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Autore: Jamie_Sand    15/03/2022    3 recensioni
Nell’agosto del 2005, la preside McGranitt nota lo strano nome di un nato babbano che doveva iniziare a frequentare la scuola proprio quell’anno. Chiede dunque quindi al suo ex studente Harry Potter di portare lui stesso la lettera di ammissione a casa del bambino. Quando però Harry varca la soglia del cottage in cui vive il piccolo mago, si trova di fronte la copia esatta del suo defunto padrino e una donna che dice che quello non è altro che il figlio di Sirius Black.
Dal prologo:
- Come è possibile…? Lui e Sirius… - Sussurrò Harry, continuando a fissare il ragazzo, senza accorgersi di avere gli occhi pieni di lacrime.
Poi si voltò verso la donna, che teneva in mano una tazza piena di tea. - Sono identici, non è vero? - Chiese, con voce rotta.
- Non capisco. - Disse Harry, sempre più confuso. - Se Sirius avesse avuto una famiglia, addirittura un figlio, tutti noi lo avremmo saputo! -
- È complicato. - Rispose la donna. - Lascia che ti racconti la storia. -
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Potter, Nuovo personaggio, Ordine della Fenice, Sirius Black
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lascia che ti racconti la storia'
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Ciao a tutti. Prima di lasciarvi al primo capitolo volevo fare qualche premessa: questa è la prima volta che scrivo in assoluto, non so neanche se ne sono capace o se vale la pena continuare, quindi sarebbe bello sapere cosa ne pensate o se ci sono cose da migliorare, quindi che ne dite di lasciare qualche recensione? 

Per adesso, buona lettura. 

Jamie Sand


Capitolo 1. 

 

La donna al suo fianco era rigida e fredda. Teneva gli occhi, rivolti verso il soffitto pieno di muffa, fissi e vuoti, su un viso teso. Le labbra erano schiuse e blu, contorte in una smorfia. Probabilmente aveva sofferto, ma la bambina non ci pensò. Pensava invece al fatto che aveva fame. Si guardò intorno; si trovava in cucina, seduta accanto al corpo della donna, che se ne stava stesa tra il tavolo e la sedia con una siringa infilata nel suo braccio sinistro. 

La bambina si sdraiò accanto a lei e la fissò. Aveva i capelli biondi, sparsi sul pavimento come una sorta di aureola, il viso era pallido, gli occhi fissi erano chiari. Non somigliava a sua madre, ma non sapeva nemmeno se somigliasse a suo padre, dato che non lo aveva conosciuto. Si afferrò una ciocca di capelli e la guardò: i suoi erano scuri, crespi e rovinati, le ricadevano sulle spalle in modo disordinato. 

Aveva consumato tutto il cibo che c’era in dispensa e ora, che era già passata più di una settimana e il corpo di sua madre cominciava a marcire lentamente, cominciava a credere che non sarebbe arrivato nessuno ad aiutarla, che sarebbe morta di fame proprio lì, in casa sua, accanto al cadavere della sua mamma. No, non sarebbe arrivato nessuno. 

Si alzò in piedi e barcollò verso la porta. Aveva solo sette anni, ma le era già capitato di uscire da sola, sua madre diceva sempre che era una bambina indipendente. Mise una mano sulla maniglia, ritrovandosi nel giardino per nulla curato di casa sua; in strada non c’era anima viva e il sole aveva preso a brillare nel cielo solo da pochi minuti. Era spuntata l’alba e… 

La ragazza aprì gli occhi all’improvviso e di scatto, come se qualcuno le avesse suonato una tromba nell’orecchio. Si trovava nella stessa casa del sogno, ma era in camera sua, nel suo letto e le pareti non erano più piene di muffa, ma ricoperte di tele dipinte mentre, a terra, tantissimi fogli spiegazzati, colori e pennelli rendevano la stanza molto caotica. Si mise seduta e guardò fuori dalla finestra. Il peggior temporale estivo che avesse mai visto era terminato, ma il vento danzava ancora nell’oscurità della notte, spazzando via le nuvole e mostrando di nuovo il cielo trapunto di stelle e illuminato da uno spicchio di luna. C’era silenzio, sia dentro che fuori quella casa. 

Non aveva mai avuto paura di dormire da sola ma, per un millesimo di secondo, una strana sensazione la prese. Aveva l’impressione che ci fosse qualcuno o qualcosa intento ad aggirarsi tra quelle stante. Uscì silenziosamente dal letto e poi dalla sua camera, ritrovandosi nel bel mezzo del corridoio buio. Guardò a destra e poi a sinistra: dalla cucina proveniva della luce e dei rumori, come se qualcuno stesse frugando in dispensa o nel frigorifero. Prese un respiro profondo e iniziò a camminare lentamente verso quella direzione, il cuore in gola e pronta a fuggire da quella casa più velocemente possibile, finché non raggiunse la soglia. Nascosta tra lo stipite e il muro, si sporse per dare un’occhiata: un uomo vestito di stracci e zuppo di pioggia stava mangiando gli avanzi della sua cena come se non toccasse cibo da un secolo. Era magro, i capelli erano lunghi e neri e sporchi, la sua pelle era pallida e gli occhi infossati. Secondo la ragazza, se i vampiri fossero esistiti sarebbe stato proprio quello l'aspetto che avrebbero avuto. 

Ma non fu il suo aspetto a colpirla, bensì fu la sua espressione, il modo in cui si muoveva, cose se fosse un animale ferito e confuso, come se non capisse realmente dove si trovasse. Sentì nascere nel suo cuore qualcosa di strano, una sorta di compassione; poi prese coraggio e fece un passo in avanti entrando in cucina, ma l’uomo sembrò non notarla. Lo vide prendere l’ultima coscia di pollo e solo allora si voltò verso di lei, sussultando. - Chi sei? - Tuonò, con la voce roca di chi non parlava da un po’. 

Lei sgranò gli occhi e spalancò la bocca. - Chi sono io? Chi sei tu, casomai. Questa è casa mia! - Esclamò, immobile ma meno impaurita di quanto si aspettasse. 

- Io pensavo che fosse vuota… - Disse l’uomo, riponendo la coscia di pollo tutta mangiucchiata di nuovo sul piatto che teneva nell’altra mano. - Scusami. Scusa se ti ho spaventata, non voglio farti del male, te lo assicuro. Me ne vado, non chiamare nessuno…  - 

Lei aggrottò la fronte, guardandolo sorpresa. Anche lei, in passato, aveva avuto così tanta fame da sentire la voglia di intrufolarsi in case altrui in piena notte. - Hai fame? - Gli chiese, facendo un passo nella sua direzione. - Ho fatto dei cupcake, se ti vanno. Vuoi del tea? Così ti scaldi. - 

L’uomo sussultò di meraviglia. Non si ricordava nemmeno l’ultima volta che una persona sconosciuta si fosse rivolta a lui con così tanta gentilezza. - Sì, grazie. - Rispose. 

La guardò raggiungere i fornelli, prendere la teiera e due tazze dalla credenza e poi accendere il gas. Era piuttosto giovane, forse una ventina d’anni, indossava un pigiama estivo dall’aria dismessa, perfettamente in tinta con la casa, talmente vecchia e rovinata da sembrare disabitata. Aveva i capelli castani, mossi, che le arrivavano oltre le spalle e, quando si voltò di nuovo nella sua direzione, lui notò dei profondi occhi scurissimi, quasi neri, un colore disarmante che non aveva mai visto prima. Pensò che fosse carina, ma forse erano i suoi modi a renderla tale. Si muoveva con grazia, il suo viso era rilassato e la sua voce trasmetteva tranquillità.

- Allora… chi sei? - Gli domandò lei, mentre aspettava che l’acqua bollisse. - Come ti chiami? - 

Lui esitò. Era fuggito da Azkaban da meno di un giorno; aveva nuotato nel gelido Mare del Nord ed era approdato sulla riva poco distante da quella casa. Non aveva ancora avuto il modo di leggere un giornale, ma era sicuro che tutto il paese lo stesse cercando. Eppure quella ragazzina non sembrava spaventata, piuttosto gli lanciava sguardi pieni di pietà, come se si trovasse davanti ad un cucciolo spaventato e malconcio. - Mi chiamo Sirius. - Disse alla fine, pentendosene. 

Lei sorrise. - Come la stella! - Esclamò. - I tuoi genitori dovevano volerti davvero tanto bene se ti hanno dato il nome della stella più luminosa del cielo notturno. - 

Anche Sirius sorrise, o almeno ci provò. - No, è che dovevano solo tramandarlo. - Rispose, scrollando le spalla. - E tu come ti chiami? - 

- Hazel. Hazel Rains. - Disse, concentrata a versare il tea nelle due tazze, prima di afferrare due cupcake al cioccolato. - Puoi sederti se vuoi, non avere paura. - Aggiunse, indicando il tavolo. 

Sirius obbedì e poi anche lei lo raggiunse su una delle sedie che circondavano il traballante tavolo di truciolato ricoperto da una tovaglia un po’ rattoppata.

- Il tuo accento… sei scozzese? Siamo in scozia? - Le chiese lui, con urgenza. 

Lei gli mise la tazza e il cupcake davanti, prendendosi tutto il tempo necessario prima di annuire. 

- Dove, precisamente? - Domandò lui, azzannando come un cane quel dolcetto. 

- Circa trenta chilometri da Aberdeen. - Rispose Hazel. - Da dove vieni? Dove stai andando? - 

Sirius pensò di nuovo di mentire, ma poi le parole gli uscirono dalla bocca prima che potesse fermarle. Era troppo tempo che non parlava con un altro essere umano. - Sono di Londra e no, non mi sono perso, devo solo andare a nord, molto a nord. - Disse, nervoso.  

Lei sogghignò. - Sembra l’inizio di un romanzo sul viaggio piuttosto scadente; immagina: uomo inglese di mezza età lascia il suo tranquillo posto fisso e parte per le Highlands della selvaggia Scozia per ritrovare se stesso. - Disse, con aria sognante, facendo un gesto teatrale con le mani. 

Lui aggrottò la fronte. - Mezza età? - Fece, con sdegno. - Non ho nemmeno trentacinque anni. - 

Hazel scrollò le spalle. - Ma che ci vai a fare a nord? Non c’è niente lì. - Rimbeccò. 

- Devo vedere un amico. - Buttò lì Sirius. 

Ci fu un lungo attimo di silenzio nel quale Sirius si prese altro tempo per osservare la ragazza, che invece teneva gli occhi sul cupcake che teneva in mano, come se ci vedesse qualcosa di molto interessante. Proprio come la casa, anche lei era piuttosto particolare: aveva le mani piccole e sporche di pittura, non sembrava una di quelle ragazze che perdeva molto del suo tempo davanti allo specchio, anzi, era sicuro che non si specchiasse quasi mai, altrimenti si sarebbe resa conto di avere della pittura anche sulla fronte. Forse era un’artista o magari una maestra di asilo, comunque era certo che avesse molto a che fare con i colori e i pennelli. 

Sembrava così ingenua, ma lui non riusciva proprio a stare tranquillo. Se ne stava lì, seduto su quella sedia, teso come una corda di violino, pronto a scappare più lontano possibile.

- Hai ancora fame? - Gli chiese lei, riscuotendolo dai suoi pensieri. 

Lui si affrettò a scuotere la testa. - Sei davvero gentile, ti ringrazio. - Disse, sorpreso. - Grazie, davvero. Solo che adesso devo andare. -

- Oh… va bene. - Rispose Hazel, un po’ dispiaciuta. - Però la prossima volta che hai fame magari non entrare di soppiatto, altrimenti mi prende un colpo. Piuttosto suona il campanello. - 

Sirius si lasciò sfuggire un sorriso. - Va bene. -  Disse. - Scusa ancora se ti ho spaventata. - 

- Figurati, anzi. Ho una vita così noiosa che trovarti nella mia cucina ha rappresentato la cosa più emozionante che mi sia successa negli ultimi dieci anni. - Rispose lei, ridendo. 

   
 
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