When the cat's away (the mouse will play)
Non c’è
molto da dire: anche volendo, Jean non avrebbe comunque saputo trovare grandi
parole per descrivere ciò che succede dentro di sé quando nell’entrare nella
camera di Marco, trova una finestra spalancata e un letto vuoto.
È come se
d’improvviso, tutta quella sinfonia di suoni, odori, ciglia scure che fluttuano
un paio di volte al suo ingresso, e che Jean appunterebbe sotto l’etichetta di ‘familiare’
alla parete delle cose belle, di colpo, cessassero di esistere.
Di colpo svanissero dai suoi pensieri, come se mai ne avessero fatto parte.
La
sensazione, è un po’ come quella che si prova quando scendendo le scale al
buio, dopo l’ultimo gradino non si trova il pavimento come la nostra mente, per
errore, crede di ricordare.
È solo
grazie alla sbadataggine di Lia che non crolla: mai avrebbe immaginato che un
giorno, lo spigolo di un carrello contro una costola gli sarebbe stato tanto
caro.
“Oh—Jean!
Accidenti, Jean!” grida, porta le mani al volto, “Che diamine ci fai qui
impalato sull’orlo della porta?!”
“Do—dov’è
Marco?”
Il grugno di
Lia perde di colpo tensione; con fare da bambina sgrana gli occhi, batte le
palpebre perplessa.
“Non ne sai
niente?”
**
Jean sa che
non è questo il modo di respirare mentre si corre.
Nel sangue
che gli rimbomba nelle orecchie può quasi sentire la voce dell’istruttore Shadis rimproverarlo per ogni singolo passo e ogni singolo
alito sbagliato che guadagna mentre con la bocca spalancata come un cane,
macina a grandi falcate l’intero perimetro della caserma.
Non ha mai
corso in quel modo.
Non lo ha
fatto a Trost quando il suo dispositivo di movimento tridimensionale si ruppe
costringendolo a improvvisare un letale nascondino con quei mastodontici figli
di puttana, e non lo ha fatto neppure quando il corpo di Marco venne quasi
erroneamente impilato tra i cadaveri recuperati dalla strada, strattonato da
qualcuno che urlando, tentava di convincerlo che no, non era un errore.
Ogni
qualvolta fa qualcosa per Marco, Jean spera sempre di farlo meglio; di
batterne il primato personale.
Non sa dire
con esattezza perché, o meglio - pensa ci sia di mezzo sempre lei, quella
vocetta stridula.
Quella piccola, stronza compagna di tante peripezie che di tanto in
tanto si piazza nel suo orecchio e gli suggerisce che se davvero per Marco
avesse fatto tutto così come adesso, se davvero avesse dato tutto il suo meglio
per lui sin dall’inizio, allora forse le cose sarebbero diverse.
Forse
l’odore che più gli richiamerebbe alla mente Marco non sarebbe quello dei
disinfettanti e della canfora; il suono più atteso sarebbe quello della sua
voce allegra che si dà ai canti popolari di Trost dopo tanti, troppi
boccali di birra, non il suo nome sfilettato tra i denti, invocato nella
speranza che possa sollevarlo da un tormento che vede la fine solo in un ago
cavo.
Se avesse
dato sempre il massimo, se solo fosse stato più attento, le ciglia folte che si
piegano al suo ingresso le ritroverebbe anche sull’altro lato del viso,
perfetti per quel volto tempestato da lentiggini sbiadite e (adesso) fili neri
da sutura, e ancora – cosa più importante – con molte probabilità, se fosse
stato meno disattento, adesso non starebbe a domandarsi come cazzo abbia potuto
permettere che finisse lì, a tremare su una panchina bagnata di guazza della
corte interna all’infermeria.
“Marco!” grida, mentre incespica sospingendosi
nell’erba rasa.
Può vederne
il sussulto anche da lontano.
“Marco—!”
chiama ancora, questa volta con meno foga; perché quando si rovescia in
ginocchio ai suoi piedi, lo stesso colore dell’erba lo ritrova sulle sue
labbra, sulle pieghe visibili della fronte bendata, sull’orbita dell’unico
occhio che gli è rimasto; e il terrore che lo domina, sembra farlo davvero:
sembra davvero volergli rimproverare ogni suo ‘non aver saputo fare di
meglio’.
“Jean—” è
solo un fiato privo di alcun suono, ma per Jean è assordante.
“Ehi, ehi –
sono qui,”
Gli sfiora la guancia e la spalla sana; trova in quel tocco mille tracce di
cose che non gli piacciono.
Una di
queste, è quel fremito che sente tra i suoi muscoli in tensione. Lo ha già
visto altre volte, ma è la prima volta che i suoi piedi lividi azzardano
davvero un vano tentativo di rialzarsi.
“Eh? No—no, Marco, non fare così. Stai calmo, è ancora presto per—”
E si sente un po’ uno stronzo, Jean. Dovrebbe fermarsi e domandarsi se mai
Marco abbia immaginato di poter sentire ancora l’erba folta e morbida tra le
dita, i lunghi steli sfiorargli e inumidirgli le caviglie, e invece si ritrova
a premerlo contro lo schienale della panchina, sabotando qualsiasi iniziativa.
“Buono,
Marco—”
Chiude il
suo volto tra le mani, quel che basta per non fargli male.
Forza lo sguardo verso il suo nella scarsa manciata di secondi che gli è
concessa prima che un dolore nuovo torni a fargli visita. Marco trattiene il
respiro: la smorfia con cui stringe il suo viso orribilmente pallido e
orribilmente spaventato dice per lui tutto ciò che c’è da dire.
“Shhh, va tutto bene, shhhhh—”
Non va bene
per niente: ha di nuovo la febbre.
Nella misera giacca ospedaliera che lo fascia, Marco trema come un passero
senza piume e Jean si maledice: qualcuno che non conosce lo ha preso dal suo
letto e lo ha portato lì, in un chiassoso giardino ove un tiepido sole
d’aprile vorrebbe camuffare le brezze del mattino, e lui non era con lui.
Ma non è il caso di ricordarglielo; respirare tra i singhiozzi gli è già
difficile così.
“Va tutto
bene, ci sono io,”
Jean può sentirne gli ansiti sull’addome mentre il suo petto si lacera in
piccoli singhiozzi che né le sue dita sulla nuca, né le sue labbra tra i
capelli riescono davvero a placare.
Evidentemente, anche questa volta non sta facendo del suo meglio.
“Ti sei solo spaventato,” Prova a sorridere, ad allentare un po’ la morsa; lo
fa perché Marco non ha bisogno di vedere le sue unghie conficcate nei palmi o
di sentire le sue idiozie e volgarità strepitate ad un’aria che porta con sé i
profumi di una primavera che ha già combinato abbastanza danni.
“Dio, è
preso un colpo anche a me quando non ti ho trovato in camera, lo sai?”
Si china, indossa la maschera del va-davvero-tutto-bene, cerca di
modellarsela in viso affinché aderisca a quel sorriso affabile e nervoso che si
impone mentre circonda le spalle tremanti di Marco con il suo cappotto (avevano
più o meno la stessa taglia un tempo, com’è che adesso sembra così grande su di
lui?).
“Ma adesso è
tutto a posto, dico sul serio—” minimizza, e si sente subito in colpa.
Le sue lacrime, ormai, ha imparato a conoscerle.
Sa quando le sue guance si imperlano di dolore e quando invece lo fanno di
frustrazione e umiliazione.
Queste che adesso le sue nocche stanno raccogliendo sono certamente le seconde.
O forse un miscuglio letale delle due, sì – è più che sicuro che sia così.
E pretende che le sue stronzate bastino a far sparire la cocente mortificazione
di esser stato portato lì senza aver potuto fare nulla per evitarlo?
Jean
sospira.
‘Tutti gli alti ufficiale e gran parte delle loro squadre sono stati inviati
al castello di Trost, il vecchio quartier generale. Non so cosa siano andati a
fare. A me è stato detto di restare qui e assistere il Dottor Hilbig con i feriti.’, aveva sbuffato Lia.
‘Hilbig? Il caposquadra Dietrich Hilbig?’
‘Proprio
lui. Oggi l’infermeria è sotto la sua supervisione. Ha dato un’occhiata a
Marco, poi lo ha portato in giardino, dicendo che un po’ di sole gli avrebbe
fatto bene. Pensavo lo sapessi…’'
No che non
lo sapeva, perché diavolo avrebbe dovuto saperlo?
(Perché Marco è il ragazzo che ama, ecco perché. Perché è colui alla quale ha
giurato che avrebbe fatto qualunque cosa pur di proteggerlo – gli suggerisce
cantilenando la solita vocina di merda nella sua testa).
“È venuto
qualcuno a portarti le medicine?”
La domanda scivola come scivolano tra le sue dita le ciocche morbide che il
giorno prima gli ha lavato, “Marco?”
La risposta è in quel sospiro misto ad un singhiozzo che gli sente esalare
mentre fissa vago qualcosa di orrendo tra le siepi che si stagliano in
lontananza.
La prende per l’ipotesi peggiore.
“E
l’iniezione? Il Dottor Hilbig ti avrà comunque fatto
l’iniezione prima di portarti qui, no?”
Marco distoglie lo sguardo, chiude la palpebra.
Non parla molto dall’incidente, Jean lo sa già.
Hange dice sempre di dargli tempo, di scoprire insieme altre forme di
comunicazione – ed è quello Jean che fa: il modo in cui gli vede scuotere la
nuca e afferrarsi il volto nell’unica mano che gli è rimasta, è più di quanto
potesse auspicare.
Ed è più di quanto possa sopportare.
L’antidolorifico è uno dei momenti migliori di quei giorni drammaticamente uguali.
Lo è per entrambi, e adesso, nella sua testa non c’è spazio per elaborare nulla
che non sia quanto tutto questo sia terribilmente sbagliato.
“Va bene,”
dice Jean sollevandosi dal bordo della panchina, “Direi che è il caso di
andare,”
Marco
sussulta. Jean si ritrova a fare altrettanto prima ancora di potersi domandare
perché lo abbia fatto.
“Andare
dove?”
Non deve neanche voltarsi più di tanto per vederlo sbucare dal gelso alle loro
spalle: Dietrich Hilbig è sempre stato lì. Sempre
stato seduto sulla panchina opposta alla loro, con il quotidiano sulle gambe ed
un sorriso bonario sul volto rosso.
“Caposquadra
Dietrich”, Jean batte il suo pugno sul torace, rispettoso e imbarazzato come un
babbeo.
È l’unico modo che ha per non pensare a come dei riflessi simili sul campo di
battaglia l’avrebbero spedito all’altro mondo nel giro di pochi istanti, si
racconta.
La mano torna però in fretta sulla spalla di Marco, che vibra ancora, forse più
di prima.
“Jean Kirschtein, giusto?”
“Sì, signore –”
“Ho sentito
parlare di te, e della tua dedizione al tuo compagno—” ripiega accuratamente il
quotidiano, lo lascia cadere sulla panchina con un piccolo tonfo
disinteressato, “so che hai in tutti i sensi barattato la tua incolumità
scegliendo di diventare un soldato della Legione esplorativa affinché il
soldato Bodt ricevesse le cure migliori presso la
nostra infermeria.”
Jean distoglie lo sguardo, arrossisce. È la prima volta che il suono concreto
di un tale gesto si libra nell’aria così, esente da qualsiasi tipo di filtro, o
di favoletta della buonanotte, possa inventarsi per raccontarlo meglio.
“Non
è—andata esattamente così…” balbetta. Lo sguardo basso e le vistose macchie
d’erba e fango sulle ginocchia che nota, non aiutano certo ad infondere
autorevolezza.
“Non essere imbarazzato,
figliolo. Il tuo spirito di sacrificio ti fa onore!” ride l’uomo, avanza con un
paio di passi verso di lui. Si ferma, e Jean lo scruta meglio. Ha la faccia rotonda,
gli occhi affettuosi di un imbonitore.
Il dottore lo fissa un paio di secondi, prima di sollevare una mano verso la
propria fronte come a farsi da scudo contro il sole.
“Oggi è
davvero una splendida giornata,” dice, osservando il cielo terso attraverso le
fessure delle sue dita, “Più che delle porcherie chimiche di quella ciarlatana,
Marco ha bisogno di questo.”
Frastornato,
Jean si guarda intorno.
Guarda le siepi scrupolosamente rifinite, guarda Marco ancorare le dita su un
lembo del cappotto che ha sulle spalle. Guarda Marco tornare a fissare il vuoto
con sguardo atterrito, sguardo che aveva giurato avrebbe lottato affinché non
comparisse mai più suo volto, e cazzo – guarda Marco battere i denti
fuori controllo, guarda Marco ritirare il labbro inferiore tra gli incisivi.
Guarda Marco.
“Non credi
anche tu, Jean?”
Il suo cuore
perde un battito quando il medico invade la distanza di sicurezza che la sua
mente aveva tracciato da sé. Gli manca l’aria quando placido, piazza una mano
sul torace di Marco, un’altra sul lato interno del polso. E Jean lo vede aprire
la bocca come a voler urlare senza riuscire a produrre alcun suono se non un
rantolo all’altezza del petto, e no.
No.
Rimanda
nello stomaco bile che non sapeva neanche di avere in gola. Intimidito, si
avvicina più di quanto non lo sia già, non funziona: anche sentire il vibrare
delle sue spalle contro le gambe non è vicino abbastanza.
“Povero
ragazzo,” l’uomo scuote la testa, sposta una mano sotto al mento rigido,
“chissà cosa diamine ti avrà fatto quella vivisettrice per ridurti in questo
stato.”
“Marco non—” Jean si interrompe. Viene fuori malissimo, deve
proprio fare qualcosa per quel tono da bambino beccato con le mani nella
marmellata. “Marco non ha mai lasciato la sua camera da quando è qui. È per
questo che—”
“È per
questo che sta male, Jean.”
Jean ammutolisce. Corruga la fronte.
“Stare
all’aria aperta stimola e rafforza il sistema immunitario. I benefici
dell’esposizione al sole sono diversi, e lo sono su molteplici fronti: dal
cuore alle ossa, dai muscoli alle infezioni – migliora anche l’umore, sai?”
Sorride. Sorride anche a Marco che invece non sorride affatto.
“Se il soldato Bodt non fosse stato tenuto tutto il
tempo tra quattro mura come un animale, avvelenato da sostanze di dubbia
composizione, a quest’ora sarebbe già sulle sue gambe—” guarda bene, ci
riflette.
“Anzi, forse
sarebbe il caso di provare a starci, su queste gamb—”
“Non—"
Non si
trattiene.
Fanculo l’insubordinazione, è la mano di Marco quella che lo ha arpionato al
petto, lì dove il suo gemito aveva già rotto qualcosa.
Non fa così da tempo. Dai primi giorni, forse. Da quando all’ospedale di Trost
l’unica cosa che erano in grado di fare era fargli provare altro dolore, e poi
altro ancora, e poi ancora, ancora – e dannazione.
Prima che il
caposquadra possa anche solo toccarlo, Jean lo ha già stretto a sé.
Ha già tra le mani il gomito contro cui ha nascosto la fronte, lo ha già
sottratto a qualsiasi cosa possa fargli male.
Questo è quanto si racconta.
“Non credo
sia il caso, caposquadra.”
Ohh,
eccolo, finalmente, il Jean che desidera essere!
“La
caposquadra Hange ha predisposto per lui un piano terapeutico ben preciso, signore”
“Ho visto i
rapporti clinici sul suo conto,” dice il caposquadra, per nulla sorpreso, “lo
ha ridotto ad un autentico topo da laboratorio,”
“È migliorato
molto da quando lo ha in cura, signore” insiste, atono in voce.
C’è un formicolio ai suoi polsi; un punzecchiare molto simile a quello che
sente sul punto del suo ventre dove i mormorii di Marco si affollano, ma forse,
sono solo i suoi pensieri.
“Uhm. Ne sei
certo?”
“Sì, signore”
È profonda, la condiscendenza insita in quel sorriso che si allunga sulle
labbra sottili.
Se il respiro di Marco non si fosse fatto così rapido da rubarne la scena, Jean
lo troverebbe insopportabile.
“La caposquadra Hange Zoë è un’ottima ricercatrice.
Per quanto in certe occasioni possa essere difficile andare d’accordo con lei,
riconosco che i suoi studi sui titani e le sue intuizioni strategiche sul campo
di battaglia hanno spesso portato dei contributi esemplari alla nostra causa,”
si ferma un attimo, sospira compassionevole. “Ma non è un medico.”
Una folata di vento gli scompone i capelli rossi, che in controluce si
illuminano come avesse volutamente lanciato un cerino su della paglia.
“Il
comandante Erwin potrà pure convincersi del contrario e conferirle pieni poteri
sul settore medico scientifico, permetterle di tagliuzzare qua e là i suoi
uomini e usare i fondi del Re per le sue cianfrusaglie, ma la pura verità è
solo questa, ragazzo mio. Hange non è un medico. Ma non sorprenderti.
Del resto, non è la prima volta che Erwin finisce per reclutare i suoi soldati
in modo…stravagante. Ti hanno già detto del capitano Levi?”
A Jean non
importa dove e come il comandante recluti i suoi uomini, né gli importa
qualcosa circa il reclutamento del capitano Levi. È strano anche solo il fatto
che lo abbia pensato.
Lui vuole solo che Marco stia meglio. Che la smetta di tremare e mugugnare
richieste di aiuto ad un mondo in cui non può raggiungerlo.
Abbassa gli
occhi su quella presa che a poco a poco si fa sempre più debole, esita.
“Signore, credo sia meglio portare Marco nella sua camera.”
“È ancora presto”
“Ma—”
“È ancora
presto, ho detto—”
“Signore,
ritengo che—”
“Un’altra
parola al riguardo e temo proprio che finirai nei guai, soldato Kirschtein.”
Non alza la
voce, ma il modo con cui scandisce le sillabe non lascia spazio a nient’altro
che una nuova palla di fiele da deglutire.
“E finire
nei guai da solo è una cosa, ma far finire nei guai anche un povero soldato
ferito…”
Una folata
di vento smuove le chiome dei gelsi e sotto la loro ombra, gli stupidi
lineamenti rosei e le parole arrotondate sul finale rivelano tutta la sfumatura
minacciosa presente sin dall’inizio, ma camuffata da altro.
“Marco—” Jean prende un respiro, si accorge di riuscirci solo per metà. “—Marco non c’entra niente…”
“Lo so che
non c’entra niente, figliolo.” L’uomo torna allegro, il suo volto si rilassa.
“Dico solo che dovremmo smetterla di preoccuparci troppo della caposquadra
Hange, non ti pare?”
“Non sarà
contenta, quando tornerà…” mugugna Jean tra sé e sé, consapevole di star ancora
camminando sul filo dell’irriverenza.
“Sempre
se tornerà.”
Jean
raggrinza la fronte, stringe le spalle confuso.
“Non capisco, perché dovrebbe non tornare?”
“Beh, è pur
sempre in missione. La possibilità di incappare in dei giganti all’interno
delle mura non è più così remota, oggigiorno” gongola divertito, “naturalmente,
stavo solo scherzando”, aggiunge di fronte al suo silenzio ferito.
Il dottore ritorna con pochi passi alla sua panchina dietro al gelso, si china
a recuperare qualcosa, probabilmente il giornale. Solo dopo Jean si accorge che
ne ha una pila con sé, e quelli che gli sta porgendo sono solo un paio tra i
presenti su una mezza colonna puntellata dal muschio.
“Ad ogni modo, perché adesso non ti siedi accanto al tuo amico e non ti rilassi
un po’ anche tu? Da queste parti non capita spesso di poter oziare—”
Qualcosa
sfreccia alle spalle del caposquadra; un passero con qualcosa incastrato nel
becco si posa su di un ramo. Immobile, Jean ne segue distratto i saltelli, i
movimenti incerti.
Il suo silenzio disinnesca lo sguardo del dottore. Quando lo incontra di nuovo,
è ancora quello di un padre che osserva divertito sino a che punto
l’impertinenza di un moccioso possa arrivare, ma è lontano dall’esplodere.
Ha già capito di aver vinto.
E Jean ha già capito che non c’è nulla che possa fare.
Posa la mano
su quella di Marco, prima solo una, poi fa arrivare anche l’altra, e lui
sussulta. Sussulta sempre quando qualcuno muove le mani sul suo corpo, ma
questa volta, lo fa perché il suo sembra davvero un tentativo patetico di
chiedergli scusa in anticipo, lo capisce.
Sconfitto, Jean le allontana riponendole sul grembo. Poi fa il giro e si siede
sulla panchina.
Le anche più vicine possibile al bordo, il fianco più vicino possibile a quello
di Marco.
**
“Caposquadra
Dietrich”
Esce diversa
da come se l’era immaginata; più acuta.
“Marco è
caldo. Mo-molto caldo. Credo abbia la febbre alta.” Questa, pure peggio.
Alle sue spalle, al di là del gelso, Jean sente per l’ennesima volta il fruscio
del giornale che viene messo da parte.
Uno sbuffo si leva dalle narici dell’uomo che silenzioso, li raggiunge in pochi
passi.
Sulla fronte di Marco, la sua mano è enorme. Jean può sentire un lamento morire
contro l’incavo del collo: è l’unico suono che emette da almeno mezz’ora.
Mezz’ora in cui non si è mosso, non ha parlato.
Ha solo accettato passivamente le sue carezze, i suoi sospiri – qualsiasi cosa
abbia voluto fare, lui gliel’avrebbe concessa. La sola consapevolezza di ciò è
sufficiente per far sentire a Jean un ritorno di nausea.
“Va tutto
bene”, sbriciola piano tra i denti, direttamente contro il suo orecchio.
È talmente assurdo dire una cosa simile che anche sentirne il riverbero è
imbarazzante, ma Marco ha bisogno di crederci.
“Non è
febbre,” sancisce il dottore ritirando la mano, “è solo la reazione alla
temperatura esterna. Ci vorrà del tempo prima che il suo corpo torni a
termoregolarsi da solo.”
E
dannazione. Non che ci credesse più di tanto, ma almeno davanti al bollore
della sua fronte, Jean si sarebbe aspettato che qualunque medico sarebbe
capitolato.
Tenta la ripresa.
“Caposquadra Dietrich, la prego di riconsiderare la sua posizione.”
Dannazione.
“Marco ha—ha
la febbre. E sta soffrendo. E—ed ha bisogno delle medicine che oggi non gli
sono state date,”
Il dottore
lo guarda sbigottito, a metà tra l’offeso e il compassionevole.
Scuote la testa, si porta una mano alle tempie.
“Dio, ma cosa vi ha messo in testa quella schizzata?”
“La—la prego.”
Ha davvero qualcosa che gli punge gli occhi? È davvero a quel punto?
Proprio perché a quel punto, il dottore pare rilassarsi.
Sospira, solleva una mano, fa cenno a qualcuno di guardia al portico.
“Ehi—Gerda!”
“Sì, caposquadra Dietrich!” Si affretta la recluta.
“Dì a Lia di
preparare una tisana ai fiori di tiglio per Marco,” ordina, “e magari anche una
camomilla per il nostro Jean, lo vedo un po’ nervoso.” ride, e Jean sente il
volto avvampare.
Forse rosso lo era già da prima, ma è solo ora che lo sente davvero, quasi come
se per tutto il tempo il suo corpo fosse stato preda di una creatura demoniaca
che ne ha attutito per puro caso i sensi.
Ad ogni modo, lui non è nervoso, direbbe. Lui è solo deluso.
Deluso del fatto che a riportarlo in sé sia stata proprio la mano di Marco,
scivolata piano sul suo ginocchio a irradiare ordine e calma. La stessa che, se
fosse un pelino meno dolce, la sua mente avrebbe tradotto in un più meritato ‘lascia
perdere, non fa per te’.
E sì, sente il suo volto avvampare, i denti digrignarsi.
Perché anche in quelle condizioni, Marco riesce a dargli tutto ciò che lui non
è riuscito a dargli mai.
La tisana ai
fiori di tiglio la conosce. Conserva ancora il ricordo dei suoi vapori
appiccicosi sul viso da quella notte in cui, in missione con la squadra del
capitano Levi, cadde da cavallo in preda ad un febbrone mai avuto prima.
Dopo una notte trascorsa ad affogare tra i suoi stessi sudori, la febbre si
abbassò. Non sa dire se per merito di questa, o se al suo arrivo
all’accampamento, oltre ai cavalli di scorta, il vice caposquadra Moblit avesse
portato con sé anche qualcos’altro.
Ad ogni modo, è stupido chiederselo adesso. Jean lo sa e, probabilmente, lo sa
anche Marco.
Che solleva le tempie pulsanti dall’incavo del suo collo quando sente lo
squillante ‘ecco a lei’ di Gerda.
“Te la senti
di berla? Ti aiuterà—” dice Jean, come un perfetto idiota.
Marco annuisce un paio di volte a occhi chiusi. Ingoia qualcosa, come a voler
testare la propria gola prima di iniziare a bere.
La tazza alle labbra la sollevano insieme.
Beve quasi senza accorgersene, in un silenzio con cui Jean ha imparato a venire
a patti, certo – ma quel connubio tra resa e docilità, non aveva mai fatto così
male.
Vuotata la tazza, Marco
affloscia la testa contro il suo costato. Il suo respiro lo fa ondeggiare
adesso come un piccolo lago scosso dal vento.
Jean respira tra i suoi capelli, e geme. "Io non lo so come aiutarti,
Marco—" confessa. “Non ho—assolutamente idea di come fare—”
La mano di Marco, questa volta, rimane sul suo ginocchio
anche più a lungo di prima.
**
“Caposquadra
Hilbig, cosa fa Marco in giardino?”
Nifa è un
dono dal cielo. Jean lo ha sempre pensato (d’accordo, forse non sempre,
ammette tra sé – in fondo, non
sarebbe la protetta di Hange se in certi momenti non ricalcasse i suoi
atteggiamenti)
Tuttavia, non si fa illusioni: sa già che la sua presenza lì non sarà
nulla di salvifico.
Del resto, è
bastato il solo suono della sua voce perché tutti i muscoli di Marco si
irrigidissero, colmi di memorie non facili da elaborare.
“Tu piuttosto, Nifa—”
Dalla sua panchina, Dietrich Hilbig scruta la sua
figura per intero così come scruterebbe un essere ripugnante, qualcosa di
piccolo, di insolente. “Cosa ci fai qui? Non dovresti essere in missione?”
“Le squadre in perlustrazione stanno per fare ritorno, caposquadra Hilbig,” spiega, su di un attenti impeccabile; “Il
comandante Erwin mi ha ordinato di far ritorno in anticipo per assicurarmi che
tutto sia pronto al loro rientro,”
“Bene, è un’ottima notizia, non trovi?”
Anche senza vederlo, Jean può immaginare il modo fastidioso con cui si arriccia
una delle punte dei suoi baffi.
“Signorsì”
“E hai già
svolto il tuo compito?”
“Signorsì. Io e Lia abbiamo già predisposto ogni cosa, caposquadra.”
“Dunque,
avendo finito il tuo lavoro e non avendo niente di meglio da fare, hai pensato
di venire qui ad infastidire il soldato Bodt come al
vostro solito, non è così?”
“No, Signore
La caposquadra Hange mi ha ordinato di assicurarmi che le bende di Marco
venissero cambiate entro le dieci, è questa la ragione per cui sono qui.”
“E adesso
che ore sarebbero?”
“Mezzogiorno
in punto, Signore”
“Oh, è quasi
ora di pranzo.”
Il dottore alza gli occhi al cielo. Sornione, striscia le dita sulla pancia,
lungo la linea dei bottoni smaltati.
Jean tace, legge l’attesa sui tratti di Nifa:
vacilla, ma al contrario suo, lo fa solo per poco.
“Visto
l’evidente ritardo, inviterei Jean ad accomodare Marco in infermeria in modo da
procedere al cambio delle medicazioni, Signore”
Jean sente
un barlume di speranza prendergli vita in petto.
Ha la forma del battito cardiaco di Marco che accelera, del suo respiro che
diventa sempre più sottile, sempre più veloce.
Il medico si alza in piedi, torna al loro cospetto. Jean non solleva neanche il
collo, si limita a far ruzzolare gli occhi verso quella figura dritta e robusta
che copre il sole dai loro volti lasciando freddo sulla pelle.
Lo vede mentre piega all’ingiù gli angoli delle labbra in una smorfia di
sufficienza, prima di avvicinare le mani tozze al cappotto sulle spalle di
Marco e slacciarlo.
“Marco—” la
mano di Jean arriva prima della sua voce, ne preme l’orecchio contro la spalla.
“Shhh—”
Anche sfocato dalla vicinanza, Jean non si perde un istante del terrore sul
volto di Marco quando le mani sgarbate del caposquadra allentano i suoi
indumenti sino a denudarne schiena e torace.
Quando ha finito, la guancia di Marco è di nuovo rigata.
“Uhm—”
inclina la testa di lato, osserva distrattamente le bende, “non mi sembrano
così malandate…” borbotta, strisciando le dita qua e là sulle bende “quand’è
che sono state cambiate l’ultima volta?”
“Ieri sera alle nove, Signore”
Solo ieri
sera alle nove, eppure sembra essere passato un secolo.
Jean ha ancora addosso il ricordo dello sguardo della caposquadra Hange: gli
era piaciuto poco.
Aveva sorriso, certo. Aveva parlato e confortato Marco con il suo solito tono
squillante e premuroso per tutto il tempo della consueta ispezione e
medicazione, ma Jean sentiva che c’era qualcosa: qualcosa che aveva a che fare
con quelle suture arrossate sul torace, forse. O con quei lamenti che Marco a
stento è riuscito a trattenere tra i denti, rifugiando le labbra umide contro
il suo petto per il tutta la durata dell’operazione, Jean non era riuscito a
dirlo.
Solo adesso comincia a sospettare che quella nota di malumore abbia avuto a che
fare non solo con ciò che Hange aveva visto, ma anche con ciò che il giorno
seguente non avrebbe visto.
“E perché
dovremmo cambiarle?”
Il
caposquadra allontana le mani da Marco; per Jean, poterlo ricoprire è già una
vittoria.
“Perché è
quanto previsto dal suo piano terapeutico, caposquadra” risponde Nifa.
“Il piano terapeutico, eh?” dice il dottore, “E chi lo avrebbe formulato questo
‘piano terapeutico’?”
Il caposquadra Dietrich conosce bene la risposta, ma a giudicare dal gusto che
prova nel calcare ogni singola sillaba, di personale in questa vicenda, Jean si
rende conto esserci molto più di quanto possa pensare.
“La
caposquadra Hange, Signore” È la risposta di Nifa,
chiara e serena come il cielo che si apre sulle loro teste, incorniciato dalle
chiome di quegli alberi.
“Appunto.”
Tronfio, il
dottore si volta a destra, poi a sinistra, poi allarga le braccia come a voler
presentare al mondo quanto di grandioso possa vantare nel vuoto tra le sue
linee: “Per caso vedi la caposquadra Hange da qualche parte qui intorno, Nifa?”
“No, Signore”
“Dunque
perché dovremmo sottoporre il soldato Bodt a questo
ulteriore maltrattamento pur di attenerci alle discutibili indicazioni
di qualcuno che non è qui?” sorride divertito sotto le mezzelune dei suoi
occhiali, ed è troppo.
“Perché è
grazie alle sue cure che Marco è scampato alla morte!”
“Modera i
toni, ragazzo, o ti faccio davvero sbattere in gattabuia per una settimana!”
“Jean—”
Nifa china il capo, il suo cenno basta per fargli
capire di aver avuto una pessima idea. Attende di vedere le sue spalle
rilassarsi e le sue mani tornare a stringere le spalle di Marco, prima di
continuare.
“La
caposquadra Hange sarà di ritorno tra non molto, signore.”
“Bene.” Il dottore inclina il capo con un movimento lento, avvicina l’un
l’altro i tacchi sporchi di erba, e volta le spalle, “Allora ne discuteremo
quando sarà tornata. Sei congedata.”
“Sono spiacente, caposquadra.”
C’è dell’innocenza nel modo in cui Nifa scuote la
testa accennando un sorriso. O forse, c’è l’esatto contrario. “Ma ho il preciso
ordine di assicurarmi che le bende del soldato Bodt
vengano cambiate.”
“È
congedata, luogotenente Nifa.” E a giudicare dal suo
tono, il dottor Hilbig sembra afferrare proprio quel contrario.
“Temo non
sia possibile, signore”
“Ti ho detto di andare, Nifa. È un ordine.”
“Con tutto il rispetto, signore, ma io non prendo ordini da lei.”
Per un attimo, il caposquadra Dietrich guarda Nifa
con lo stesso stupore di chi ha appena visto qualcuno tramutarsi un mostruoso
essere luminescente, quasi abbagliante.
E in fondo, non si sbaglia di molto: una folata scuote controvento i capelli di
Nifa come fosse divenuta lei stessa una di quegli
alberi secolari intorno a loro.
“Sei davvero un’insolente—” dice il dottore con calma ostilità, mentre le
pieghe sulla sua fronte si gonfiano, il suo naso si arriccia, gli occhi si
assottigliano attraversati da un disgusto che in breve, infetta ogni angolo del
suo volto.
Jean abbassa lo sguardo verso Marco. Il suo occhio buono è schiuso, osserva di
fronte a sé come se avesse trovato interessante lo scambio tra il caposquadra
Dietrich e Nifa. Poi, arriva una fitta da qualche
parte, e i suoi zigomi si sollevano di nuovo, la palpebra si increspa.
“Jean,” squilla Nifa.
“S—sì.”
Jean sobbalza, sgrana gli occhi. Sente il sangue risalire sul suo volto.
“Riesci a
portare Marco in infermeria?”
“Ce—certo!”
Un moto di entusiasmo prende vita nella sua gola prima di terminare quella
sorta di imbarazzante balbettio.
“Questa è
attività sediziosa, luogotenente Nifa. Io non ho
accordato alcun permesso di portare via il mio paziente,” snocciola il dottore,
e Jean si inventerebbe davvero qualsiasi scusa per non guardarlo in viso in
quel frangente. Quello è il tono calmo e pacato di un ordigno in fase di
deflagrazione: sa bene che qualsiasi cosa, anche un semplice sguardo fuori
posto, potrebbe farlo scattare, e non può permetterselo, non è pronto, si dice.
Non quando è ad un passo così dal portare Marco al riparo.
“Non è
necessario alcun permesso da parte sua, caposquadra. Il soldato Marco Bodt è sotto la diretta responsabilità della caposquadra
Hange Zoë. Io sto eseguendo un suo ordine.”
“Vieni
Marco, ce ne andiamo—” sussurra all’orecchio di Marco, prima che Nifa termini la sua frase.
E c’è come un grosso nodo dentro di sé, a coprire il sollievo che aveva
immaginato esplodergli dentro nel momento in cui avrebbe potuto raccogliere le
gambe di Marco sulle sue ginocchia e imbracciarle; qualcosa che sente crescere
oltre le dimensioni del suo petto quando attento, cerca di ritrovare attraverso
il cappotto i punti del costato di Marco che può ancora toccare.
Jean la conosce quella cosa, quel groppo che gli sale in gola, quegli spilli
dietro gli occhi.
La conosce, e la teme; perché, come gli ricorda la misera vocina interna,
contro di questa, Jean ha sempre perso. Ha sempre fatto schifo.
“V—va tutto
bene, Jean—”
Non sa dire
se quella frase e quella mano fragile sul suo viso si sia piazzata lì prima
della sua resa, o se della resa ne sia proprio la causa. Ad ogni modo, non ha
molta importanza.
Di fronte allo sguardo rabbioso del medico, Jean sfila con schiena dritta e
testa alta come ad una parata. Ricalca sul selciato i passi percorsi da Nifa che sull’attenti, batte il proprio petto anche per
lui; ingoia più lacrime di quante le dita di Marco riescano a portare via.
**
“Da quanto è
così caldo?”
Nifa ha una mano piccolissima; sembra essere fatta
proprio per tastare la fronte di Marco senza fargli male.
Jean ci prova ogni tanto ad emularlo, il tocco di quella manina gentile, ma il
modo in cui il respiro di Marco si blocca in gola ogni volta, gli fa capire che
no, non funziona.
Come tante altre cose.
“Jean?”
“Ah—” si
ricompone, ripassa in mente la domanda: “da quando sono arrivato in giardino,
intorno alle otto…”
L’aria
dell’infermeria è calda e asettica come mai lo era stata prima. Aleggia un tale odore pungente che
Jean non è più in grado di distinguere se è la codardia o le esalazioni di
qualche prodotto igienizzante a farlo lacrimare così malamente.
Anche gli
occhi di Nifa sono arrossati, ma lei non ci bada; lei
sospira mentre sposta la mano dalla fronte al collo di Marco.
“Brucia come
un caminetto acceso, maledizione—” sbriciola tra i denti, prima di srotolare
lesta un paio di coperte di lana addosso a Marco e allontanarsi verso le file
di stipi in legno sul fondo.
Marco non ha
ancora smesso di tremare. Jean si sforza di non pensare che abbia cominciato a
farlo anche più forte da quando è stato adagiato su quel letto che conosce
bene.
Ne sente il riverbero solo perché ha deciso di tenerlo così stretto a sé, si
dice. Solo perché adesso è più lucido, solo perché adesso è più stanco— quanto
a scuse, ha solo l’imbarazzo della scelta.
“Jean—” Marco muove la testa di scatto quando la pezzuola fredda lo bagna. Ah,
diavolo! – l’acqua è filtrata attraverso le bende della fronte, dannazione.
Non l’ha strizzata abbastanza, si rimprovera.
Ma ormai è fatta. Del resto, tra poco Nifa arriverà,
e cambierà ogni cosa – non è il caso di farne una tragedia, né di mordersi così
l’interno della guancia, si dice.
“Va già molto meglio, non è vero?” si sforza di sorridere, perché Marco lo sta
guardando e per una volta vuole che sia un sorriso e non uno sguardo accigliato
ciò che veda. Trova nella nuova moltitudine di lentiggini una buona ragione per
farlo: gli sono bastate un paio di ore all’aria aperta perché tornassero a
invadere il suo viso come un tempo destinato a restare un ricordo.
Marco schiude la bocca senza dire nulla. Il suo occhio lucido si perde su quel
sorriso e, per qualche istante, le sue labbra sembrano quasi volerlo imitare;
torna sui suoi passi quando i vapori del suo stesso fiato gli appannano la
vista più di quanto riesca a tollerare.
“Ha mangiato
qualcosa?” chiede Nifa distratta, frugando ancora tra
gli scaffali.
“Non lo so—”
Pessimo.
“Non gli
sono state date neanche le sue medicine—” né è stato in grado di far sì che gli
venissero date, sente dire dentro di sé, e il suo stomaco si contorce.
“Non gli
sono state date le medicine?” Nifa si volta,
inorridisce. Si sforza di ricomporsi in fretta.
“La caposquadra Hange andrà su tutte le furie,” dice scuotendo la testa con
amarezza, e Jean sente la sua bocca farsi secca.
Perché questa volta, Marco geme anche sotto le mani di Nifa.
Lo sfiora appena in realtà, ma il suo è più un riflesso condizionato: quando
coperte e i cuscini vengono posizionati in quel modo, Marco sa cosa lo aspetta
anche senza vederlo, ormai.
“Nifa—”
Jean guarda
Marco respirare male; guarda Nifa attendere
sospettosa il suo commento: qualcosa gli dice che prevede già quale sia.
“Cambiargli
le medicazioni adesso, senza il suo antidolorifico, sarà…molto dura per
lui…”
Ci prova.
Non vuole dirlo apertamente, sa che Marco lo sta ascoltando, e sa anche che le
possibilità di perdere sono più di quante sia disposto ad ammetterne.
Nifa
sospira, poi sospira ancora, come se il primo sospiro non fosse bastato a
portare chiarezza nella sua mente. Forse perché Marco ha ripreso a battere i
denti – per il freddo, si dice Jean. Perché non può accettare che Marco batta i
denti per un’altra ragione. Non di fronte a lui.
Si scansa
quando Nifa gli tocca il collo, lo fa ancora di più
quando la sua mano si muove verso le bende.
“Ho mentito,” dice Nifa, “poco fa in giardino,
intendo – non c’è alcun ordine della caposquadra Hange che mi imponga di
cambiare le sue medicazioni. Era solo una scusa per portare Marco al riparo.”
spiega, ignora il lamento di Marco quando lievi, le sue dita si insinuano sotto
il cuscino raggiungendo le fasciature della nuca. “La caposquadra Hange era
molto preoccupata all’idea di un paziente nelle sue condizioni in balia del
dottor Hilbig, così ha insistito affinché il
comandante le concedesse il permesso di inviarmi al quartier generale prima del
termine della missione. Il mio unico compito era quello di accertarmi che la
situazione fosse sotto controllo. Mi aspettavo qualche imprevisto, ma non certo
di ritrovare Marco in giardino…”
Jean sa che
non era nelle sue intenzioni, ma quell’ultima frase è più o meno come sentire
la lama di un pugnale trapassargli lo stomaco.
Lo sa benissimo: ha passato le ultime ore a strizzarsi le meningi alla ricerca
di uno stratagemma che avrebbe potuto evitare a Marco quella sorte, ma non ci è
riuscito.
Perché diavolo, non ci sarebbe mai riuscito.
Ma questo alla sua vocina interiore non interessa: lei si ferma molto prima –
si ferma al ‘non sei riuscito a proteggerlo’.
Dai giganti – gli ricorda – e adesso neanche dai suoi stessi simili.
“Tuttavia…”
“Tuttavia?”
“Tuttavia è
vero che le sue bende vanno cambiate. Guarda qui—”
Nifa fa cenno a Jean di distendere Marco come si
deve, espone le garze sul petto e a Jean non servono ulteriori spiegazioni.
Non serve neanche che prema più
di tanto per mostrare come l’essudato riesca facilmente a traboccare attraverso
la trama del garzato.
“Posso
ripetere le medicazioni e attendere il ritorno della caposquadra Hange per la
somministrazione delle medicine—"
“Non senza
prima il suo antidolorifico”
Nifa lo
guarda in silenzio, contrae la mascella.
“Non—non senza il suo antidolorifico”
Ha un disperato bisogno di inghiottire qualcosa, ma nella sua bocca non è
rimasto più niente, il che dà alla frase un’enfasi maggiore, forse persino più
di quanto avrebbe voluto.
Nifa piega
il collo, fa scorrere gli occhi sulla figura chiusa nella morsa delle braccia
di Jean e quella del dolore; cerca di capire.
“Dannazione—”
Si passa una mano sul viso. Da quando è entrata in scena, è la prima volta che
Jean la vede davvero incerta. “Io non so dove sia. La caposquadra Hange non
permette quasi a nessuno di occuparsi delle somministrazioni, e per le
medicazioni, non credo sia prudente aspettar…”
“Io so
dov’è!” Jean la interrompe, nel tono guizza lo scintillio di una soluzione– “Nifa, io so dov’è l’antidolorifico di Marco!”
“Sai anche qual è la formulazione?” chiede, con un’improvvisa determinazione
nella voce.
“Sì!” lo dice prima ancora di capire in che razza di situazione si stia
cacciando; “Ho visto la caposquadra Hange prepararlo tante volte, è in un unico
flacone, lì – ce ne è uno anche nell’angolo. Posso farlo io, po-possiamo farlo insieme, e—”
“Signorina Nifa—!”
La porta si
apre di scatto, sbatte con fragore contro il muro e a quel suono, Marco
reagisce come chiunque al posto suo avrebbe fatto: sobbalza; sgrana l’occhio,
risucchia l’aria con un sibilo così rumoroso che sembra poter lacerare anche
quel che rimane dei suoi polmoni.
“Dannazione,
Lia!” Jean si pente subito del suo accesso di rabbia, non è riuscito a
controllarlo.
Lia non sembra badarci, dominata da una urgenza inarrestabile.
“Signorina Nifa, deve venire con me! Il caposquadra
Dietrich sembra impazzito, minaccia di andare via! Minaccia di fare rapporto al
comandante Pixis!”
Sul volto
magro, arrossato dalla febbre e dal sole di Marco, la sua enorme pupilla dilatata
sembra adesso in grado di assorbire solo il panico; poco importa se è quello di
una reclutina non in grado di gestire un dramma che
chiunque al posto suo avrebbe bollato come di poca importanza.
“La prego,
signorina Nifa—!” piagnucola ancora, e Marco ha quasi
un conato di vomito, Jean lo vede; lo riconosce dal modo in cui il suo collo si
muove, il suo pomo d’Adamo teso si solleva.
“Ehi—” lo
richiama piano, con cautela – si ritaglia un angolo di letto ove sedere.
“Marco, guardami,” dice ancora, attutendo con un palmo sull’orecchio che sbuca
dalle garze i suoni di una realtà di cui ha paura. Spinge la sua attenzione sul
suo sorriso, si sforza di farlo apparire meno brutto e incerto di quel che è.
“È solo Lia, non è qui per te—” leviga con il pollice l’angolo di quell’occhio
sconvolto di terrore, “Non è qui per te, non è successo niente – intesi?”
Lo dice come davvero se sapesse cosa stia accadendo.
E come se davvero sapesse cosa stia dicendo, tra le sue mani, Marco muove la
testa annuendo.
Nifa
assorbe il resto della conversazione con due dita strette alla base del suo
naso e un tentativo mal riuscito di risolvere ogni cosa con diplomazia. Poi, si
arrende.
“Jean,” dice, mentre raddrizza le gambe; “tornerò prima che posso. Tu, procedi
pure con l’antidolorifico,”
“D’accordo—”
conferma, ingoiando bile.
“Nifa?” La ferma quando è sulla soglia, come al suo solito.
“Non – non so come ringraziarti.”
Nifa
sorride imbarazzata. Avrà visto quella scena almeno una decina di volte quando
assiste la caposquadra Hange, ma Jean sa che deve fare qualcosa perché le sue
parole giungano in tutta la loro sincerità,– perché diavolo, sarebbero ancora
in giardino, se non fosse stato per lei.
Sarebbe ancora lì a fissare gli insetti ronzare intorno alle siepi mentre le
membra di Marco sfregolano contro il proprio fianco, se solo non avesse
affrontato per lui un titano troppo forte per la sua codardia.
Il rossore che vede apparire sulle guance rosee della ragazza è un buon segno.
Jean sfiata di sollievo, e sorride.
“Occupati di
lui, adesso” ordina uscendo. Jean annuisce.
Non sa neanche perché, nella fretta, si sia sentito in dovere di salutarla
ufficialmente.
Attende che i cardini della porta scattino, prima di prendere un respiro
profondo e lanciarsi contro l’anta dell’armadietto in noce dalla quale aveva
visto la caposquadra Hange estrarre l’antidolorifico.
Non ne è sicurissimo, in realtà: l’ampolla dall’etichetta oscura che ritrova al
suo interno è identica a molte altre lì presenti, ed è da tempo che Marco non
viene esaminato lì in infermeria.
C’è qualcosa però in quella ampollina che per prima ha attirato la sua
attenzione: qualcosa in quel liquido giallognolo che porta la mente di Jean ad
escludere tutte le altre.
Potrebbe essere uno scherzo della memoria; potrebbe peggiorare la situazione,
certo – ma non vuole pensarci. Quella cazzo di vocetta interiore, quella che ha
sempre immaginato con la faccia di Tina Karnstedt, la
cretina che lo derideva da bambino, Jean la affoga nei tre millilitri
che carica all’interno di una siringa che trova riposta tra gli strumenti
sterilizzati. Perché cazzo – lo sente, quel mugolio convulso che Marco fa
quando è al limite di sopportazione.
Ha imparato a riconoscerlo, insieme a quelle dita con la quale si aggrappa alle
lenzuola come se fosse l'unico modo per non cadere a pezzi. Jean sa che tutto
ciò è in grado di arrovellargli la testa più di quanto possa fare qualsiasi suo
stupido timore.
Marco apre
appena l’occhio quando lo vede tornare al suo fianco; è più una necessità – un
bisogno costante di confermare la sua presenza, un appiglio al dolore. Jean lo
sa. E sa anche che Marco pensa sia tutto ciò che ha da offrirgli, ma sta volta
non è così, si dice, mentre le sue mani sollevano la siringa con un tremore che
prima non c’era (ma che ha deciso di ignorare).
Sta volta, ha qualcosa di meglio per lui, che la sua semplice stretta di mano,
le sue paroline scontate ripetute ancora e ancora.
“Non ti
sbagli, sai? Non ho assolutamente idea di quello che sto facendo—” dice, mentre
gli incisivi provano a dargli uno sprazzo di concentrazione mordendo un angolo
del suo labbro inferiore. “Ma la sola idea di non fare niente anche questa
volta mi farebbe diventare matto, Marco—”
Allunga un
braccio, prende tra una pinza un ritaglio di garza impregnata di disinfettante
dal contenitore in vetro accanto al letto – e Dio: non ha davvero una cazzo di
idea di cosa stia facendo, ma no – no. Non è così. No. Lui lo sa. Lui lo sa
bene. Dannazione, avrà visto almeno una decina di volte la caposquadra Hange
farlo, non è mica un intervento a cuore aperto! Qualsiasi moccioso sarebbe in
grado di ficcare un ago nella chiappa di qualcuno e spingere dentro un
medicinale, no? Che diavolo sarà mai?
Ripete tra
sé e sé questa nenia almeno una decina di volte, mentre sudato, sistema un paio
di cuscini intorno a Marco e piano, lo volta quel che basta per riuscire a
esporre e denudare una natica senza fargli troppo male.
Marco non ha
niente da ridire. Non si scompone, non si muove neppure. Smette persino di
mugugnare i suoi lamenti agonizzanti, e a guardarlo, sembrerebbe come se il
ritrovarsi in quella posizione lo avesse in qualche modo calmato.
Ed è un paradosso, Jean se ne rende conto: chi sarebbe in grado di calmarsi
all’idea che un imbecille che non sa assolutamente cosa stia facendo si
improvvisi la luminare della scienza che gli ha salvato la vita, e si prepari a
bucargli il culo? Qualcuno che aspetta che quel medicamento gli entri in
circolo da ore, si risponde da solo.
E qualunque
cosa abbia bloccato in gola, Jean si sforza di ingoiarla in fretta, perché
diamine– ha già perso abbastanza tempo.
“Oggi temo
possa fare più male del solito—” dice, massaggiandogli un punto della natica
ancora pallido, tra un corollario di quelli che sembrano macchie di inchiostro,
ma in realtà sono lividi.
“N-non
importa—” sente, o almeno, ha l’impressione di sentire, nascosto in quel fiato
rasposo che Marco disperde contro il pugno che ha sulla bocca.
Jean
annuisce, si lecca le labbra “Va bene”.
Non è sicuro di come tenere la siringa
tra le dita: di solito, quando Hange la avvicina, lui ha già concentrato la sua
attenzione su di Marco, sul suo respiro, sulle smorfie di dolore che spera di
non scorgere tra i suoi lineamenti. Solleva gli occhi guardinghi solo quando
sente il ‘fatto’ – e adesso un po’ si pente, di non aver mai guardato davvero
le sue movenze.
Ah, dannazione – il modo rapido con cui il suo cuore ha preso a battere gli
ricorda che sì, si sta di nuovo perdendo in inutili stupidaggini.
Dà un’ultima
passata di disinfettante, poi allinea l’ago come gli capita, e fanculo tutto
– lo affonda.
Marco si
irrigidisce, sa che lo ha fatto: lo sente anche dal modo in cui flette le
ginocchia.
Un piccolo, insolito grugnito scappa dalle sue labbra a conferma di ogni
cosa.
“Fermo,” gli dice severo, senza sapere neanche da dove l’abbia tirata fuori,
tanta severità. “ho quasi finito” aggiunge lasciandogli una mano sul
fianco, e Marco gli obbedisce davvero.
Jean spinge tremante lo stantuffo, e – quanto ci mette quella porcheria
a finire dentro?
Sembra tutto così rapido in mano ad Hange, per la miseria.
Per la miseria.
La siringa
si svuota nell’esatto istante in cui Jean sente una prima goccia di sudore
freddo colare dalla sua fronte e bagnargli le dita.
“Ho fatto—” annuncia, più a sé stesso che ad altri, “Marco, ho fatto!”
Qualcosa nel
sospiro di sollievo di Marco gli dice che lo ha già capito. Abbandona la
siringa sul comodino storcendo il naso; dedica più tempo del necessario a
medicare la piccola ferita lasciata, la tampona perché è apparsa una goccia di
sangue, e immagina che questo darà vita ad un livido anche peggiore degli
altri, ma ancora – si sforza di pensare ad altro.
Ricopre
Marco in fretta, come se si fosse accorto solo adesso di aver denudato parti di
sé solitamente riservate.
“Stai—stai meglio? Ha già iniziato a fare effetto?” balbetta goffo, lo
riaccompagna piano sulla schiena.
Il cenno di assenso che ad occhi chiusi e labbra cineree Marco gli porge è di
certo una bugia, ma Jean decide di crederci lo stesso.
Chiude gli
occhi, prende il respiro più profondo che riesca a contenere.
Il suo rilascio però, viene interrotto da dei suoni di sottofondo che
provengono dal corridoio.
Grida, più che altro.
Insulti. Minacce sempre più accese che benevole, le mura dell’infermeria hanno
deciso per loro di ovattare
‘Che
cosa!?’, ‘Come hai osato prendere una decisione simile da solo, maledetto spaccaossa!?’,
‘Pazza! Tu sei semplicemente una pazza, una squilibrata! Non ti permettere di
rivolgerti a me in questo tono! Quelle come te dovrebbero stare in un
manicomio, non a piede libero!’, ‘Lurido bastardo! Ti sbatto di fronte alla corte
marziale, Dietrich! Prega che Marco non avrà una ricaduta o verrò io stessa a
stringere il cappio intorno al tuo collo!’ ma soprattutto, agli accorati ‘Caposquadra,
si calmi!”, “Dottor Hilbig, si allontani!” “Adesso
basta, caposquadra! La prego!” gli fanno fa capire che, ancora una volta,
il tempismo non è dalla sua parte.
**
“Ancora un attimo di pazienza, abbiamo quasi finito,”
È l’ultima
garza intrisa di medicamento quella che la caposquadra Hange stende sulle
suture tra le vertebre, l’ultimo supplizio, almeno per qualche ora. In quel
punto, le ferite non hanno gli stessi arrossamenti che hanno altrove ma è bene
non abbassare la guardia, gli dicono di continuo, e Jean sa bene che è così.
Lo sa anche Marco; beh – lui accetterebbe a prescindere qualsiasi cura senza
protesta alcuna, ma quando Jean contro la propria spalla sente comunque la sua
fronte contorcersi e il respiro arrestarsi, allora direbbe volentieri ad Hange
di evitarsele, quelle premure superflue.
Di smetterla; di fare solo il minimo indispensabile e lasciarlo in pace, una
buona volta.
Ma non lo fa. Come tutte le altre volte.
“Ho cambiato
la formulazione di recente, ma se continua a bruciare così tanto, proverò a
lavorarci ancora.” dice dispiaciuta, poggiandogli una mano sul costato, prima
di srotolare delle fasce di copertura.
E a Jean verrebbe da domandarsi se non sia solo un modo frettoloso per
consolarlo, per non ritrovarsi un paziente terrorizzato che renda tutto più
difficile alla prossima medicazione. Poi però lo vede, con quanta delicatezza
la caposquadra Hange accosta Marco a sé; con quanta premura gli fascia il
torace e il viso dopo averne asciugato le guance con i polsi, e si sente un
ingrato anche solo per averlo pensato.
“Questo non fa male—” dice, mostrandogli uno strumento che gli ha già provocato
un fremito di terrore.
“Te lo
ricordi, no? È uno stetoscopio – ti ho già visitato altre volte con questo
strumento, non hai mai sentito dolore, ricordi? È solo un aggeggio che scorre
sul petto—"
Marco emette
un sospiro di sollievo quando si accorge che è vero. O forse, il sospiro lo ha
emesso Jean.
Per la medesima ragione.
Chi non lo emette però, è Hange.
“Cosa c’è?”
A volte,
Jean vorrebbe non aver imparato a leggere così bene i lineamenti del suo viso.
O i suoi silenzi.
“Caposquadra Hange?”
Hange sfila
le asticelle dalle sue orecchie, si infila le dita sotto gli occhiali; preme
sulle palpebre come le fosse finito qualcosa dentro gli occhi.
“Ha preso freddo,” dice, dopo una pausa in cui ha, con molte probabilità,
tentato di mettere insieme le parole giuste per tradurre ciò che ha sentito dai
suoi polmoni, “I suoi polmoni sono fragili, nei prossimi giorni potrebbe
venirgli…un raffreddore.”
Dal modo in
cui ha temporeggiato, Jean capisce che quella è la migliore delle ipotesi.
Sospira amaramente, china gli occhi: Marco lo sta guardando.
Non sa perché quella che riconosce sul suo viso sia un’espressione di colpa; ne
resta sconcertato.
“E così gli
hai somministrato tu l’antidolorifico –” lo distrae (e si distrae) Hange,
salvifica più di quanto possa immaginare.
“S-sì, caposquadra.” balbetta, un formicolio lo travolge così, senza una
ragione be precisa. Così come senza una ragione ben precisa sente il bisogno di
assumere un’aria formale; raddrizza la schiena, sporge il mento. “Ho riempito
la siringa fino a metà come ho visto fare a lei, caposquadra. Tre millilitri di
quel flacone sul comodino, per la precisione, e l’ho iniettata su di una
natica—” spiega convulso e scoordinato, tutto d’un fiato.
Hange lo
ascolta serena, senza lasciarsi contagiare dalla sua smania, poi si volta,
ritrova la siringa e l’ampolla sul comodino. La solleva in controluce, muove le
asticelle delle sue lenti per poterne vedere meglio l’etichetta sbiadita,
esamina l’ago e il modo in cui è stato montato sulla siringa.
“E l’hai iniettata su di una natica, hai detto?”
“Sì, caposquadra.”
Prima che
possa rispondere, Hange ha già di fronte a sé la natica in questione.
Passa un dito sulla ferita lasciata dall’ago – come Jean aveva immaginato, ha
creato il livido peggiore.
Lo ricopre pochi secondi dopo senza un solo commento.
“Che ne
dici, Marco? Jean è stato bravo?” domanda con finta serietà; Marco solleva la
fronte, muove le labbra in risposta, Jean lo prende come un accenno di sorriso.
“Potrei farti diventare il mio nuovo infermiere—”
“Preferirei
di no, caposquadra”
Ha ancora la mano sulla fronte di Marco. Era in origine un gesto clinico, poi
si è tramutato in qualcos’altro.
C’è del rimorso nel modo in cui lo scruta frugando con le dita tra i suoi
capelli.
Distoglie lo sguardo quando si ricorda di interrogare il grosso orologio a
pendolo alle sue spalle.
“L’ora di pranzo è già
passata da un pezzo. Starete morendo di fame.” asserisce, sollevandosi stanca
dallo sgabello e avviandosi verso la porta. “Vi farò portare qualcosa da
mangiare qui.”
La scienziata arresta i propri passi poco prima di superare Jean: la mano
che gli poggia sulla spalla è una richiesta di intesa: “Assicurati che mangi. Dovrà
prendere delle medicine importanti questa sera.” Gli confida a bassa voce a
seguito di un cenno del mento in direzione di Marco.
“E le medicine di questa mattina?”
Hange sospira, il suo volto si incupisce: c’è ancora molta rabbia in lei,
suggerisce la sua mascella serrata: “Ormai è tardi per rimediare. Prenderà le
sue medicine questa sera. Con un po’ di fortuna, saltare una somministrazione
non comporterà conseguenze. Nel frattempo, gli darò qualcosa per far scendere
la febbre e decongestionare il torace—”
A quella
frase, dal suo angolo, Lia ricomincia a singhiozzare. Lo fa piano, in silenzio,
quasi fosse qualcosa di proibito che proprio non riesce a trattenere.
“Lia, non ricominciare,”
“Mi scusi,
caposquadra…” piange ancora, anche più accoratamente di prima, “è solo c-che è
colpa mia, avrei dovuto davvero insistere affinché il Dottor Hilbig si attenesse alla terapia e—”
”Ti sei già scusata e io ti ho già perdonata. Non è il caso di continuare
ancora.” La interrompe Hange, forse fin troppo dura. “Piuttosto, va chiedere
alla cucina di portare qualcosa da mangiare per Jean e Marco. Il menù di Marco
lo hanno già, dì loro di attenersi a quanto scritto senza prendere iniziative
personali come al solito.”
“Mi scusi, caposquadra. Corro subito.”
Jean sa che non è per Lia quest’amarezza, ed è certo che anche Hange lo sappia.
Sente un brivido scuoterlo, tanto da dover allineare le braccia a fianchi in
una nuova, scialba dimostrazione di rigore.
“Caposquadra
Hange, non è colpa di Lia. Non avrebbe potuto fare nulla—”
“Lo so—” Hange
è arrabbiata più con sé stessa: Jean lo capisce solo adesso.
Le vede togliersi gli occhiali e ancora una volta, strofinarsi gli occhi
stanchi.
“Avrei dovuto contestare la formazione proposta da Erwin, portarlo a
riconsiderare la scelta di non lasciare nessuno della mia squadra di guardia in
infermeria,” ammette, il tono pesante di chi porta il fardello più grande.
“Comunque,
ormai è tardi. Dietrich non avrà vita facile d’ora in poi. Scriverò un rapporto
su quanto accaduto e giuro sul mio nome che questa volta non la passerà liscia—”
Ma nel frattempo, la mano che Jean vede sulla maniglia della porta è quella di
qualcuno che si aggrappa ad essa come temesse da un momento all’altro di
cadere.
“Caposquadra
Hange—” prosegue prima che Hange possa tornare a guardarlo, “Non è colpa sua.”
Il silenzio che ne segue è come scandito sull’asse temporale di un mondo
distante, un luogo vibrante fatto di pensieri di piombo e di attese: tutti
sembrano condannati ad ascoltare il suono del proprio respiro incrociarsi tra
loro fin quando qualcuno non trova il coraggio di interromperlo.
“Ci credo solo se ci crederai anche tu: non è colpa tua.”
Jean sospira, chiude gli occhi, incamera l’odore di canfora e di impiastri vari
come non lo avesse mai percepito sino ad allora.
“Non ho potuto fare niente.”
“Al
contrario, lo hai protetto andando anche contro te stesso.” riconosce, “È stata
una partita a scacchi. Dietrich non aspettava altro che una tua mossa falsa per
sbatterti in gabbia. O forse, sbattervi entrambi. È una vendetta personale, la
sua – ce l’ha con me, e muore dalla voglia di mettermi i bastoni tra le ruote.
Ma mi dicevo che non poteva essere così meschino da arrivare a tanto…”
“Caposquadra
Hange—” la interrompe, “Lo sta facendo di nuovo. Si sta…di nuovo
colpevolizzando.”
Hange si
ferma per un attimo, espira. “Hai ragione.”
È un sorriso
amaro quello che si scambiano, qualcosa di appena accennato.
Hange fa un cenno della mano, prima di far scattare la maniglia.
“E vorrei
aggiungere,” si sofferma ancora sullo stipite, “Oggi hai anche fatto un’iniezione
senza avere la minima idea di quel che stavi combinando. Non è da tutti, assumersi
un rischio simile pur di sollevare qualcuno dal dolore. Sei stato coraggioso.”
Piega il collo da un lato, ha un ripensamento “O forse, lo è stato di più Marco
a permetterti di fare una cosa simile—”
Jean sente
il proprio sudore cominciare a ribollire sotto la camicia, lascia che la sua
mascella si storca in una smorfia orrenda. “Beh—ecco, ho pensato che Marco
potesse, ecco—averne davvero bisogno…”
“Beh, sì—direi di sì. Ne aveva bisogno.” Hange sorride ancora, è un sorriso
diverso questa volta, per questo lo mostra giusto per un attimo, poco prima di
uscire: “Vigila sul tuo fidanzato, adesso. Fai degli impacchi freddi sulla sua
fronte. Verrò più tardi a vedere come sta.”
“Agli
ordini.”
Marco è
sveglio, anche se la sua palpebra è chiusa.
Jean ha imparato ormai a dirlo dal modo in cui il suo occhio si muove sotto di
essa, ed è per questo che si azzarda a sfiorargli la fronte – diversamente, non
avrebbe mai disturbato il suo sonno rischiando di far apparire sul suo volto le
tipiche increspature del dolore.
Lo fa perché
Marco ha adesso sul viso dei colori che gli piacciono. Che non sono solo le
lentiggini, no – quelle c’erano anche prima. Né si fa trarre in inganno dalla
febbre, o dalla pelle scottata dal sole.
No, c’è qualcosa che Jean non riesce a distinguere, ma che gli piace – che crea
morbidezza, come dei tocchi di acquarello.
Le sue labbra sono tornate rosee, la fronte liscia segue docilmente il dondolio
del suo respiro, adesso lieve e regolare.
“Non
fingere, so che non stai dormendo—”
Marco accenna un sorriso che non riesce a camuffare.
“Stai meglio adesso?” Marco annuisce, e Jean ha qualche remora a sottrarlo al
cuscino e portare la testa sul suo grembo: l’antidolorifico ha fatto effetto, è
vero – ma Marco è così sereno che Jean non vorrebbe rischiare di risvegliare
qualche dolore sopito e inoltre, se la caposquadra Hange per qualsiasi ragione
dovesse tornare e trovarlo seduto sul letto, probabilmente —ah, al diavolo!
Lo fa lo stesso!
Marco ha messo su quel musetto che lo fa sembrare un cucciolo di cane bisognoso
di affetto, uno di quegli sguardi che hanno i bambini piccoli, o le persone
molto anziane. Qualcosa che nel corso della vita si perde e poi si riacquista
quando forse è troppo tardi, tranne Marco: lui non lo ha perso mai. Neanche dopo
le fauci dei giganti.
Lo guarda; lo scruta ancora - osserva gli angoli delle sue labbra schiuse, e si
china a baciarlo sulla fronte rovente, poi anche sulla guancia, sulla punta del
naso.
Ci sono ancora tracce di sale sulla sua pelle, tracce di roba che Jean vorrebbe
non ci fosse, ma va bene lo stesso. C’è il fruscio delle sue dita che solcano i
suoi capelli scuri, lo scorrere delle nocche della mano di Marco sulla sua
pelle fredda, che proprio con quel contatto, adesso è quasi tiepida.
Ci sono i fiati, e poi i sospiri – ci sono ciglia che fluttuano, e cose che
riescono meglio di prima.
Fine
**
NON BETATA: Scritta a Novembre per il
compleanno di un’amica e riciclata per l’Advent Calendar del gruppo Hurt/Comfort, ma in
tutta onestà, non ho davvero avuto il tempo di mettermi lì a correggerla per
bene. La posto perché temo che se rimane ancora a lungo sul mio HD, io possa
dimenticarmene ^^”
Spero vi sia
comunque piaciuta <3