. Ero troppo stanca. Il mio unico pensiero era "a letto, adesso".

 

Tony Stark mi sta studiando, con le braccia incrociate sul petto, stravaccato sulla sedia. «Tutto qui?»

«Tutto qui.»

«T'è mai successo prima?»

Abbasso lo sguardo sulla mia mano sinistra, pensandoci su. «Forse.»

Lui nota che continuo ad aprire e chiudere la mano. «È la mano che ti sei ustionata durante la Battaglia, giusto? Com'è successo?»

«Un raggio da una delle armi dei Chitauri. Era la prima volta che quel tipo di energia mi è entrata dentro.» Sospira e si alza. Da una tasca, tira fuori un coltellino svizzero e cammina attorno al tavolo, avvicinandosi a me. Lo guardo scioccata, mentre taglia la fascetta ai miei polsi. «Che stai facendo?!»

«Abbiamo finito qui. Ti servono una doccia, un pisolino di qualche ora e poi possiamo iniziare i test. Ho già avvisato il tuo ufficio, hai un paio di settimane di riposo, non che ti perdi molto, quello è un lavoro per cervelli vuoti. Hai una laurea in storia dell'arte, no? Magari Pepper riesce a passarti dei contatti e trovarti un vero lavoro, per i momenti morti comunque. E non preoccuparti dell'affitto, non devi pagare per stare alla Torre.»

«Cosa? Di che stai parlando?»

«Dai, volpina, cerca di stare al passo, ce ne stiamo andando da qua.»

   
 
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