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Autore: curlyjohnlock    14/03/2022    1 recensioni
John ha promesso a Sherlock che non avrebbe mai dimenticato un giorno molto speciale, ovvero il giorno del loro matrimonio. Ma il fato ha in serbo altri progetti.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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I personaggi che appaiono in questo racconto non mi appartengono in alcun modo. Sono di proprietà di Sir Arthur Conan Doyle, Mark Gatiss, Steven Moffat e della BBC.
L'unico mio diletto è quello di tormentarli e fargli passare delle brutte giornate. Questo racconto non ha scopo di lucro, se dovesse ricordarne altri, mi scuso in anticipo, ma sarebbe accidentale.

 

Questa fanfiction è ispirata a questo post
Mille scuse a chiunque si sentirà offeso da questa storia.

 

«La prima volta che ti ho visto, ho capito che c’era qualcosa in te di cui avevo davvero bisogno»

Il dottor John Watson si portò timidamente una mano alla bocca, cercando di contenere l’emozione.

Stava finalmente sposando l’amore della sua vita. La sua luce in fondo al tunnel, il suo salvatore, la sua anima gemella.

«Poi ho capito che non era qualcosa di te. Avevo bisogno di avere te nella vita»

 

Una ventata di aria fresca provocò il frusciare dei fiori di ciliegio, i quali circondavano in cerchio l’altare su cui si stava celebrando il matrimonio.

Era stata Mrs Hudson a scegliere la location. Sherlock Holmes, non appena la vide, si lamentò del fatto che fosse tutto così rosa, ma John lo zittì dandogli un bacio sulla bocca.

 

Mrs Hudson, in prima fila, cominciò a piangere in modo sommesso, cercando poi di asciugarsi delicatamente gli occhi, cercando, comunque, di prestare attenzione a non rovinare il trucco.

Sherlock sorrise, stringendo le mani di John tra le sue. Erano davvero fredde, sebbene fossero alle porte dell’estate.

 

Sherlock fissò John negli occhi. «Abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto per sei lunghissimi anni. Sono stati 6 folli e meravigliosi anni, molti dei quali passati ad inseguire pericolosi criminali, a guardare le stelle, a cercare di raggiungere la fine di un arcobaleno...» Sherlock si prese una pausa.

«Ed ora eccoci qui, stiamo celebrando il nostro matrimonio» l’uomo fece un’altra pausa, socchiudendo gli occhi.

Poi si rivolse agli invitati dinanzi a loro.

«In una precedente occasione che non sto qui a raccontare, dichiarai che non mi sarei mai sposato, in quanto non vi è nulla di speciale riguardo il matrimonio. L’amore non è altro che l’opposto di ciò che è razionale»

 

Si udì un mormorio di sottofondo, seguito da John che cercava di contenere un sospiro.

«Il matrimonio è una mera falsità. Come tutte le emozioni, d’altronde. Ecco il motivo per cui io me ne distacco. Solo gli imbecilli sono capaci di provare delle emozioni, qualunque esse siano»

Sherlock si interruppe per tornare a guardare John, il quale stava disperatamente cercando di farlo smettere di parlare.

Mrs Hudson aveva preso a rimproverarlo un po’ troppo ad alta voce, ancora scombussolata dal pianto.

 

John decise che era arrivato il momento di andare avanti con la cerimonia.

«Ma comunque…» mormorò John, schiarendosi la gola e facendo un passo verso Sherlock. «Le persone possono cambiare opinione, Sherlock. Trovare qualcuno a cui donarci totalmente è il più bel regalo che la vita possa farci» continuò, stringendogli poi il braccio destro. 

Sherlock si lasciò sfuggire un gemito e riprese a parlare.

«Quello che volevo finire di dire è che io sono l’individuo peggiore che una persona possa avere la sventura di incontrare»

John gli rivolse uno sguardo spaventato.

«Ma grazie a te, John, ho imparato ad essere un uomo migliore»

 

I presenti ripresero a mormorare, Mrs Hudson a singhiozzare.

«…e ti prometto che non ti lascerò andare mai più. Sarò con te, in salute e in malattia, ed ho un’intera vita davanti per dimostrartelo. Finché morte non ci separi»

Gli occhi di John si riempirono di lacrime e le sue mani si strinsero maggiormente al suo braccio.

Sherlock diede una rapida occhiata agli invitati: la maggior parte di essi erano parenti e conoscenti di John, e la quasi totalità stava cercando di contenersi dal piangere.

 

Il prete, che aveva osservato senza emettere alcun suono, riprese a parlare.

«In virtù dei poteri conferitimi, io vi dichiaro…»

Sherlock ruotò il corpo di John verso di sé e, tirandolo per la cravatta, lo baciò appassionatamente.

Tutti gli invitati iniziarono ad applaudire e gridare felici, mentre si poteva udire distintamente Mrs Hudson gemere: «Per l’amor di Dio, Sherlock, non ha aspettato che il prete terminasse il rito!»

Sherlock ignorò la vecchia signora, facendo una cosa ancora più scandalosa della precedente: fece volteggiare John e, tenendo la sua schiena stretta tra le sue braccia, prese ad amoreggiare con lui.

Come i due si staccarono l’uno dall'altro, Sherlock realizzò che l’ispettore li aveva filmati con il suo cellulare.

Oh, queste dannate tradizioni matrimoniali.

 

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«Non dimenticherò mai il giorno in cui ci siamo sposati»

«Parli sul serio, John?»

«Parlo sul serio, Sherlock» John alzò lo sguardo dal suo giornale ed avvicinò il volto a quello di Sherlock, strofinando il suo naso con il suo. 

«Anzi… lo giuro» mormorò a bassa voce. John socchiuse gli occhi e baciò Sherlock sulle labbra.

Solo una mente superiore sapeva quanto Sherlock amasse quell’uomo.  

Sherlock avrebbe fatto qualunque cosa per lui, persino uccidere.

Beh, diciamo che quest’ultima cosa era già accaduta davvero. Ma si sarebbe venduto anche l’anima, sebbene credesse non esistesse, pur di vederlo felice.

 

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Era il decimo compleanno di Rosie, e Greg era appena tornato dalla pasticceria con una torta.

Approfittando del fatto che Sherlock fosse in cucina, John poggiò l'involucro della torta sul tavolo del salotto e lo aprì, spinto dalla curiosità di vedere quali decorazioni avesse scelto. Non si era reso conto, però, che Sherlock era appena tornato e che gli aveva appena spinto la faccia nella torta.

John prese a gridare come un bambino che fa i capricci, la faccia completamente ricoperta da glassa bianca e nera.

Sherlock cercò con tutto sé stesso di reprimere una risata. 

«Non sapevo fossi un clown, John!» continuò a ridere, cercando di non cadere per terra.

John ringhiò e, con l'eleganza di un ippopotamo, si diresse lentamente nella direzione di suo marito.

Sherlock sapeva di averlo fatto davvero arrabbiare.

 

Sherlock cercò con lo sguardo il suo telefono, mentre arretrava verso il divano. «Resta così che devo scattarti una foto» 

Sherlock si allungò sul divano e prese il cellulare da sotto un cuscino.

John ringhiò ancora di più, lanciandosi poi su Sherlock e scaraventando entrambi contro lo schienale.

Poi su sopra di lui e gli strinse le mani attorno alla collottola della camicia, ma Sherlock fu più veloce e si gettò per terra, iniziando a scattargli una serie di foto. 

 

«BECCATO!» gridò, continuando a scattargli foto più o meno messe a fuoco.

«Ascoltami bene, coglione» John fece un rumore con la mascella e si tolse parte della glassa dal viso. 

«Giuro che se mostri quella fottutissima foto ad anima viva, io ti ucciderò»

Sherlock perse l’equilibrio e cadde metà per terra, metà sul divano. «Ma davvero?» chiese, con voce quasi maliziosa.

«Ti ucciderò» ripetè John, gracchiante.

«Non posso morire, John. Ti ho già detto che sono indistruttibile»

 

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Quella mattina, Sherlock aveva avuto la malsana idea di affidare a John una parte di caso, il quale consisteva nel pedinare un paio di spacciatori. Lui gli avrebbe coperto le spalle.

Si trattava di una sciocchezza, in confronto a ciò che avevano dovuto affrontare in passato. 

Se solo John non ne fosse uscito con un trauma cranico e se Sherlock non si fosse incrinato due costole. 

Vista la gravità della situazione, Sherlock realizzò che forse avrebbe dovuto accettare casi meno pericolosi.

John finì in terapia intensiva per una settimana, per poi trascorrere due mesi in ospedale.

Sherlock rimase in ospedale per un paio di giorni, poi venne mandato a casa, con la promessa che si sarebbe riposato.

 

Durante quel periodo terribile, Greg trascorreva metà della sue giornate dietro loro due, dividendosi tra Sherlock, giusto per assicurarsi che non andasse in giro ad inseguire criminali ed usare droghe, e tra John, per mantenere Sherlock aggiornato sulle sue condizioni di salute.

Alcune volte Greg lo accompagnava in ospedale e Sherlock passava le notti seduto accanto a John, sperando che si risvegliasse.

 

Altre volte si ritrovava a nascondere il violino dalla vista dell'infermiere, perché credevano che non facesse altro che disturbarlo e rallentare il processo di guarigione. 

 

Ci volle parecchio tempo perché John recuperasse. Poi iniziò a mettere su peso.

 

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Un altro anno, un altro caso. 

Sherlock aveva perso la sua energia giovanile e si rese conto che non poteva più condurre esperimenti pericolosi e correre dietro ai criminali.

 

Aveva anche totalmente rimosso la promessa fatta a sé stesso ed accettò questo nuovo caso, questa volta da parte di suo fratello Mycroft. Si trattava sempre della Famiglia Reale.

Anche questa volta, John fu quello che ne uscì peggio. 

Entrambi i femori rotti e Sherlock si era beccato una sgridata bestiale da Greg.

 

L’ortopedico di John aveva detto che sarebbe dovuto restare in ospedale per circa sei, se non addirittura sette mesi. 

John non ne fu affatto contento. Era così furioso con il suo collega che sembrava avrebbe dato fuoco all’intero edificio.

 

Dopo questa lunga degenza in ospedale post intervento, John si sarebbe dovuto trasferire in una clinica riabilitativa per riabituarsi a camminare o, semplicemente, restare in piedi senza l’aiuto di nessuno. 

Il trauma cranico era tornato a farsi sentire. John aveva insistito per restare al 221B per tutta la durata della convalescenza.

Grazie all’aiuto di Mycroft che, apparentemente, contava ancora qualcosa nel governo, sebbene fosse già in pensione da anni, e, grazie a qualche altra minaccia riguardo un ‘accidentale ritrovamento di contenuto sensibile sull'hard-disk di chirurghi, infermieri ed ortopedici coinvolti', la richiesta di John venne accettata.

 

Era sempre stato John a preparare la cena, ma dal momento che non poteva muoversi più liberamente, Sherlock aveva dovuto ingegnarsi nel preparare pasti decenti al suo povero marito.

La maggior parte delle volte finiva per ordinare cibo online.

Alcune volte si limitava a chiamare Mrs Hudson al piano di sotto.

John aveva bisogno di mangiare cibo commestibile e sano, di certo non qualcosa di bruciato che qualcuno aveva dimenticato nel forno.

Dato che la padrona di casa non rispondeva, Sherlock si ricordava che la povera donna era morta da ben 18 anni.

Era rimasta in vita giusto in tempo per realizzare il suo sogno: vedere i suoi bambini sposarsi. 

Infatti morì esattamente un mese dopo.

 

Sherlock aprì il computer e si mise alla ricerca di siti su cui ordinare. 

 

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John si era rifiutato di andare a fare riabilitazione in una clinica riabilitativa, dal momento che non riusciva nemmeno più a reggersi in piedi senza avere capogiri.

Il letto divenne la sua nuova casa. Ormai erano costretti a dormire separati, John nel letto e Sherlock sul divano, come era solito fare in gioventù.

Erano passati anni dall’ultima volta che avevano avuto una nottata focosa. Non si parlavano nemmeno più. 

Una loro conversazione tipo era: 

«SHERLOCK! DEVO FARE PIPI’» gridava John dalla camera da letto.

«VA BENE, JOHN» gridava Sherlock dal salotto, sbuffando e smettendo di analizzare qualcosa al microscopio.

 

Sherlock non aveva nemmeno potuto partecipare al funerale di suo fratello, dal momento che John aveva bisogno di assistenza continua.

 

Un po’ di giorni dopo, Sherlock entrò in camera per portare del tè a John.

John stava guardando il telegiornale e Sherlock iniziò a lamentarsi del MI5 o del MI6, ammettendo poi che Mycroft, se fosse stato ancora vivo, avrebbe dato loro una bella strigliata d’orecchie.

John gli chiese chi fosse Mycroft, ridendo poi a crepapelle nel scoprire che non si trattava del nome di uno dei loro cani, ma di suo cognato. 

 

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Sherlock non aveva più il tempo e le energie per risolvere casi. E poi non era la stessa cosa senza John. 

Un giorno la TV decise di non funzionare più e Sherlock promise a John che ne avrebbe comprato una nuova.

 

Anni prima, Sherlock  aveva deciso di stampare la foto scattata il giorno del decimo compleanno di Rosie, quella in cui John gli ricordava un clown.

La aveva fatta incorniciare e l’aveva nascosta dalla sua vista. John le avrebbe sicuramente dato fuoco.

 

Era notte fonda e John era mezzo addormentato, ancora con la radio accesa. Sherlock entrò nella stanza, stringendo la cornice. Poi si sedette accanto a John.

«John, ti ricordi di questa foto?» gli chiese, le mani tremanti.

John strinse il quadro mentre indossava gli occhiali.

«Mi somiglia» mormorò, sorridendo lievemente.

«Sei tu, infatti»

John lo fissò e si accigliò lievemente. «Ma io non sono un clown!»

Sherlock fece una pausa. «Ti ricordi cosa era successo quel giorno?»

«No» gemette, grattandosi la testa come lo avesse aiutato a ricordare. «No, non mi ricordo. Magari è stata modificata al computer e vuoi farmi credere che sono io»

Sherlock sospirò senza farsi notare. «Non importa, non è importante» continuò, prendendo il quadro e posandolo su un tavolino lì distante.

 

Sherlock si abbassò per controllare la bombola d’ossigeno di John e gli disse che gliel’avrebbe cambiata.

John lo fissò stancamente e mormorò: «Tu mi ami, Sherlock?»

Sherlock lo guardò meravigliato. Poi gli chiese: «Ricordi il mio giuramento, John?»

John tirò su col naso, poi mormorò un 'No' confuso.

Sherlock alzò le sopracciglia e si morse le labbra.

«Ti amo con tutto il mio cuore, John. Farei qualunque que cosa per te» mormorò, stringendo la bombola.

John sembrò seccato. «Se mi ami, allora perché non mi compri il televisore nuovo?»

«John» Sherlock sospirò. «Mi prendo cura di te 24 ore su 24. Non ho nemmeno più il tempo di fare cose per me stesso. Mi chiami costantemente: adesso hai fame; poi ti scappa la pipì; dopo quindici minuti ti prude il piede e devo venire a grattarlo. NON ho il tempo per comprarti una TV nuova»

John incrociò le braccia e scosse la testa.

«Non ho mai chiesto il tuo aiuto» mormorò, simile ad un ringhio.

«Certo che no, ti dimentichi sempre tutto! Ti ricordi solo che devi vedere la televisione»

 

Dal momento che John lo stava guardando male, Sherlock si limitò a sospirare e fece per cambiargli la bombola.

«Se solo potessi tornare indietro… è stata colpa mia»  mormorò John. Si rimosse gli occhiali dorati e si strofinò le mani sugli occhi.

«Non è stata colpa tua, John» Sherlock era in ginocchio e gli strinse le mani. «Gli incidenti capitano, lo sai meglio di me» Sherlock mise da parte la bombola vuota e gli rimboccò le coperte.

«Non è stato un incidente, Sherlock. Non sarei mai dovuto andare lì quel giorno…»

 

Sherlock fece del suo meglio per ignorarlo, dal momento che John stava dicendo cose senza senso.

Magari si stava riferendo alla guerra, o chissà cos’altro gli stava frullando nella mente.

«Ormai è fatta, John. Fattene una ragione, di qualunque cosa si tratti» Sherlock si mise in piedi e, appoggiandosi ai vari mobili, tornò verso la porta e prese il quadro tra le mani.

«Non avrei mai dovuto sposarti, tantomeno conoscerti» mormorò John, con tono arrabbiato.

Il cuore di Sherlock saltò un battito. Il parquet sotto di lui si frammentò in milioni di pezzi e gli si conficcarono nel cuore.

«Da quando ci siamo sposati, le cose non hanno fatto altro che peggiorare» continuò, aggiustandosi il tubicino sotto il naso.

«…ed eccomi qui, inchiodato in un letto, aspettando di morire»

La mente di Sherlock sembrava essere percorsa da corrente e si sentì morire dentro.

 

Sherlock non commentò. Si portò la mano destra alla fronte e si diresse verso il corridoio.

«Sia maledetto il giorno in cui ti ho sposato, brutto figlio di puttana»

Se avessero fatto a Sherlock un encefalogramma in quel momento, il risultato sarebbe stato piatto. Morte cerebrale.

Sherlock si voltò e si chiuse violentemente la porta alle spalle. 

Raggiunse la casa disabitata di Mrs Hudson il più in fretta che poté, cercando di scacciare dalla mente le terribili parole di John.

Sapeva che quella sarebbe stata una notte pericolosa.

In altri tempi avrebbe chiamato Greg per impedirgli di assumere delle droghe, ma Greg era morto e non c’era più nessuno che potesse impedirgli di fare del male a sé stesso e a John. 

Nemmeno Molly era più disponibile. Probabilmente i nipoti l’avevano fatta trasferire in un ospizio.

 

Sherlock indossò quattro cerotti alla nicotina su entrambe le braccia ed assunse una soluzione al 15% di cocaina.

Il giorno seguente avrebbe pensato alle conseguenze. 

 

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I giorni successivi, John si rifiutò categoricamente di alzarsi dal letto ed iniziò a farsi la pipì addosso.

Oltre ai normali impegni di Sherlock, si aggiunsero anche il cambiare il letto due, se non tre volte al giorno, fare lavatrici continuamente e pulire John dai suoi escrementi.

L’unico momento della giornata in cui John se ne stava tranquillo era quando ascoltava Sherlock suonare il violino.   

Era anche la sua parte preferita della giornata. Avrebbe usato questa nuova informazione contro John.

 

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Ad ogni ora del giorno e della notte, John non faceva altro che urlare il nome di Sherlock.

Quando John arrivava a chiamarlo per la dodicesima volta consecutiva, Sherlock si decideva ad andare da lui per vedere cosa fosse successo.

Una volta lì, John gli chiedeva sempre cose banali come: 'mi prude il naso, grattami'; 'quando arriva la TV nuova?'; 'oggi il cielo è verde, sarà dovuto ad una tempesta di cavallette'; ‘dai un’occhiata a questo dannato dente, mi sta facendo impazzire’; ‘ma mia moglie quando torna? Non la vedo da mesi’

 

Ormai le loro giornate erano diventate tutte uguali.

La mattina doveva trascinare John in bagno per lavarlo, per poi riportarlo a letto e preparargli la colazione.

John lo aveva tormentato così tanto per il televisore che si era deciso a comprarne uno.

Così gli accendeva la TV ogni mattina e sperava di poter dormire un po’. Cinque minuti sarebbero bastati. 

Ma, come scostava le tende del salotto e chiudeva gli occhi, John ricominciava ad assillarlo.

 

«Sherlock»

Sherlock aveva appena chiuso gli occhi. 

«Sherlock» ripeté John, alzando di poco la voce.

Sherlock aggrottò le sopracciglia. Poi dieci secondi di silenzio. 

«Sherlock»

Sherlock strinse la mascella. «Non di nuovo» gemette.

Tre secondi di silenzio.

«SHERLOCK»

Sherlock si mise a sedere, le mani strette tra i ricci.

«SHERLOOCK»

«Cosa vuoi, John?»

«SHERLOOOOOCK!»

Sherlock doveva fare qualcosa, o i vicini avrebbero chiamato la polizia.

Gemette e si alzò dal divano, entrando lentamente nella camera. 

«SHERLOCK» gridò ancora John. Sembrava molto allarmato, come se ci fossero stati dei ladri nella stanza.

«LA COSA CHE PUZZA E’ SCAPPATA DAL MIO PANCINO, FAI PRESTO»

 

Quando poi John si calmava e Sherlock poteva prendersi pochi minuti di pausa, sospirava, rimpiangendo i suoi trent'anni. 

Ma poi John ricominciava di nuovo con la litania.

Indossava i suoi cerotti alla nicotina, prendeva gli antidepressivi e andava da suo marito.

 

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Sherlock aveva telefonato al medico di John.

Il dottore fece loro una visita e disse che sarebbe tornato il giorno dopo, con un neurologo.

A John fu diagnosticata la demenza senile, accompagnata da allucinazioni. 

Durante l'esame, John iniziò a lamentarsi di alcuni oranghi che cercavano di strangolarlo con le sue budella.

A Sherlock venne diagnosticato il Parkinson, in fase iniziale.

Sherlock menzionò il fatto che, solo alcune volte, John non lo riconosceva. 

Il dottore gli disse di aspettarsi qualsiasi cosa da lui. Prescrisse poi delle pillole per entrambi, da prendere tutti i giorni.

 

Non c'era più niente da fare. I due non potevano più vivere da soli.

Sherlock aveva cercato in tutti i modi di assumere una badante, ma John non voleva avere nessuno in casa. 

Rosie si era offerta di aiutarli, dato che aveva trovato un nuovo lavoro e aveva lasciato suo marito da solo in Australia.

 

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Erano le 4 del mattino.

Sherlock stava dormendo da venti minuti, quando John urlò di nuovo il suo nome.

Sherlock andò in camera da letto e gli lanciò un'occhiata confusa. «Smettila di urlare John, sono qui»

John si stava nascondendo sotto le lenzuola e il piumone mentre le sue mani indicavano qualcosa nell'aria.

Sherlock mormorò: «Cosa c’è adesso?»

«VEDI QUESTI DEMONI CHE STANNO GIRONZOLANDO?? VOGLIONO RUBARE LA MIA ANIMA DALLA MIA BOCCA»

Sherlock sospirò. Alcune volte lo odiava.

 

Ed una volta erano i batteri che gli stavano mangiando il cervello, poi gli oranghi che lo soffocavano con le viscere, gli angeli che discutevano del suo strambo taglio di capelli, la sorella morta che voleva rubargli gli occhi. 

Ed ora...i demoni.

 

Ma questa volta c'era qualcosa di diverso: John aveva dei lividi sulle braccia.

Sherlock non credeva nel male, ma decise comunque di aiutare John.

«DICONO CHE LA VOGLIONO, MA DEVO PRIMA LAVARMI I DENTI. IO NON VOGLIO FARLO»

Sherlock si coprì il viso con le mani per alcuni secondi. John continuò ad urlare. 

Era decisamente andato.

«Smettila di urlare, torno subito» disse Sherlock. Si chiuse la porta dietro di sé e salì al piano di sopra per chiedere aiuto a Rosie.

Una volta nella stanza, come John vide sua figlia, iniziò ad urlare di nuovo, dicendo che fosse il Tristo Mietitore mentre le lanciava contro il telecomando. 

 

Sherlock lasciò la stanza con Rosie, rimpiangendo nuovamente la sua gioventù.

Se i vicini non avevano ancora chiamato la polizia, adesso lo avrebbero fatto sicuramente.

Sherlock disse a Rosie di tornare a dormire. Si chiuse in bagno, indossò i cerotti alla nicotina, prese i suoi antidepressivi e tornò nella loro camera da letto.

 

«SHERLOCK, MI STANNO PERSEGUITANDO, AIUTAMI PER FAVOREEEEE»

Sherlock si sedette sul lato sinistro del letto. 

«Stai un po’ zitto, o non ti lasceranno mai in pace» disse, cercando di suonare il più convincente possibile.

John deglutì, gli occhi erano arrossati per via del pianto e la gola era dolorante per le urla. 

Poi appoggiò la testa sul cuscino e cercò di calmarsi.

 

«Perché vogliono rubarti l'anima?»

«Non-non lo so, amico» John deglutì di nuovo, e Sherlock notò che gli mancava la dentiera. 

«Sono venuti qui e mi hanno svegliato. Erano sopra di me e uno di loro ha detto che volevano rubare la mia anima attraverso la mia bocca»

Sherlock lo guardò stancamente, ma divertito.

«Mi hanno chiesto di aprire il più che potevo, ma ho disobbedito e gli ho tirato addosso la mia dentiera»

Sherlock cercò di trattenere una risata, ma gli occhi di John ricominciarono ad allarmarsi.

 

«Un demone è dietro di te» mormorò, la voce un po’ tremante. 

«Lo so, John. Ma non possono farti del male perché ti sto proteggendo con i miei poteri cerebrali»

Ma John non stava ascoltando. Girò la testa sul lato sinistro e indicò qualcosa nel vuoto.

«Uno ha la mia dentiera in mano e sta dicendo che ho la bocca più sporca dell'intero universo» piagnucolò.

Poi rimase in silenzio per circa venti secondi, come se stesse ascoltando una conversazione.

«Adesso dicono che la vogliono rubare dal mio pisellino, PER FAVORE FALLI SMETTEREEEE»

 

John iniziò a urlare e piangere di nuovo.

Sherlock gli diede una pacca sulla testa, realizzando che quella notte non avrebbe più dormito ed andò in bagno.

Aveva bisogno di drogarlo.

Tornò nella stanza. John era mezzo nudo e si stava pizzicando ogni centimetro della pelle.

Sherlock nascose la siringa dietro la schiena e, come John lo vide, iniziò a calmarsi.

Sherlock si sedette accanto a lui e gli mostrò la siringa.

«John, ascoltami» disse, calmo. «I demoni vogliono il tuo sangue, non la tua anima. Adesso prenderò un po’ del tuo sangue, e ti prometto che ti lasceranno in pace. Capisci cosa sto dicendo?»

John annuì e Sherlock lo anestetizzò.

 

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Un episodio simile accadde di nuovo, così, dopo alcune settimane, Sherlock telefonò di nuovo al medico di John.

Il dottore gli chiese di avere pazienza e di continuare a prendere le medicine prescritte.

 

La salute mentale di Sherlock era stata compromessa e si rese conto che non poteva più fare da badante a John.  Nemmeno Rosie poteva farlo. 

 

Quella sera, dopo che Sherlock ebbe fatto mangiare la zuppa a John, egli aprì il cassetto del comodino e consegnò 

a Sherlock un documento.

Disse che aveva finito di scrivere il suo testamento e che il suo notaio sarebbe andato a prenderlo il giorno successivo.

Poi gli proibì severamente di aprirlo e di leggerlo.

 

Sherlock non poteva prenderlo sul serio. Giorni prima si stava lamentando di alcuni gabbiani che gli facevano cacca nelle orecchie, come poteva aver scritto un testamento?

 

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Era di nuovo mattina. Che anno era? 

Chi lo sa, forse per John era ancora il 1993 e la canzone ‘Macarena’ era appena uscita.

Non poteva di certo sapere che fosse il 2041.

 

Come al solito, quella mattina Sherlock aveva preparato il porridge per John. Era una delle poche cose che poteva mangiare, dal momento che la sua dentiera si era rotta, due o tre denti gli facevano male e John non poteva andare dal dentista.

 

Una volta nella stanza, Sherlock aprì le tende. «Buongiorno, marito adorato» cantilenò con voce deprimente.

L'unica cosa che John fece fu urlare, cosa che fece aumentare il tremore delle mani di Sherlock.

«CHI SEI?????? COSA CI FAI IN CASA MIA????»

 

A Sherlock mancò il respiro. La tazza piena di porridge cadde e si ruppe, riversando il contenuto sul parquet.

«J-John, sono io, Sherlock»

«VAI VIA, ADESSO CHIAMO LA POLIZIA» urlò John, alzando ancora di più la voce.

Poi cercò di alzarsi dal letto ma, visto che non poteva, afferrò con la mano destra la dentiera e gliela lanciò addosso.

Sherlock uscì il più velocemente che poté dalla stanza e andò a rintanarsi nella vecchia casa di Mrs Hudson. 

Se ne sarebbe pentito più tardi.

 

Non era possibile che John non lo riconoscesse più, così, da un giorno all’altro. Ma il medico gli aveva detto di aspettarsi qualunque cosa.

Erano capitati degli episodi in cui John era convinto che la Thatcher fosse ancora il Primo Ministro o che non si ricordasse chi fosse Mrs Hudson, ma mai avrebbe pensato che sarebbe capitato anche con lui.

 

Tornò al piano di sopra e decise di chiamare suo fratello.

Mentre componeva il numero, si ricordò che suo fratello e anche l’ispettore erano morti.

Quasi li invidiò. La loro sofferenza era terminata.

Si sedette molto lentamente per terra, la schiena che chiedeva pietà e si abbandonò in un pianto silenzioso e disperato.

Avrebbe pianto forse in eterno, ma Rosie fece ritorno con sua figlia.  

Sherlock si asciugò le lacrime e prese in braccio sua nipote, Sylvia, dandole poi un bacio sulla guancia destra.

Sherlock informò Rosie che John non lo aveva riconosciuto e lei gli disse che se ne sarebbe occupata.

 

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Erano passate settimane. Mesi, forse.

Rosie non poteva entrare nella stanza perché John iniziava ad urlare.

 

John si era abituato alla presenza di quest'uomo sconosciuto di nome Sherlock, il quale viveva in casa sua con lui, anche se continuava a guardarlo con sospetto.

 

Ogni volta che Sherlock doveva tornare in camera da letto, doveva cambiare approccio.

Al mattino, John credeva che Sherlock fosse un ispettore sanitario; al pomeriggio era un caporale e doveva obbedire ciecamente ai suoi ordini; dopo mezz'ora era il suo dentista, venuto a sistemargli quei denti che lo tormentavano da tanto tempo; dopo due ore, Sherlock era il proprietario dell'hotel dove aveva affittato la stanza; durante la cena era il suo vecchio comandante dell'esercito e gli permetteva di dormire nel suo letto.

Il giorno successivo ricominciava tutto di nuovo: Sherlock era il postino, e il giorno dopo, forse, sarebbe tornato ad essere suo marito, in un breve momento di lucidità.

 

Sherlock gli chiese se si ricordava che fossero sposati.

John si accigliò dietro gli occhiali e disse con orgoglio che non era affatto attratto dagli uomini e credeva che lo stesse prendendo in giro.

E Sherlock ogni volta doveva stare al gioco, e controllarsi dal colpirlo in testa.

 

C'erano serate in cui Sherlock si sedeva vicino al camino sulla poltrona di John, l'album delle nozze nelle sue mani con Sylvia seduta dietro di lui, intenta ad avvolgergli i bigodini tra i capelli.

 

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Un pomeriggio, mentre John stava guardando Il Tenente Colombo senza capirci una parola, Sherlock gli portò il pranzo: zuppa di piselli e del formaggio.

 

John si era rifiutato in ogni modo di mangiare, dicendo che la zuppa fosse avvelenata e, una volta morto, Sherlock gli avrebbe mangiato le orecchie, si sarebbe fatto una collana con i suoi denti e avrebbe usato le sue ossa come mestoli da cucina.

Sherlock cercò di convincerlo che non lo avrebbe fatto, con la conseguenza che John si morse le labbra fino a farle sanguinare.

Sherlock sospirò, scuotendo la testa. Posò la ciotola sul comodino ed andò in bagno a prendere altri antidepressivi e pastiglie per la pressione.

 

Tornò dieci minuti dopo.

John adesso era così felice di vederlo, dato che era un suo vecchio amico conosciuto in Afghanistan.

Sherlock pensò che fosse una buona idea trattare John come un bambino di 3 anni: gli mise un bavaglino sul petto ed iniziò a dargli da mangiare.

Ma il Parkinson era peggiorato, la zuppa finì tutta sul pigiama di John e sul parquet.

John iniziò a urlare peggio delle volte precedenti, insultandolo e usando slurs.

 

In quel momento, Sherlock si rese conto che quella cosa non era il John che aveva amato con tutto il cuore.

Gli aveva anche perdonato la notte in cui aveva maledetto il loro matrimonio.

John aveva completamente cambiato personalità, sembrava una persona diversa e decise in quell'istante che era stanco di affrontare tutto questo. Credeva che lo avrebbe ucciso. 

Poi ebbe un'idea migliore: sarebbe scappato lontano, molto lontano, e avrebbe lasciato John al suo amaro destino. 

Lo lasciò con la zuppa di piselli su tutto il pigiama e se ne andò, sbattendo la porta.

 

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Sherlock tornò in quella stanza solo alle 23:00, portando a John delle pasticche e del gelato.

Quando aprì la porta, John stava già dormendo.

Decise di non dargli le pillole ed uscì dalla stanza. A un certo punto John mormorò: «Sherlock... sei tu?»

Sherlock si bloccò. Erano passati 3 mesi dall'ultima volta che John lo aveva riconosciuto. Lo sapeva perché se lo stava segnando sul calendario del telefono.

«Sono io, John» Sherlock si sedette accanto a lui. «Come stai?»

Avrebbe ucciso per riavere il suo John.

John non rispose e sgranò gli occhi. «Sono morto?» chiese, i suoi occhi erano pieni di terrore.

«No, John» Sherlock gli strinse le mani. «Sei ancora qui, sei vivo»

John si accigliò. «Non è possibile, tu sei morto. Ti ho visto morire»

«No, John. Posso assicurarti che sono vivo. E anche tu lo sei»

John scosse la testa, agitato. «Eri sul tetto, stavamo avendo una conversazione su qualcosa... ma poi tu sei…saltato»

Aveva gli occhi pieni di lacrime e iniziò a singhiozzare. Sherlock lo abbracciò e cercò di consolarlo. 

 

Pensò che sarebbe stato meglio per lui non ricordare una cosa del genere.

«Va tutto bene, John. Mi hai già parlato di questo terribile incubo che hai avuto» gli sussurrò all'orecchio.

«Non c'è mai stato un suicidio»

John continuò a singhiozzare. «Questo è l'unico ricordo che ho di te, non era un sogno, era reale» fece una pausa, giusto per prendere fiato. Poi si rintanò nelle sue braccia.

«La tua testa era spiaccicata sul marciapiede, c'era sangue dappertutto... poi ti ho controllato il polso… ma non c'era nessun polso. Eri morto» 

John appoggiò la testa sul petto di Sherlock.

 

Sherlock gli baciò i capelli, poi gli prese il viso tra le mani. «Ti assicuro che era solo un incubo. Sono qui, John» 

«Riesco a sentire il tuo calore» mormorò John.

Sherlock sorride debolmente, gli occhi minacciati dalle lacrime.

Rimasero così per un po’, quando John si addormentò tra le sue braccia.

Sherlock gli appoggiò delicatamente la testa sul cuscino e si stese accanto a lui.

«Ti amo, Sherlock» mormorò John, più addormentato che sveglio.

Sherlock gli sorrise. «Ti amo anche io, John»

Alla fine si addormentò tra le sue braccia.

 

Ma, quella stessa notte, John morì.

Sherlock era al suo fianco. Lo trovò la mattina dopo, non appena si svegliò. 

John aveva gli occhi e la bocca spalancati e stava fissando qualcosa sul soffitto con lo sguardo totalmente assente.

Sherlock realizzò cosa era appena successo. Gli chiuse la bocca e gli occhi, poi gli diede un dolce bacio sulle labbra. «Buona notte, dolce principe» mormorò, allontanandosi poi dal letto ed andando in soggiorno, dove informò Rosie.

 

Fermò un taxi e salì. Aveva bisogno di pensare. Forse essere rinchiuso da qualche parte gli avrebbe fatto bene.

Ora aveva bisogno di fuggire da se stesso. Non poteva vivere senza il suo John.

 

John gli aveva fatto vivere le pene dell’inferno negli ultimi anni, ma non avrebbe mai pensato che sarebbe morto all'età di 70 anni.

Forse non era stato l'Alzheimer ad ucciderlo, ma molto probabilmente fu un infarto, dato che John era molto ingrassato. 

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«Non dimenticherò mai il giorno in cui ci siamo sposati, mai»

«Non essere stupido, John, certo che te lo dimenticherai» rise Sherlock, dandogli un pugno sul braccio.

«No, dico sul serio, Sherlock» John si strinse nelle braccia di Sherlock e si appoggiò sul suo petto. 

«Anche quando avrò novant’anni e sarò rimbambito, non potrei mai dimenticarlo»

Sherlock gli sorrise con affetto, sebbene i suoi occhi fossero colmi di tristezza. 

Poi gli diede un bacio sulla fronte. «Me lo giuri?»

John alzò lo sguardo su di lui, poi socchiuse gli occhi e disse: «Lo giuro solennemente»

 

I due uomini restarono abbracciati sulla panchina del parco per altri minuti, in silenzio.

I capelli biondi di John solleticarono il mento di Sherlock. 

«E se poi ti dimenticherai di me?»

«Non potrei mai dimenticarti, Sherlock, tu mi hai salvato la vita»

Sherlock non rispose.

«Se non ti avessi incontrato quel pomeriggio al St Barts, mi sarei sicuramente sparato in testa appena tornato a casa» continuò John, sospirando.

Sherlock pensò la stessa cosa. Se non avesse incontrato John quel giorno, avrebbe assunto così tanta cocaina che ci sarebbe rimasto secco e Mycroft lo avrebbe trovato morto in qualche magazzino abbandonato.

 

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John era diventato la sua nuova dipendenza, la sua droga.

E adesso che non c’era più, nemmeno lui poteva più vivere. Lui era l’unica cosa che contasse.

 

Quando tornò a casa, stringeva tra le sue mani il testamento di John. Il notaio gli chiese di leggerlo con molta attenzione e con la figlia al suo fianco.

Rosie era ancora sotto shock e Sylvia urlava felice mentre lanciava coriandoli per tutto il pavimento.

Oh, la signora Hudson l'avrebbe amata e si sarebbe unita a lei. E poi avrebbe rimproverato Sherlock per averglielo lasciato fare.

Rosie gli disse che aveva chiamato un'ambulanza e che John era stato portato in ospedale.

Sherlock era terrorizzato all'idea di chiedere in quale ospedale, quando Rosie disse “ Il St Barts”

Di sicuro non avrebbe incontrato John per l’ultima volta nello stesso posto in cui lo aveva conosciuto per prima volta.

 

La sua vita era finita e aveva solo 65 anni.

 

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Più tardi quella notte, mentre Rosie e sua figlia stavano dormendo, Sherlock si sedette accanto al camino e aprì il suo album di nozze:

c'era una foto con entrambi dietro la torta nuziale, che per metà si era rovesciata a terra per colpa di Greg;

Sherlock seduto su una panchina con le mani sotto il mento, mentre John mimava due corna dietro la sua testa;

Sherlock che pizzica il sedere di John; Sherlock che imbocca John con una forchetta piena di torta; 

una Rosie di 4 anni era salita sulle spalle di Sherlock perché voleva giocare a ‘Il Re Leone’;

il primo giorno di scuola di Rosie; una foto del loro primo cane, Nemo, che aveva mangiato l'intera tazza di gelato di John mentre lui era distratto; Sherlock che decolora i capelli di John per poi tingerglieli di viola; John che salva un'ape che era appena atterrata su una cheesecake al miele e vaniglia; John versione clown, con la glassa sul viso;

John mette le antenne di renna sulla testa di Sherlock mentre si baciano.

 

A quel punto hanno smisero di tenerle nell’album perché John si rese conto che potevano semplicemente usare i loro telefoni.

Sherlock rimosse l'ultima foto dall'album, per guardarla più da vicino. Poi si abbandonò al pianto. 

La mattina dopo, Rosie scese al piano di sotto per fare colazione.

Trovò un numero impressionante di fotografie sparse su tutto il tavolo del soggiorno.

Tutti i libri erano stati spostati dagli scaffali ed erano stati sparpagliati sul pavimento. Sherlock era in piedi vicino agli scaffali e stringeva tra le mani un paio di cornici. Erano state occupate da foto di loro due. 

 

Rosie gli chiese se volesse andare con lei in ospedale, ma lui si rifiutò categoricamente.

Non voleva più vedere John e non sarebbe andato nemmeno al funerale.

 

Era passata una settimana e le ceneri di John furono seppellite.

Sherlock trascorse i giorni seguenti seduto sulla poltrona di John, una coperta nera poggiata sulle gambe.

Aveva guardato così tanta televisione che non poteva davvero dire quanto tempo fosse passato.

 

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Quel pomeriggio, Rosie gli chiese di dare un'occhiata al testamento di suo padre.

Sherlock non disse una parola e si limitò a bere un altro sorso di tè. 

Lo avrebbe letto quella notte. Da solo. La solitudine lo aveva sempre protetto. 

No, gli amici ti proteggono” gridò John nella sua testa.

 

La mattina dopo, Rosie scese al piano di sotto tenendo la mano di Sylvia, pronta a portarla a scuola.

Sylvia corse verso suo nonno, scuotendo i suoi riccioli con le sue manine. 

Ma Sherlock non stava davvero dormendo. Aveva pianto tutta la notte. Era così disperato.

Rosie notò che stava stringendo il testamento di suo padre tra le mani. 

Era una lettera, seguita poi dalle sue volontà.

Gliela sfilò delicatamente dalle mani ed iniziò a leggere.

 

All’unico amore della mia vita, Sherlock Holmes” vi era scritto sulla parte frontale.

 

La scrittura era tremolante, ma era ancora leggibile. Era stata inserita la data di cinque mesi prima.

 

“Amore mio, sto scrivendo questa lettera durante, credo, uno dei miei rari momenti di lucidità. Ho l'Alzheimer e le allucinazioni, ma credo che te ne sia accorto.

Sarò anche diventato inutile, è vero, ma sono ancora un medico, 

e li ho riconosciuti dai primi sintomi.

 

Ma, devo ammetterlo: alcune volte non so nemmeno dove sono, chi tu sia e perché non riesco a camminare. 

È una cosa terribile. Ma il peggio deve ancora arrivare. 

 

Una volta ho avuto una visione di demoni. Quanto l'ho odiata. Pensavo mi avresti fatto un lavoretto per farmi stare zitto.

È successo nel giorno del nostro anniversario, due anni fa, te lo ricordi?

Lo so perché mi sto segnando tutto su un diario. È nel mio cassetto del comodino. È tuo ora.

Sei stato così paziente quella notte, mentre cercavi di calmarmi. Grazie.

 

È così stressante passare gli ultimi anni della mia vita in un letto, ma devo ammettere che avevo davvero bisogno di una vacanza a lungo termine dopo aver vissuto una vita così avventurosa.

 

Non ne vado orgoglioso, ma ho bisogno del tuo aiuto. E sono piuttosto esterrefatto che non ti sia ancora arreso. 

Mi metto a sedere nel letto, giorno dopo giorno, a fissare il muro, e a pensare: 

“Perché Sherlock mi sta ancora aiutando? Non sono altro che un vecchio che aspetta di morire”.

 

Ieri stavo pensando al nostro primo appuntamento da Angelo. E, subito dopo, al giorno del nostro matrimonio.

No, Sherlock, non ho dimenticato i nostri voti nuziali e ti prego di perdonarmi per aver maledetto il matrimonio. 

Non dicevo sul serio, ma speravo solamente che mi lasciassi e ricominciassi a vivere. 

Non ho mai voluto essere un peso. Ma, alla fine, sono comunque diventato un peso per te.

 

E non dimenticherò mai il giorno in cui ti ho sposato, brutto imbecille. 

Ti sposerei altre mille volte, ancora e ancora e ancora.

Ho detto queste cose così orribili solo per farmi odiare, ma ho fallito.

Vorrei che potessimo tornare indietro ai bei vecchi tempi, quando correvamo dietro a pericolosi criminali e quando crescevamo la nostra Rosie. Quelli sì che erano tempi meravigliosi.

E il tempo è passato così velocemente… so che la fine è vicina.

Non osare cercare di ammazzarti dopo che me ne sarò andato, o ti perseguiterò per l'eternità.

 

Devi andare avanti, Sherlock. So che sarà terribilmente difficile per te.

Continua a raccontare la nostra storia, hai così tanto da dare. 

Di' al mondo cosa eravamo e cresci nostra nipote.

 

Continuerò a sorvegliare su di te, te lo prometto.

 

Ci vediamo dall'altra parte del cielo, amore mio”

 

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I giorni diventarono settimane, e Sherlock iniziò a mangiare meno di quanto già non facesse. Per fortuna c’era Sylvia a rallegrare un po’ l’atmosfera.

 

Ogni sera, prima di addormentarsi, Sherlock accendeva la tv ed il lettore DVD e si sdraiava nel letto.

Poi faceva partire il filmato del loro matrimonio e lo guardava in loop finché, esaurite le lacrime, non si addormentava, stringendo uno dei vecchi maglioni di John.

 

Solo così poteva rivivere quei momenti, ancora ed ancora, dal momento che John non sarebbe tornato mai più. Finché non arrivò anche il suo momento, a cinquanta giorni dalla morte, e Sherlock poté finalmente ricongiungersi con il suo amato.



 

ANGOLINO AUTRICE :)

Lo so, lo so… adesso mi verrete a dare la caccia. Lo capisco, lo farei anche io se fossi in voi.

Questa idea mi è venuta dopo una giornata terribile. Non sto qui a raccontare i dettagli, già la storia è stata devestante. Non solo per voi che avete scelto di leggerla, ma soprattutto per me. Non so quante volte ho pianto nel scriverla.

COMUNQUE! Dovete sapere che questo non era il finale originale, bensì ho dovuto riscriverlo tre volte prima di trovare quello giusto, HAHAHA. Siete liberi di scrivermi a che finale avevate pensato!

Prometto che la prossima storia sarà allegra. 

Ringrazio chiunque la leggerà, aggiungerà ai preferiti o commenterà! 

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