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Autore: Carmaux_95    08/03/2022    12 recensioni
«Come avrei dovuto reagire scusa? Come ci si comporta quando incontri quella che potrebbe essere la tua potenziale anima gemella? Cosa avrei dovuto fare? Ti rendi conto di cosa significhi? Non poteva essere un po’ meno vago il mio tatuaggio?»
Finché era piccolo non aveva mai realmente prestato attenzione a tutta quella faccenda, non gli era mai importato. Non che adesso sognasse smanioso quel magico incontro che avrebbe fatto palpitare il suo cuore, no, tuttavia non riusciva più a mettere a tacere quell’interrogativo che ormai bussava frequentemente alle sue tempie: “E se non ce la avessi, l’anima gemella?”
Nonostante questo, Nishinoya era sempre stato felice che il suo emblema non fosse un tatuaggio. Non gli piaceva l’idea di un marchio indelebile sulla sua pelle. I suoi lividi, ecco quelli sì che erano trofei di cui, per quanto temporanei, andava fiero: erano il suo orgoglio, la prova dei suoi successi e dei suoi miglioramenti.
[AsaNoya SoulmateAU]
PRIMA CLASSIFICATA al contest "Il filo rosso del destino – Soulmate!AU Contest" indetto da Pampa sul forum feriscelapenna
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Asahi Azumane, Yuu Nishinoya
Note: AU, Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Mirror-1
 
«È questo! È questo che si prova quando si impazzisce!» decretò Tanaka addentando il melonpan che si era portato da casa: non c’era modo migliore per concludere il pranzo e prepararsi ad affrontare il doposcuola e gli allenamenti pomeridiani.
Nishinoya alzò la testa dal suo bento per incontrare lo sguardo allucinato del suo migliore amico. La generosa porzione di riso contenuta nell’apposito scomparto del vassoio si era ormai trasformata in un campo di battaglia: le bacchette, micidiali nelle mani irrequiete del ragazzo, continuarono a tormentare i cicchi anche quando Tanaka riprese a parlare.
«Questo doveva essere una benedizione!» disse indicandosi il polso, dove campeggiava un piccolo tatuaggio. «Invece è il contrario!»
«“No”» recitò Noya, che ormai conosceva bene il monologo che Tanaka stava per riproporgli.
«“NO”! Io sto impazzendo! Ieri ho incontrato una studentessa che, a giudicare da come si aggirava per i corridoi con una piantina in mano, doveva essere della sede distaccata: le ho chiesto se avesse bisogno di aiuto per orientarsi e lei mi ha risposto “no”! È pure scoppiata a piangere!* Settimana scorsa ho chiesto alla nostra nuova compagna di classe se volesse svolgere il progetto di inglese insieme a me e mi ha risposto “no”! Sorvolando il fatto che non ci stavo provando – era appena arrivata e volevo solo essere gentile – credo di averla inquietata. Credo di averle inquietate entrambe, a dire il vero, ma come avrei dovuto reagire scusa? Come ci si comporta quando incontri quella che potrebbe essere la tua potenziale anima gemella? Cosa avrei dovuto fare?»
«Forse non fissarle come un maniaco!» rispose Yuu grattandosi il palmo della mano.
«Ti rendi conto di cosa significhi? Non poteva essere un po’ meno vago il mio tatuaggio?»
«Almeno tu ce l’hai, un tatuaggio» dichiarò Nishinoya riempiendosi la bocca con una porzione di tempura di carne. Non c’era tristezza in quella affermazione: era sempre stato felice che il suo emblema non fosse un tatuaggio. Non gli piaceva l’idea di un marchio indelebile sulla sua pelle. I suoi lividi, ecco quelli sì che erano trofei di cui, per quanto temporanei, andava fiero: erano il suo orgoglio, la prova dei suoi successi e dei suoi miglioramenti.
«Noya-san! Tanaka-san!» una voce squillante lo fece girare. Con un sorriso e un cenno della mano invitò il ragazzino e il suo inseparabile compagno a raggiungerli e a sedersi insieme a loro.
«Di cosa state parlando?» domandò Shoyo con curiosità, mentre si ficcava un nikuman intero in bocca**.
«Di questa maledizione!» indicò nuovamente il tatuaggio sul polso. «Non capirò mai chi è la mia anima gemella! Potrei anche averla già incontrata, per quanto ne so!»
«E pensi che lei non ti abbia detto niente perché è rimasta delusa?» la schietta genuinità di Kageyama non nascondeva mai cattiveria, tuttavia Tanaka sgranò gli occhi, il melonpan improvvisamente bloccatosi a metà strada tra il vassoio e la sua bocca spalancata. «Lo penso adesso!» esclamò dopo alcuni istanti di silenzio e, per corroborare la sua miseria, lasciò piombare il capo sul tavolo emettendo un verso sconsolato.
Nishinoya rise, soprattutto quando un preoccupato Hinata accorse per risollevare l’animo del suo compagno di squadra chiamandolo addirittura “Tanaka-senpai”. Rise ma si trovò anche a riflettere. “Non capirò mai chi è la mia anima gemella”. Non si reputava un ragazzo particolarmente sentimentale ma quel pensiero aveva iniziato a fare capolino anche nella sua testa, ultimamente. Finché era piccolo non ci aveva mai realmente prestato attenzione, non gli era mai importato. Non che adesso sognasse smanioso quel magico incontro che avrebbe fatto palpitare il suo cuore, no, tuttavia non riusciva più a mettere a tacere quell’interrogativo che ormai bussava frequentemente alle sue tempie: “E se non ce la avessi, l’anima gemella?”. Forse era per questo che non aveva ancora trovato alcun emblema: non aveva un tatuaggio come quello di Ryuu perché nessuno di speciale gli avrebbe mai rivolto quelle parole; non aveva un contatore sull’avambraccio perché non avrebbe mai incontrato la persona a lui destinata. Certo non avrebbe passato il tempo a fissare il timer nell’attesa che si fermasse quindi forse non si trovava nella posizione di potersi lamentare o di accampare alcun diritto. Eppure, non trovava differenze tra lui e i suoi due compagni di squadra: Hinata e Kageyama non si erano accorti di quando il proprio timer si era fermato perché troppo coinvolti dalla partita di pallavolo che, un anno prima, li aveva fatti incontrare come avversari e anche come anime gemelle. Se ne erano resi conto solo in seguito quando si erano fatalmente ritrovati come compagni di classe nel medesimo liceo.
Perfino a quello scontroso secchione di Tsukishima l’universo aveva assegnato un’anima gemella! Lo ricordava fin troppo bene. Più di una volta aveva visto quello spilungone biondo ascoltare musica con le cuffie e, dieci secondi dopo, aveva sentito un inconsapevole Yamaguchi canticchiare timidamente la medesima canzone. Quei due lì… erano così ridicolmente palesi e così totalmente inconsapevoli di esserlo! Il modo in cui erano sempre appiccicati l’uno all’altro, il modo in cui si guardavano, il modo in cui persino il sarcasmo di Tsukishima scemava di fronte al sorriso lentigginoso di Yamaguchi: nel loro caso l’emblema dell’anima gemella non sarebbe neanche stato necessario. Un giorno in cui era particolarmente di cattivo umore, Nishinoya si era trovato a pensare che non se lo meritassero – men che meno un emblema romantico come quello della musica – soprattutto alla luce del fatto che nessuno dei due sembrava rendersene minimamente conto. Poi, riconosciuta la gratuita cattiveria di quel pensiero, aveva chiesto perdono ad un confuso Tadashi che non aveva potuto far altro che accettare quelle scuse non richieste.
Insomma, non si poteva dire che Tsukishima e Yamaguchi o Hinata e Kageyama avessero vissuto nella trepidante attesa di quell’incontro – al contrario di Tanaka – eppure ad entrambe le coppie era stata donata quella dolce occasione di compagnia.
In fin dei conti, dunque, perché per Nishinoya doveva essere diverso? Perché era l’unico a dover combattere con quel senso di incompletezza?
Scrollò le spalle. Odiava fossilizzarsi su pensieri del genere. Più ci si arrovellava più si irritava e più si irritava più il nervosismo si faceva strada in lui provocandogli un fastidio quasi epidermico: ormai aveva perso il conto delle volte in cui, di punto in bianco, si era trovato a grattarsi il palmo delle mani per scacciare il prurito nervoso.
«Oggi voglio fare almeno cento schiacciate!» esclamò improvvisamente Hinata, portando avanti la discussione che aveva sapientemente spostato sulla pallavolo dopo che Tobio aveva stroncato Tanaka. «Ho sentito che il coach Ukai aveva in mente un allenamento un po’ diverso dal solito per oggi ma spero proprio che mi permetterà di allenarmi anche nelle schiacciate: voglio diventare l’asso!»
«Ci servirebbe un vero asso in squadra!» lo provocò Kageyama.
«Sei solo invidioso perché l’asso è più figo dell’alzatore! Invidiosyama!»
Nishinoya sorrise entusiasta, come se non avesse sentito l’ultimo scambio di frecciatine: «Non fare troppo lo spavaldo, Shoyo: le salverò tutte!»
 
*
 
Le finestre dell’aula erano spalancate ma non circolava un filo d’aria. La sede distaccata del liceo Karasuno non era famosa per essere all’avanguardia e i fondi che erano stati stanziati per le ristrutturazioni erano finiti tutti nelle palestre e negli spogliatoi ma i tre ragazzi – rilassati mentre si godevano i pochi minuti di intervallo tra una lezione e l’altra – proprio non se la sentivano di lamentarsene, considerando il quantitativo di ore che trascorrevano nelle suddette palestre.
Asahi raccolse i capelli con le mani e li legò sbrigativamente per lasciare scoperto il collo, poi recuperò il quaderno dell’ultima lezione e cominciò a farsi aria.
Sugawara, seduto sul banco di fronte con una bottiglietta d’acqua in mano, diede voce ai suoi pensieri: «Che caldo…»
«Quasi non si respira» concordò Asahi.
«Non so come tu faccia a tenerti addosso quella camicia» aggiunse Daichi, appallottolando l’involucro della merenda.
«Perché non ti arrotoli le maniche, almeno?»
«Lo sai…».
«Ancora con questa storia?» borbottò Sugawara, esasperato.
«Ma qui ci siamo solo noi tre» rincarò la dose Daichi.
Certo, loro lo conoscevano bene ma sapeva che voci giravano sul suo conto sia fra le mura della scuola che fuori. “Pare sia stato bocciato due volte!” Beh, ad essere onesti quello era il minore dei problemi: essere considerato vecchio certo non poteva posizionarsi alla stessa altezza, nella scala di gravità, dell’essere considerato un delinquente! “Ho sentito che ha estorto soldi ad uno della Kita!” oppure ancora “Si dice che venda sostanze proibite per le strade!”.
Daichi e Sugawara lo avevano rincuorato spesso, consigliandogli di non prestare attenzione ai pettegolezzi che giravano su di lui per via del suo aspetto ma Asahi non ci riusciva. Non del tutto. Per questo preferiva evitare di girare lasciando scoperte le braccia, dove facevano regolarmente capolino diversi lividi dai colori più o meno vivaci a seconda che fossero nuovi o che stessero sbiadendo: non voleva che iniziasse a circolare anche la voce che era avvezzo alle zuffe o, peggio, che gestiva un fight club illegale!
Però, effettivamente, Daichi aveva ragione: con loro non aveva nulla da nascondere quindi sganciò i bottoncini e ripiegò le maniche fino ai gomiti tirando un sospiro di sollievo.
“Dovrei essere preoccupato?” si domandò, osservando l’ultima violacea aggiunta alla collezione, spuntata poco sotto il gomito: usando un po’ di fantasia, la forma e il colore così scuro gli fecero quasi pensare ad un corvetto.
Era stato Sugawara a suggerirgli che quei lividi potessero avere a che fare con la sua anima gemella. Gli aveva raccontato di un suo amico, uno studente di una scuola di Tokyo: aveva riconosciuto la propria quando si era reso conto che ogni volta che colpiva quest’ultima per vendicarsi di commenti sfortunati, tra cui diversi sulla sua altezza, si ritrovava con un piccolo livido nei medesimi punti; Suga dubitava che l’orgoglio di Yaku gli avesse concesso di rivelare la scoperta a quel gigante dallo sguardo ingenuo che si ostinava a rimproverare con pugni e scappellotti.
Tuttavia, un conto era quel genere di “botte”, come quelle che Suga gli piantava nello stomaco con la scusa di voler scacciare la negatività che così di frequente lo assaliva (non che funzionasse). I lividi che riempivano le braccia e spesso le gambe di Asahi, tuttavia, cominciavano ad impensierirlo seriamente. Dubitava che potessero essere causati da un sonno agitato o da semplice goffaggine.
Ogni volta che riconosceva quel prurito che ormai familiare, si fermava ad accarezzare l’area che di lì a poco sarebbe diventata livida. Come se quella carezza, anche attraverso il tessuto della divisa scolastica, potesse lenire il dolore che quella persona stava provando in quel momento.
«Pensi di tenere su la felpa anche oggi durante gli allenamenti?» lo prese in giro Daichi.
Sugawara non diede il tempo di rispondere ad Asahi e si inserì nella conversazione: «Ah, non vedo l’ora! Chissà quante telefonate avrà dovuto fare per organizzarli! Allenarsi con altri ragazzi… sarebbe fantastico se riuscissimo a formare una vera squadra!»
Asahi ricordava bene il giorno in cui si erano iscritti al club di volley maschile. Sarebbe stato meglio dire che, quel giorno, avevano fondato il club dato che oltre a lui, Daichi e Sugawara nessun altro studente della sede distaccata si era iscritto. Davanti al loro sbigottimento, il preside aveva scrollato le spalle: “Il volley maschile non è da club”***.
Erano sempre stati solo in tre fino a quando il professore di letteratura non si era fatto avanti e aveva deciso di prenderli sotto la propria ala. Peccato che di pallavolo se ne intendesse meno di zero. Eppure, nonostante questo, non si era mai perso d’animo e quel pomeriggio i suoi sforzi avrebbero finalmente dato i suoi frutti.
 
*
 
Era in anticipo, appena fuori dal portone della palestra. E da solo.
Hinata e Kageyama a causa del loro continuo battibeccare su “quale ruolo fosse più figo” erano riusciti a farsi riprendere da uno dei professori che aveva così ritenuto necessario trattenerli per rimproverarli.
Tsukishima e Yamaguchi, invece, frequentavano una delle classi avanzate: da programma avrebbero finito le lezioni e li avrebbero raggiunti in palestra un’ora dopo.
Quanto a Tanaka, invece, si domandava se li avrebbe mai raggiunti in palestra dopo l’incontro che aveva appena fatto. Noya non poteva negare che quella fosse la ragazza più bella che avesse mai visto – era praticamente una dea – e con la fortuna che avevano, era sicuramente una studentessa della sede distaccata. Tanaka gli aveva più o meno letto nel pensiero quando, prima ancora di conoscere il suo nome, le aveva chiesto di sposarlo. Insomma, non c’era da stupirsi se, quando la giovine gli aveva risposto con un semplice “no”, Tanaka fosse imploso: Noya si domandò se, dopo gli allenamenti, sarebbe dovuto andare a recuperare il suo migliore amico in infermeria.
Un rumore dall’interno della palestra attirò la sua attenzione. Senza rendersene conto si grattò il palmo della mano, improvvisamente pruriginoso. Si sedette in terra per indossare le ginocchiere. Sentì nuovamente prurito alle mani e, distratto dall’ennesimo rimbombo dalla palestra, l’elastico che stava stringendo gli sfuggì schioccando contro la sua pelle e dando l’estrema unzione a quel paio di ginocchiere che lo accompagnava dalle elementari.
«Dannazione!» esclamò sfilandosele. Non ne aveva un paio di riserva – era una settimana che si ripeteva di andare a comprare anche delle nuove gomitiere, anch’esse pensionate qualche giorno prima – e non ne aveva di scorta nemmeno nello spogliatoio. Per questa volta avrebbe dovuto fare senza: gli sarebbe bastato stare un po’ più attento.
Le ultime parole famose.
Aveva dato per scontato che fosse il coach Ukai a fare qualche tiro di riscaldamento in vista degli allenamenti ma quando entrò in palestra lo vide: un ragazzone aveva appena lanciato in aria una palla e aveva preso la rincorsa. Un servizio in salto! Il prurito originò, come sempre, sul palmo della mano ma si trasformò rapidamente in un brivido che si impossessò di tutti i suoi arti: quella battuta era troppo succulenta per lasciarsela scappare. Dimentico dei buoni propositi di poco prima, scattò e si tuffò salvando la palla appena un attimo prima che toccasse terra. Rotolò su sé stesso un paio di volte – dopotutto aveva preso fin troppa rincorsa – prima di riuscire a fermarsi, acquattato per terra a quattro zampe.
«Tutto bene?» Yuu sollevò lo sguardo e vide che il ragazzo alla battuta lo aveva raggiunto, passando sotto la rete per fare più in fretta. Rimase per un attimo imbambolato: aveva pensato che quel ragazzone fosse uno dell’associazione di quartiere del coach ma come se lo trovò di fronte si accorse che dietro quel lieve accenno di barbetta c’era niente più che un liceale.
«Ti sei fatto male?» gli domandò lo sconosciuto porgendogli una mano.
Nishinoya avrebbe voluto replicare che “no, non si era fatto niente”, che “ci voleva ben altro per mandarlo al tappeto” ma doveva ammettere di non essere abituato ad eseguire il suo Rolling Thunder (doppio, in questo caso) senza la protezione delle ginocchiere e delle gomitiere. Invece di rispondere si massaggiò un braccio. Un sorriso, tuttavia, si fece largo sul suo volto mentre incontrava gli occhioni caldi di quel ragazzo.
«Come ti chiami? Quella battuta era una vera bomba! Pazzesca!»
Il volto di quel gigante dall’aria gentile si fece rosso immediatamente: «G-grazie… anche tu. Intendo dire la tua ricezione! Davvero non ti sei fatto male?»
«Sei uno studente nuovo? Pensavi di iscriverti al club di volley? Se tutte le tue battute e schiacciate sono così in squadra avremmo davvero bisogno di uno come te!»
«Oh, no, cioè sì.» Nell’imbarazzo generale, decise di schiarirsi la voce. «Sono uno studente della sede distaccata. Sono qui con due miei amici: il nostro consulente di facoltà è riuscito ad organizzare un pomeriggio di allenamento qui perché noi non abbiamo abbastanza iscritti per formare un vero club né per allenarci come si deve…»
Nishinoya rimase sbigottito: «Dici sul serio? Venite qui allora! Fatti trasferire qui!»
Il gigante ridacchiò imbarazzato mentre una mano volava alla nuca in un gesto nervoso. «Mi chiamo Azumane Asahi, comunque.»
«Nishinoya Yuu.»
Si strinsero la mano e fu in quel momento che Asahi vide un piccolo corvetto violaceo poco sotto il gomito del ragazzino.
Fu in quel momento che il cuore dell’aspirante asso perse un battito.
 
*
 
Asahi respirò profondamente e tentò di concentrarsi. L’alzata che gli aveva appena fatto quel primino dai capelli neri era assolutamente perfetta: poteva schiacciare nel modo che gli era più congeniale. Prese la rincorsa e saltò per l’ennesima volta.
E per l’ennesima volta un muro gli sbarrò la strada, bloccandogli la vista al di là della rete. Ormai aveva perso il conto di quante volte era stato murato.
Mentre Tsukishima, dall’altra parte della rete, si massaggiava le mani ormai arrossate, la voce di Daichi tentò di rincuorarlo: «Non preoccuparti: la prossima andrà a segno!»
La prossima…
Era da quando avevano iniziato quella partita di allenamento che continuava a ripeterselo: “La prossima! Quando riceverò la prossima alzata sarò concentrato”.
E regolarmente il suo sguardo finiva per indugiare sul ragazzino dall’altra parte della rete.
Lo guardava e pensava a quanto quei lividi sembrassero più grandi sulle sue braccia sottili ed esili di quanto non lo fossero sulle proprie. Lo guardava e aveva paura che potessero spezzarsi da un momento all’altro.
Lo guardava e, ripensando a tutte le volte che aveva accarezzato i propri lividi, provava un irrefrenabile desiderio di medicare anche i suoi.
Lo stava ancora guardando quando la voce di Kageyama lo richiamò all’attenzione regalandogli un’altra alzata. Partì e saltò in ritardo e, di conseguenza, il muro irreprensibile di Tsukishima gli sbarrò la strada.
«È meglio se faccio una pausa» dichiarò sospirando.
Doveva schiarirsi e fare ordine fra le proprie idee prima che la partita finisse.
Insomma, come ci si comporta quando si incontra la propria anima gemella? Nishinoya, dal canto suo, non sembrava essersi accorto di nulla: avrebbe dovuto dirglielo o lasciare che se ne rendesse conto in autonomia?
Come avrebbe dovuto reagire? In primo luogo, avrebbe dovuto cercare di calmare i battiti del proprio cuore e il leggero tremore impossessatosi delle proprie membra. Secondariamente, avrebbe…
«Perché?» Nishinoya lo interpellò appendendosi con le mani alla rete.
«La squadra sta perdendo per colpa mia: forse è meglio se…»
«CHE COSA?! Ma che razza di pensiero è! Sei l’asso: come farebbe la squadra senza di te? Devi solo chiamare l’alzata!»
Asahi sorrise – davanti a quegli occhi che lo guardavano brillando come stelle non riuscì a fare altro – ma con aria leggermente sconsolata: «Anche se lo facessi, probabilmente non farei punto.»
Il braccino di Nishinoya attraversò uno dei buchi della rete e agguantò la maglia di Asahi, strattonandolo: «Non lo sai finché non ci provi! Non hai il diritto di arrenderti su una palla che viene difesa! Tu sei l’asso
«Sei severo, Nishinoya…» lo rimproverò bonariamente Tanaka.
«Non importa quante schiacciate vengono respinte: non potrei mai darti la colpa!» Noya sembrò non accorgersi nemmeno dell’amico che gli aveva appoggiato una mano sulla spalla e tenne gli occhi puntati su Asahi. «Ciò che ti occorre è un guardiano affidabile alle spalle! L’asso ha bisogno del suo libero!»
 
*
 
Tanaka porse a Nishinoya una borraccia: «Si può sapere che ti è preso?»
«Non perdono le rese egoistiche, lo sai.»
«“Chiama ancora l’alzata, asso”! “Sarò il tuo libero”!»
«Sta’ zitto Ryuu!» esclamò il difensore, improvvisamente imbarazzato.
Non-non aveva detto esattamente così, vero? Sì, beh, concettualmente era vero che ad un asso occorreva un libero ma… non era stato così esplicito, vero?
La verità è che non aveva idea di cosa gli fosse preso.
Doveva essere colpa dei capelli. Le ragazze con i capelli lunghi gli erano sempre piaciute. Eppure, quando aveva visto Asahi-san saltare e il suo chignon sciogliersi facendo svolazzare quelle lunghe ciocche castane al vento aveva sentito il proprio stomaco fare una capriola. Per non parlare di quel suo viso morbido. Lo aveva colto a occhieggiarlo, durante quella prima partita, sempre a metà tra il premuroso e il preoccupato.
Nishinoya non riusciva a scrollarsi di dosso quegli sguardi, e ora non riusciva nemmeno a staccare i propri occhi dallo schiacciatore. Si era sfilato la felpa e, ora, si stava legando nuovamente i capelli.
Il libero abbassò lo sguardo sulle proprie braccia: se paragonate a quelle di Asahi-san, le sue apparivano come dei ramoscelli.
Osservandole corrugò la fronte. Contò le imperfezioni che gli macchiavano la pelle, tinteggiandola di giallo, rosso e viola e poi cercò nuovamente Asahi.
«Ryuu!» esclamò. «Tu non hai mica un amico che frequenta il liceo Nekoma a Tokyo?»
«Yamamoto? Sì, perché?»
Gli era appena tornata in mente una conversazione avvenuta con Tanaka qualche mese prima in cui gli aveva raccontato di quanto riferitogli da questo Yamamoto durante una telefonata: a quanto pareva, il libero della sua squadra – un libero davvero eccellente, a giudicare dai racconti, e che Noya aveva una gran voglia di conoscere – aveva trovato la propria anima gemella dopo averle rifilato un poderoso calcio nel sedere in seguito al quale si era dovuto massaggiare le natiche, a sua volta doloranti.
Non ci aveva mai pensato: possibile che fosse lo stesso per lui?
Si sfiorò il palmo della mano destra.
Fu in quel momento che il cuore del libero perse un battito.
 
*
 
Il pomeriggio era passato fin troppo rapidamente e quella era stata la migliore sessione di allenamento da mesi a quella parte. Fortunatamente il sensei Takeda si era già accordato con il coach Ukai per organizzare un nuovo allenamento di gruppo, forse nella loro sede distaccata, questa volta.
Sugawara e Daichi erano già saliti in macchina con il professore e, allacciatisi la cintura, erano pronti a tornare a casa. Mancava giusto Shimizu: si domandò se non fosse stata trattenuta da qualcuno, dopotutto il suo fascino mieteva vittime ovunque.
Asahi tergiversò e, salutando Tsukishima, cercò di prendere tempo complimentandosi con lui più del necessario in merito ai suoi ottimi muri a lettura.
Voleva salutarlo per ultimo: voleva potergli dedicare il giusto tempo. Avrebbe voluto che la situazione fosse diversa, che i suoi migliori amici non fossero stati già in macchina con le orecchie tese tanto per dirne una: quello che avrebbe voluto fargli era un discorso delicato e che non meritava un pubblico ma solo un’anima.
Aveva appena deposto il borsone, ancora aperto, nel baule quando si sentì chiamare: «Asahi-san!»
Sentì il cuore palpitargli fino in gola.
Come iniziare? Come intavolare la conversazione? A buon intenditore bastano poche parole ma trovare quelle giuste in così poco tempo era davvero un’impresa.
«Asahi-san», ripeté il più giovane stringendo i pugni. «Io sono impaziente e impulsivo e solitamente non penso alle conseguenze di quello che dico prima di aprire bocca.»
«Nishi…»
«Dietro ogni paura c’è un’esperienza sprecata!» esclamò. «Devi continuare a giocare! Non ti devi arrendere!» Mordendosi le labbra abbassò lo sguardo e cercò di nascondere il rossore delle proprie guance: «Se lo farai, lo saprò.»
Asahi schiuse le labbra: a buon intenditore bastano davvero poche parole.
Aveva creduto a lungo che l’anima gemella fosse per definizione una persona a lui simile. Ma Noya, invece, era il suo specchio e nonostante questo il riflesso che restituiva combaciava perfettamente con lui.
Le sue mani, ora che Asahi le prendeva per impedirgli di scappare – quindi anche uno così sicuro di sé sapeva essere timido – erano piccole rispetto alle proprie ma nascondevano una forza capace di abbattere qualsiasi muro gli si parasse davanti.
Ora che si stringevano le mani, con uno sguardo consapevole e imbarazzato, Asahi non sapeva più riconoscere dove finisse la propria anima e dove iniziasse quella di Yuu.
Pervaso da qualcosa che non avrebbe saputo definire – forse affinità, amicizia… che fosse già amore? Era davvero così straordinaria l’emozione suscitata dall’incontro con la propria metà? – fece scivolare le dita lungo il suo braccio.
«Il tuo compito è tenere insieme le cose. Mi dispiace, ho un cuore di vetro: potrei essere snervante.» Frugò rapidamente nel proprio borsone. «Il mio sarà quello di aver cura di te.»
E, con delicatezza, gli strinse la propria ginocchiera all’altezza del gomito, dove si fermò ad accarezzare il piumaggio di quel piccolo corvo violaceo al quale aveva appena trovato un nido.
 
 

 
 
 
*nella “scheda personaggio” di Tanaka, come preoccupazione recente c’è riportato: “aver fatto piangere una studentessa del primo anno che si era persa dentro la scuola e che gli aveva chiesto indicazioni”. Inoltre il melonpan è segnato come uno dei suoi cibi preferiti.
 
**i nikuman sono, sostanzialmente, dei ravioli al vapore (nel volume 2 del manga c’è un panel in cui si vede Hinata che se ne ficca uno intero in bocca).
 
***la frase “Il volley maschile non è da club” è ripresa da quello che nel manga/anime il preside dice a Hinata quando era alle medie. Allo stesso modo la frase “Il mio compito è tenere insieme le cose” è una citazione di Nishinoya direttamente dall’anime.
 


Angolino autrice:
Buona sera a tutti!
La mia prima SoulmateAU! Prima di ogni altra cosa, ci tengo a ringraziare Pampa per aver indetto un contest incentrato esattamente su questa tipologia di storia: era da una vita che volevo provare a scriverne una e finalmente ho trovato l’occasione giusta!
Il prompt utilizzato è quello che vede i due membri della coppia subire le medesime ferite. Senza voler scendere nell’angst, al posto di far provare effettivo dolore ad entrambi, ho pensato di far provare semplicemente un fastidio pruriginoso nel momento in cui quelle ferite vengono a formarsi.
E sì, Leila, legati a questo prompt fanno una comparsata anche i miei cari YakuLev! XD Perché calzavano troppo bene per non inserirli! E perché, come sempre, meritano un po’ più di spazio nel mare magnum delle ship di Haikyuu!
Non voglio trattenervi oltre, anche perché di per sé la storia è più lunga del mio solito ^^
Per cui passo a ringraziare chiunque sia arrivato a leggere fino a qui! ♥
Un grazie in particolare sempre a Leila e anche a Spirit734 per l’interesse, la curiosità, l’entusiasmo e la fiducia mostratami ♥♥ Grazie davvero!
A presto!
Carmaux
  
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