Arthur non aveva mai visto il signor Poirot così cupo. Schiacciato dalla normalità di tutti i giorni, ci fosse stato il sole ad accarezzare le sue amate zucchine, oppure una pioggia sferzante a battere sul tettuccio del tassì. Neanche un tè a discorrere di come gli andasse nella pampa o una delle rappresentazioni teatrali dei gialli di miss Oliver riusciva più a rasserenarlo, e Hastings aveva iniziato a preoccuparsi.

Era dal giorno in cui scese in quella stazione di campagna, emozionato per quella sospirata riunione col suo amico fraterno, che il capitano Arthur Hastings aveva percepito ci fosse qualcosa di strano. E lui non aveva mai creduto negli spiriti, o nei messaggi dell’aldilà. Non più di tanto, almeno. C’era sempre Poirot a confutare quelle sciocche superstizioni, d’altra parte.

Ma Poirot non s’era presentato in stazione, e la loro riunione s’era rimandata a quando Hastings poggiò piede sul sentiero acciottolato della sua casetta in mezzo al verde. Poirot s’era scusato, ovviamente, e aveva badato a metter su tè e biscotti, ma Arthur non lo aveva mai visto con sguardo così infossato, e non era certo a causa dell’età. Era successo qualcosa, durante il suo ultimo viaggio, qualcosa di terribile – e sì che aveva pur letto sui giornali che l’assassino era fuggito, che nessun altro fosse stato ferito, non Poirot, soprattutto.

Hastings non gli chiese mai nulla dell’Orient Express. Gli bastò esser tornato a prendere il tè con lui, anche in quel silenzio così pesante. S’era come scucita una parte dal suo caro amico, quella capace di ritrovare il sorriso dopo le avversità, e per quanto gli volesse bene, al capitano Hastings pesava di più la consapevolezza di non esser lui in grado di riunirla a quanto era rimasto del suo animo.