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Autore: kozuken    05/04/2022    2 recensioni
Compagni di squadra e inseparabili amici d'infanzia, Tooru Oikawa e Hajime Iwaizumi, finito il liceo, si separano per perseguire i propri obiettivi e i propri sogni. Iwaizumi si aggrappa alle promesse pronunciate da Oikawa prima della partenza, chiedendosi se siano sincere espressioni dei suoi sentimenti o vaghe illusioni di speranza.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Lime | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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   Oikawa aveva mantenuto la promessa.
   O almeno, l’aveva fatto per i primi tempi. Iwaizumi ricordava quanto si fosse sentito sollevato, come se gli avessero tolto un peso dal cuore, quando era sceso dall’aereo e aveva trovato quel messaggio sul cellulare: Spero che tu sia arrivato, Iwauccio.
   Quel messaggio era stato il centro dei suoi pensieri durante il volo e, lo ammetteva con una certa vergogna, il motivo per cui aveva acceso il telefono con una frenesia tale da fargli quasi dimenticare i bagagli, mentre scendeva dall’aereo e correva verso le grandi vetrate dell’aeroporto. Ad Iwaizumi poco importava che fosse ancora giorno, e aveva smesso persino di fare caso alle sue palpebre che diventavano sempre più pesanti. Infatti non appena aveva messo piede per terra, il sonno, la stanchezza e qualsiasi altro pensiero erano spariti, e quando lo schermo del telefono si era illuminato e aveva sentito l’avviso di un messaggio in arrivo, Iwaizumi si era sentito più sveglio che mai.
   Ti manderò un messaggio, aveva detto Oikawa prima di salutarlo. La camera del dormitorio in cui Iwaizumi era stato negli ultimi tre anni era già vuota, solo i suoi bagagli erano rimasti, in un angolo vicino alla porta. Oikawa si guardava intorno con un’espressione indecifrabile, eppure Iwaizumi aveva capito subito che aveva qualcosa da dire, e stava aspettando il momento giusto per dirla. Cos’è quella faccia, Iwauccio? Forse non ti fidi del Grande Re? aveva detto poi Oikawa indicando se stesso, e ammiccando come faceva sempre. Iwaizumi gli aveva detto di tacere in tono seccato. Ovviamente si fidava di lui, ma questo non gliel’avrebbe detto. Avrebbe voluto che lo accompagnasse all’aeroporto, ma non gli avrebbe detto neanche questo. In realtà era già da un po’ che Oikawa si era messo a parlare delle squadre che avrebbe trovato in America, di tutte le opportunità che avrebbe potuto cogliere una volta lì; ma Iwaizumi non l’aveva ascoltato più di tanto, forse perché Oikawa aveva ancora addosso la tuta verde e bianca dell’Aoba Josai, o forse perché aveva appena realizzato che era la prima volta, dalle elementari – da tutta la vita –, che si separava in modo permanente da Oikawa.
   – E tu, – gli aveva detto allora Iwaizumi, con il viso rivolto verso terra, – quando partirai?
   – Mah, non ci ho pensato, – aveva risposto Oikawa, – e comunque non c’è fretta, mi sbaglio?
   Oikawa l’aveva detto con leggerezza, quasi scherzando, eppure la fretta c’era eccome e ne erano entrambi consapevoli. Ormai il terzo anno era finito, e con esso anche la loro avventura con l’Aoba Josai era finita. Iwaizumi l’aveva accettato dall’inizio, e Oikawa era troppo intelligente e troppo benvoluto per farsi bocciare come aveva pianificato. Però questa era una delle tante cose che Iwaizumi non gli aveva detto, quel giorno.
   Dopo due ore Iwaizumi era già in aeroporto, e quando finalmente era sbarcato oltreoceano, aveva davvero trovato quel messaggio che Oikawa gli aveva promesso. Ora, bisogna ricordare che Hajime Iwaizumi non era tipo da piangere piuttosto facilmente. Non aveva pianto quando avevano perso contro il Karasuno alle semifinali del Torneo primaverile, e non aveva pianto guardando i nazionali. Non aveva pianto nemmeno mentre saliva sull’aereo. Ma ora, leggendo quel messaggio, Iwaizumi era scoppiato a piangere. Piangeva mentre fissava lo schermo del telefono e piangeva anche quando qualcuno l’aveva spintonato malamente, ricordandogli che c’erano ancora i bagagli da prendere. Aveva pianto amaramente anche mentre usciva dall’aeroporto e saliva sul taxi che l’avrebbe portato al dormitorio.
   Non era per la nostalgia che piangeva, e nemmeno per il pentimento. Era per le parole che Oikawa aveva usato. Spero che tu sia arrivato non era affatto una frase da Oikawa. No, non era affatto questa gentilezza che voleva da lui. Avrebbe voluto che gli dicesse Spero che l’aereo sia precipitato Spero che sbagli il volo ma non questo, non un messaggio gentile e, forse, sincero; ancora peggio se fosse stato sincero. Per una volta voleva davvero che Oikawa avesse da ridire sulle sue scelte, e che gli dicesse, all’ultimo: Sei stato un cretino ad andare via. Sei proprio un cretino, Iwauccio. E Iwaizumi avrebbe fatto marcia indietro e sarebbe salito di nuovo sull’aereo. 
   Fino all’ultimo minuto, infatti, aveva tenuto in considerazione l’idea di non partire affatto, se Oikawa gliel’avesse chiesto. All’inizio l’aveva proposto quasi per caso, poco dopo la sconfitta contro il Karasuno: Forse potremmo studiare all’estero, aveva detto. Ad Oikawa era sembrata un’idea fantastica, e Iwaizumi aveva già iniziato a fantasticare. Non aveva mai messo in conto che ciò potesse significare anche, per Oikawa, partire per separarsi: cosa che aveva scoperto poco dopo con orrore.
   Hai deciso dove andare, Iwauccio?, gli aveva chiesto Oikawa un sabato sera.
   Iwaizumi aveva decisamente bevuto troppo. Quella sera lui, Oikawa e Matsukawa avevano deciso di inaugurare le vacanze estive bevendo – ma alla fine Oikawa aveva bevuto pochissimo, per la sua abitudine di essere naturalmente lento a bere, e Matsukawa si era annoiato presto, cosicché Iwaizumi si era ritrovato da solo con lui e piuttosto ubriaco, e Oikawa aveva optato per trascinarlo nella propria stanza al dormitorio.
   Avevano messo su una replica di una vecchia partita dei mondiali, fra le tante della collezione di Oikawa, che lui, come sempre, guardava assorto come fosse la prima volta. Iwaizumi non prestava attenzione né allo schermo, né ai commenti che Oikawa faceva sui giocatori e sulle loro azioni, perché dopo qualche minuto aveva abbandonato la testa indietro, sul bordo del letto sfatto di Oikawa, con il viso completamente rivolto verso di lui, al suo profilo elegante. E senza sapere come, dopo un po’ la testa di Iwaizumi era crollata su quella di Oikawa – aveva cercato di risollevarsi, all’inizio, ma quando si era accorto che aveva davvero la testa troppo pesante anche solo per tenersi dritto, aveva semplicemente sperato, fra i suoi pensieri agitati, che Oikawa non lo colpisse troppo forte, troppo violentemente.
   Ma con sua grande sorpresa Oikawa non aveva fatto niente del genere. Così non riesco a vedere niente, Iwauccio, aveva sussurrato, e poco dopo Iwaizumi aveva percepito il tocco delle sue dita abili sul viso, e la sua testa si era trovata ora rilassata sulla spalla forte di Oikawa, e per un attimo la sua mano, mentre tornava al suo posto, aveva sfiorato le sue labbra.
   Oikawa era rimasto immobile per il resto della partita, e quando Iwaizumi ormai si era quasi addormentato, era arrivata quella domanda. – Uhm…– aveva detto, senza aprire gli occhi. – In America, credo.
   – Io voglio andare in Argentina, – aveva detto Oikawa senza esitare.
   – Va bene, allora…
   – Ma non saremo molto lontani, – aveva continuato Oikawa a bassa voce. – Quando saremo avversari non avrò nessuna pietà di te, Iwauccio.
   – Ma che stai dicendo, razza di un cretino? – aveva risposto Iwaizumi biascicando. Ma evidentemente non era riuscito a dare a quella frase l’effetto che desiderava, perché Oikawa a quello aveva riso e basta, e aveva ripreso i suoi commenti alla partita senza aggiungere altro. In seguito Iwaizumi non ricordò nulla di quella conversazione. Per questo motivo, quando Oikawa aveva parlato delll’Argentina come di una cosa che era stata già decisa e stabilita, Iwaizumi non aveva saputo cosa rispondere. Del resto per lui anche l’America era una cosa già decisa e stabilita, così, per la prima volta nella sua vita, aveva deciso di mettere alla prova Oikawa, il fenomenale alzatore di cui non aveva mai dubitato nemmeno una volta, mai in una partita.
   Iwaizumi sapeva già che non avrebbe fatto alcuna differenza. Sapeva già che, per Oikawa, l’unica cosa da valutare nella scelta della sua destinazione era la forza della squadra. E sapeva anche che, così come non lo faceva in campo, Oikawa non l’avrebbe invitato con le parole a seguirlo: avrebbe semplicemente fatto la sua scelta, con la consapevolezza che Iwaizumi l’avrebbe seguito a prescindere, sempre e comunque. Eppure quella fu l’unica circostanza in cui Iwaizumi non lo fece, e Oikawa non si impose su di lui: non gli chiese mai il perché, non provò mai a fargli cambiare idea. E questo ferì così tanto Iwaizumi nell’orgoglio, da fargli dimenticare che non aveva nessun motivo per andare in America.
    Gli ultimi allenamenti dell’Aoba Josai erano stati duri, soprattutto quando si era ritrovato a guardare Oikawa con la consapevolezza che quelli erano gli ultimi momenti che passavano da compagni di squadra, e forse anche le ultime alzate che Oikawa gli avrebbe fatto. Aveva vissuto quegli allenamenti, soprattutto, chiedendosi se quell’intesa che c’era sempre stata fra loro sarebbe sopravvissuta anche a questa separazione, definitiva o meno che fosse. Ma questi allenamenti non erano stati più difficili di quelli che ebbe a partire da quel momento, da quando era sbarcato in America.
   La tensione, i problemi di comunicazione, gli attacchi falliti, erano tutte cose che non aveva mai sperimentato con Oikawa, e che faceva fatica a correggere. Per i primi tempi, per tutto il primo anno di università, alle domande entusiastiche di Oikawa che gli chiedeva notizie sulla sua nuova squadra, Iwaizumi aveva sempre risposto così:
   – Loro non sono al tuo livello.
   Il suo compagno non si era guadagnato il titolo di Grande Re per niente, e ciò valeva non solo per la sua tecnica infallibile, ma anche per l’armonia che riusciva a stabilire con i suoi attaccanti – cosa che, con Iwaizumi, era amplificata centinaia e centinaia di volte, perché il loro modo di giocare era nato e si era sviluppato in parallelo, era simile e complementare, e più che capire i pensieri dell’altro, Oikawa e Iwaizumi pensavano le stesse cose, in campo o meno.
   Anche Oikawa, con sua enorme sorpresa, aveva detto la stessa cosa. A dire il vero Iwaizumi evitava sempre, rigorosamente, di fargli domande sulla squadra in cui giocava adesso. Era la squadra che aveva fatto innamorare Oikawa di quello che faceva e, ancor di più, era una squadra che Iwaizumi temeva di non poter raggiungere. Quegli attaccanti forti, agili, veloci, con cui Oikawa aveva sognato di giocare e con cui ora giocava davvero, non da ammiratore ma da loro pari, sembravano irraggiungibili per l’abilità e l’esperienza di Iwaizumi, che gli sembravano troppo scarse.
   E così Iwaizumi glielo aveva chiesto una volta sola, durante una chiamata in cui Oikawa aveva iniziato a lodare entusiasta i suoi attaccanti. – Quindi, i tuoi compagni sono…
   – Non sono al tuo livello, – aveva risposto Oikawa subito.
   Iwaizumi era rimasto in silenzio.
   – Cosa c’è, Iwauccio? Ti mancavano i miei complimenti?
   Ma anche se Iwaizumi gli aveva dato del cretino, troncando la conversazione, in realtà una felicità indicibile lo colse quando si rese conto che Oikawa era serio – non poteva fraintendere il suo tono – quando lo diceva, usando le sue stesse identiche parole. E per molto tempo aveva continuato a pensarci senza mai togliersi dalla testa quel concetto: nemmeno per Oikawa gli altri attaccanti erano al suo livello, nemmeno per lui esisteva una banda con la quale si incastrasse alla perfezione come con Iwaizumi. 
    Oikawa si era dato anima e corpo alla pallavolo anche dopo il liceo: non aveva quasi avuto bisogno di fare un provino, erano stati i video delle partite dell’ultimo anno a parlare per lui. Aveva continuato la vita di sempre e, forse, la pallavolo l’aveva assorbito ancora di più di quanto non avesse fatto al liceo, ora che non c’erano più né lo studio, né la famiglia di mezzo: di questo aveva potuto rendersi conto Iwaizumi durante le prime, lunghe telefonate di Oikawa. Per lui non era stato lo stesso. C’erano ancora lo studio e le responsabilità a mettere un freno alla sua passione.
   – Ora che ci penso, Oikawa, – aveva detto una volta, – se sono diventato una persona affidabile è solo per te.
   – Per me? Sono davvero così importante, Iwauccio? – aveva risposto Oikawa ridendo e facendo una voce tenera.
   Sì, avrebbe senz’altro voluto rispondere Iwaizumi. Ma invece aveva detto: – Perché non volevo diventare un fissato come te, brutto cretino.
   – Se lo avessi fatto avremmo vinto le semifina…
   – E taci, idiota, – lo interruppe Iwaizumi. – Se lo avessi fatto, alle semifinali non ci saremmo neanche arrivati.
   Oikawa tacque per un po’. Iwaizumi si era abituato a questi silenzi, quando Oikawa rifletteva davvero intensamente su qualcosa, e in quel momento, chiudendo gli occhi, gli sembrava che fossero nella stessa stanza, vicini. – Hai ragione, – aveva risposto Oikawa infine, sottovoce. – Sono grato che tu lo sia.
   Era ancora preso dalla vita di tutti i giorni, certo – una vita che a volte diventava così difficile, lontano da casa sua, dai suoi amici, da lui, che Iwaizumi dubitava della sua stessa forza, quando era lontano da tutti e nessuno poteva vederlo. Ma anche così, e proprio per questo, trovava sempre il tempo di rispondere alle chiamate di Oikawa, che arrivavano sempre in momenti inaspettati, e che duravano sempre più di quanto Iwaizumi avesse pensato. Iwaizumi sapeva che Oikawa era in grado di percepire quel suo stato d’animo, quella tendenza, a volte, a non sentirsi abbastanza. Oikawa stesso la conosceva bene, Iwaizumi aveva imparato a toccare e prendere per mano quella parte di lui, con gentilezza e pazienza. Oikawa stava facendo lo stesso, a modo suo – chiamandolo, parlandogli della sua giornata, dei suoi progressi con la squadra… facendo in modo che Iwaizumi dimenticasse, almeno durante quelle telefonate, i chilometri fra di loro, e l’inevitabile rivalità che ci sarebbe stata fra loro, la prossima volta che si sarebbero ritrovati sullo stesso campo.
   Oikawa aveva mantenuto la promessa, per i primi tempi, l’aveva fatto davvero. Quando il primo anno di università era finito, e con esso anche le partite del campionato di quell’anno (la squadra di Iwaizumi era stata eliminata ai quarti di finale), Iwaizumi si era fatto coraggio: l’Argentina non era molto lontana, e poi lui poteva permettersi qualche sfizio… Ma no, come avrebbe potuto considerarlo uno ‘sfizio’? si era detto durante il viaggio, mentre guardava fuori dal finestrino verso le nuvole che si distendevano infinitamente davanti ai suoi occhi. Era sempre lui, aveva continuato a ripetersi mentre scendeva dal taxi. Era lo stesso di sempre, si era detto mentre lasciava l’albergo con la stessa velocità con cui ci era arrivato. Era lo stesso Tooru Oikawa di sempre, aveva cercato di convincersi quando si era seduto sugli spalti del palazzetto. Già, ma se era lo stesso di sempre, perché si era sentito in dovere di fare qualcosa di così grandioso? – l’aveva incalzato l’altra metà di lui. Perché si era precipitato qui senza dirgli niente, e per settimane, alle domande petulanti di Oikawa per telefono, aveva semplicemente risposto che avrebbe passato le vacanze estive “nel dormitorio, finché non l’avrebbero cacciato”?
   Guarda la mia partita in televisione, Iwauccio, gli aveva intimato Oikawa al telefono, il giorno prima.
   Non ci sono le partite dell’Argentina in televisione, idiota, aveva risposto Iwaizumi avvampando. Ma in realtà non sapeva nemmeno se le trasmettessero davvero, e in ogni caso non l’avrebbe guardata in televisione, perché era la finale, e non poteva non assistere dal vivo. Perciò quando Oikawa entrò in campo per il riscaldamento, ad Iwaizumi passarono di mente tutti gli interrogativi che l’avevano tenuto occupato fino a quel momento, e anche tutte le frasi che si era ansiosamente ripetuto per convincersi: c’erano solo lui, il suo modo di giocare e la sua squadra, e Iwaizumi non gli staccò gli occhi di dosso nemmeno per un secondo. Da dove era seduto, Oikawa non poteva vederlo, mentre lui era perfettamente in grado di vedere quanto fossero potenti i suoi salto spin – molto più dell’ultimo allenamento dell’Aoba Josai e di quanto riteneva possibile –, di quanto fossero precise e spettacolari le sue alzate, e di come fosse in grado di giocare in qualsiasi ruolo senza mai mostrare una falla o un segno di cedimento. L’Atletico San Juan era una squadra ancora più perfetta di come Oikawa gliel’aveva descritta per telefono, e i loro avversari erano spiazzati dalla forza di quel nuovo alzatore stupefacente, il più giovane giocatore dell’Atletico e uno dei più giovani dell’intero campionato. Oikawa non era un genio e ci teneva a ripeterlo, ma di certo i suoi avversari, e forse i suoi stessi compagni di squadra, dovevano pensare che quel giovane atleta, che da un club di pallavolo del liceo era diventato alzatore titolare in una squadra di quel livello, e continuava a fare quelle straordinarie alzate, e quei recuperi, e quegli ace uno dopo l’altro, doveva decisamente esserlo.
   Oikawa calcava il campo della finale come se l’avesse già fatto milioni di altre volte, e in quel momento ad Iwaizumi sembrava davvero diverso: non poteva essere la stessa persona che un anno prima aveva perso contro il Karasuno, così forte e abile e sicuro di sé, volando da una parte all’altra del campo, sollevandosi così in alto che i suoi piedi non sembravano mai toccare terra.
   Ma, a dire la verità, Oikawa non era cambiato molto: era lo stesso ragazzo a tratti infantile e arrogante, fissato con la pallavolo e con la squadra, solo, stavolta, non in veste di capitano. E anche fisicamente era lo stesso: gli stessi capelli troppo lunghi e annodati, lo stesso corpo asciutto e muscoloso, le stesse ginocchiere che usava da sempre.
   – Ma dai, idiota di un Oikawa, usi ancora quelle scarpe distrutte? – disse Iwaizumi quando Oikawa si alzò dopo aver fatto stretching. Aveva sceso le scale come una furia, ma quando era arrivato a pochi metri da lui si era costretto a calmarsi, a riprendere la sua compostezza. 
   Non si era di certo aspettato che Oikawa cambiasse completamente direzione, voltandosi verso di lui. In effetti Iwaizumi aveva gridato per farsi sentire da lì, e Oikawa, nel vederlo, aveva fatto un’espressione a dir poco scioccata, un’espressione che non lo si vedeva fare molto spesso. Ma quello che Iwaizumi non si aspettava era che Oikawa corresse vero di lui e saltasse in alto, sopra la ringhiera, per atterrare sopra di lui.
   – Iwauccio, hai visto? Hai guardato la mia partita? Hai visto che 3-1 fantastico è stato? – a dir poco gli urlò Oikawa nell’orecchio, ancora abbracciandolo. – E comunque, queste sono le mie scarpe fortunate…
   Oikawa non l’aveva ancora lasciato andare.
   – Le vostre bande non sono niente male, – disse Iwaizumi. – Mah, meglio di quanto mi aspettassi, bastardo…
   – Meglio? Quindi ancora meglio dell’ultima partita?
   – Non direi, non l’ho vista…
   Oikawa lo guardò con sguardo truce, staccandosi da lui.
   – Sei cresciuto ancora, bastardo? Sei diventato più alto… – disse subito Iwaizumi inclinando la testa per guardarlo.
   – 187 centimetri, – rispose fiero Oikawa, indicando se stesso, il gesto che faceva da tempo immemore.
   – Cosa vi danno da mangiare? O è stato il sole a farti crescere così? – Iwaizumi stava ancora parlando quando Oikawa gli mise una mano sulla schiena, all’altezza delle scapole, e iniziò a spingerlo verso un lato del campo.
   – Gli sconosciuti non entrano negli spogliatoi, Tooru, – sentì un giocatore urlare in inglese ad Oikawa quando entrarono negli spogliatoi disordinati, con grande imbarazzo di Iwaizumi.
   – Non è uno sconosciuto! – esclamò Oikawa di rimando. – Lui è il miglior partner che abbia mai avuto, – disse poi, in spagnolo, mettendogli le mani sulle spalle. (Iwaizumi aveva imparato un po’ di spagnolo, da quando viveva negli Stati Uniti, per quell’unico scopo: impedire ad Oikawa di non farsi comprendere.) Iwaizumi sorrise fra sé, mentre Oikawa lo aggirava per cambiarsi.
   Non era solo diventato più alto, era più atletico e in salute, e Iwaizumi non poté fare a meno di fissarlo quando si tolse la divisa sudata e, lentamente, cercando di non forzare i muscoli già provati dalla partita, si mise l’uniforme da allenamento. Oikawa gli dava le spalle, cosicché Iwaizumi era in grado di osservare la sua schiena larga, allenata, dove non era più così evidente la sagoma della spina dorsale, e nemmeno l’osso della spalla. Non erano più dei ragazzini, non avrebbe dovuto, alla sua età, restare ancora incantato davanti al corpo di Oikawa, e per giunta davanti ai suoi compagni di squadra… ma questo pensiero fu subito rimpiazzato da un altro, quando,
   – Mi offri la cena, Iwauccio, vero? – esclamò Oikawa tirando su la cerniera della felpa azzurra, voltandosi finalmente verso di lui. – Sto morendo di fame, penso che potrei svenire…
   – Sei tu il pro player fra noi due. Pagala tu, la cena.
   – Quanto sei avaro! – disse Oikawa, salutando, nel frattempo, con un cenno della mano, i suoi compagni di squadra.
   – Non venite con noi, Tooru? – gli gridò dietro un altro giocatore, quello che Iwaizumi riconobbe come il libero.
   – Per stasera dovrete scusarci, – rispose Oikawa nel suo spagnolo già scorrevole. Iwaizumi aveva la sensazione che ogni parola sembrasse ancora più ambigua e ammiccante, quando era lui a pronunciarla. – Ma la prossima volta non mancheremo.
 
   Buenos Aires aveva accolto a braccia aperte Oikawa, a cui i freschi e scattanti proprietari del ristorante si erano rivolti con grandi sorrisi e familiarità. – Un’altra vittoria, cariño? – gli sorrise la donna di mezza età che stava dietro alla cassa quando lo vide arrivare.
   – Non vi libererete di me tanto facilmente! – rispose Oikawa sorridendo prima di camminare nella direzione opposta, attraverso la sala gremita. Iwaizumi lo seguiva sempre, camminandogli a fianco.
   Era un bel ristorante sulla costa, con una grande sala interna e una veranda dove era possibile prendere posto a dei piccoli tavoli. Oikawa camminò a passo sicuro fino ad un tavolo agli estremi della veranda, proprio sulla balaustra che affacciava sul litorale.
   – È una serata così bella per non godersi il panorama, no? – disse. – Ti piace l’Argentina, Iwauccio?
   – Non… non ho avuto il tempo di visitarla.
   – Ma non mi dire, – disse Oikawa entusiasta, appoggiando il mento su una mano, – sei arrivato qui e sei corso subito a vedermi giocare? È così?
   Iwaizumi sbuffò. – Non sei stanco dopo aver giocato quattro set? Hai tutta questa voglia di fare battute sarcastiche?
   – Io sono serissimo. E comunque perché dovrei sentirmi stanco? Sono così pieno di energie, le partite mi danno una carica….
   Iwaizumi lo guardò, preoccupato. Oikawa lo fissava senza dire nulla, distogliendo lo sguardo, ogni tanto, solo per guardare alla sua destra, verso la spiaggia affollata, lenta, invitante.
   – Forse non è il caso di stare all’aperto, hai sudato e potresti prendere vento…
   – Ma cosa sei, Iwauccio, mia madre? – esclamò Oikawa senza smettere di sorridere. Era così raggiante che, quasi, avrebbe potuto far dimenticare ad Iwaizumi la miriade di preoccupazioni che gli stava passando per la testa in quel momento. Ma non erano ancora arrivati a quel punto della serata, perché Iwaizumi, dopo aver fatto del suo meglio per cercare le parole, disse:
   – Hai fatto dei salti pericolosi, stasera. – Per qualche secondo tacque. Oikawa lo guardava intento. – Fai così durante tutte le partite? E in allenamento?
   – Io do sempre il massimo, Iwauccio. È il minimo che possa fare.
   – E alla tua caviglia non ci pensi minimamente?
   Oikawa esitò per un istante, il sorriso scomparve dalle sue labbra. Iwaizumi si maledisse per il tono sprezzante e lamentoso che aveva impresso a quella frase, ma ormai era troppo tardi perché potesse correggerlo.
   – La mia caviglia fa il suo dovere. È a posto, – rispose semplicemente. – E poi, che bisogno c’è di preoccuparsi per un infortunio così insignificante? Eravamo alle superiori…
   – Non hai fatto un allenamento adeguato, alle superiori, – rispose Iwaizumi senza esitare. – Ti servono fisioterapia e allenamenti specifici e soprattutto qualcuno che ti ricordi di fare queste cose. E che tu non faccia acrobazie solo per amor dell’effetto.
   Oikawa lo guardava con gli occhi spalancati, le labbra leggermente curvate. Si era sporto ancora più in avanti sul tavolo, e Iwaizumi, in tutta risposta, si sentiva come incollato allo schienale della sedia.
   – L’università ti ha fatto quest’effetto? Ti fa sentire legittimato a farmi la paternale? – disse poi Oikawa, serio.
   – Lo sono sempre stato e lo sai.
   – Hai ragione, Iwauccio, ma non hai niente da temere. E poi la fisioterapia è così noiosa…– esclamò cambiando tono, – E poi tu sei lontano, e non voglio farla con qualcun altro…
   – Ti sembro un fisioterapista, razza di idiota che non sei altro?
   – No, Iwauccio. Tu sei il mio angelo custode.
   Oikawa non smise di sorridere mentre diceva questa frase. Iwaizumi ebbe la sensazione di perdere un battito vedendo quel sorriso, puro, spontaneo, quel sorriso che era così raro vederlo fare.
   Iwaizumi ebbe tutto il tempo delle ordinazioni per ingoiare il groppo che era andato formandosi nella sua gola. Avrebbe voluto spegnere il cervello e godersi semplicemente quella serata con Oikawa, con il suo amico di sempre, e comportarsi come quando erano compagni di squadra. Ma c’era qualcosa di diverso. Avevano sempre avuto l’abitudine, dopo una vittoria, di andare a mangiare fuori, loro due da soli. Ma quella sera, in quel ristorante sulla costa di Buenos Aires, sembrava qualcosa di più di una cena tra amici. Era come una loro festa personale, ma non per la vittoria. Come se stessero celebrando qualcosa che – non era accaduto – Iwaizumi doveva ancora afferrare.
   – Io…– esordì Iwaizumi quando furono di nuovo soli. – Durante l’ultima partita, quando facesti quel salvataggio fantastico…
   Oikawa sapeva già di cosa stesse parlando. 
   – Avrei dovuto pensare solo all’alzata, ma non ho pensato altro al fatto che avresti potuto non rialzarti, – concluse Iwaizumi. Ricordava ancora il terrore per quel salto, e per la caduta che ne era derivata; e il sollievo quasi folle quando Oikawa era tornato in campo come se niente fosse.
   – Non l’avrei mai lasciata cadere. Il mio compito è quello di farti le migliori alzate possibili, e di darti ogni possibilità di attaccare, – rispose Oikawa a voce bassa. – Era una partita che avrei voluto vincere.
   – Sei migliorato molto, da allora, – disse Iwaizumi. Ma forse, pensò Iwaizumi, nonostante quell’ultima fatale ricezione, che Oikawa non aveva mai smesso di rimproverarsi e che si rimproverava ancora, in quell’occasione non era stato lui, era stata la squadra a mancargli, l’intera Aoba Josai con i suoi difetti e le sue crepe, e anche Iwaizumi stesso. – Ma anche allora, non c’era nessuno migliore di te.
   – Perché ti fai prendere dai ricordi, Iwauccio? – rise Oikawa. – La tua squadra di adesso ti fa così schifo? Com’era il motto della squadra di quei bastardi? “Non ci servono…
   – “Non viviamo di ricordi”, – rispose Iwaizumi. – E comunque, ti ho già detto cosa ne penso, della mia squadra di adesso. È pur sempre la mia squadra.
   – Be’, per farvi eliminare ai quarti, tanto scarsi non lo siete, no? – disse Oikawa guardando la cameriera che portava i piatti al loro tavolo. La ringraziò gentilmente per entrambi, per poi buttarsi sul cibo.
   – Se fossimo stati noi…– disse Iwaizumi, – Se fosse stata la tua squadra, a farsi eliminare ai quarti, avresti detto che eravate da buttare.
   – Hanno te, quindi non siete scarsi.
   Iwaizumi iniziò a sentirsi avvampare. Fece del proprio meglio per nascondere quel calore abbassando il viso sul piatto, ma esso sembrava solo peggiorare. – Da quando sei così affettuoso, cretino?
   – Stai dicendo che non sono abbastanza affettuoso con te, Iwauccio? – chiese Oikawa con la bocca piena, alzando lo sguardo.
   – Riesco già a vedere come ti affogherai, – rispose Iwaizumi.
   La cena fu più rapida del previsto. La parrilla mixta era stata finita quasi tutta di Oikawa, e anche degli altri piatti non restarono avanzi. Alla fine, dopo che Iwaizumi ebbe davvero pagato – borbottando e minacciando Oikawa di derubarlo –, uscirono dal ristorante.
   – Be’? Ti piace la cucina argentina? – chiese Oikawa raggiante.
   – Se mangiassi questa roba tutti i giorni, non potrei essere un atleta…
   – Come sei rigido, Iwauccio. Invece è molto interessante.
   Camminavano fianco a fianco, perfettamente sincronizzati, con le mani in tasca. Ma dopo una trentina di passi Oikawa si fermò sotto un lampione, pensieroso.
   – Cos’hai? – gli chiese Iwaizumi voltandosi.
   Dopo qualche secondo Oikawa sollevò la testa e piantò gli occhi nei suoi, serio, in silenzio. Se anche Iwaizumi avesse voluto distogliere lo sguardo, non avrebbe potuto. Non mentre Oikawa lo guardava in quel modo, come se stesse cercando qualcosa. Erano vicini, forse più vicini di quanto avrebbero dovuto essere, perché Iwaizumi poteva sentire il soffio calmo e regolare del suo respiro nelle orecchie, e perché c’era una forza attrattiva a cui diventava sempre più difficile resistere…
   – Be’, dove si va? – chiese Oikawa in un sussurro, con un tenue sorriso. – Da me, immagino?
   Iwaizumi annuì senza dire altro.
 
   Iwaizumi iniziava a sentirsi intontito, dopo quella camminata a vuoto fino alla stazione e il lunghissimo tragitto in taxi – pagato da Oikawa – per arrivare a casa di quest’ultimo. Ma c’erano anche il viaggio, il cibo pesante e la partita ad aggiungere un ulteriore peso a quello che già chiudeva sempre di più le sue palpebre.
   – Vuoi qualcosa da bere, Iwauccio? – disse Oikawa facendogli strada. Era una casa piccola, ma Iwaizumi era già stato informato del fatto che sarebbero stati da soli, perché Oikawa avrebbe odiato avere un inquilino. Quando intercettò il divano, Iwaizumi ci si gettò a peso morto.
   – Acqua. Come fai a non dormire dopo una partita? Cosa vi danno da mangiare?
   – Stai perdendo il tuo vigore, Iwauccio, – disse Oikawa sedendosi accanto a lui dopo qualche secondo, mettendogli in mano il bicchiere. Era davvero un caso se le loro gambe si toccavano? si chiese Iwaizumi. – Sicuro di non voler provare ad allenarti un po’ con il San Juan?
   Iwaizumi voleva rispondere: Vorrei. E invece, colto un po’ dal sonno, un po’ dall’euforia nel constatare che non poteva essere un caso se Oikawa era stato appiccicato a lui prima nel taxi, e ora sul divano, disse:
   – Fino a quando posso restare?
   – Davvero verrai ad allenarti con il San Juan? – esclamò Oikawa estasiato. – Sarai l’attaccante più forte della squadra, te le alzerò tutte, tutte!
   – Non… – disse Iwaizumi. – Adesso. Qui.
   – Ma che domande fai, Iwauccio? – rispose Oikawa. – Casa mia è casa tua.
   Iwaizumi sapeva che si trattava di una frase fatta, lo sapeva davvero. Eppure il tono di Oikawa era così diverso, e tutto di quella serata era stato diverso… quando Iwaizumi aprì gli occhi, il viso di Oikawa era illuminato solo dal bagliore del televisore davanti a loro, proprio come quando, anni prima, restavano a guardare partite fino a notte fonda.
   Successe lentamente. Oikawa si fece avanti con gentilezza, prendendosi il suo tempo. Iwaizumi, che finora aveva lottato per tenere gli occhi aperti, ormai non aveva più bisogno di lottare, perché i suoi occhi si erano spalancati quando aveva sentito il respiro di Oikawa vicino, sulla sua pelle. Fu un tocco quasi impercettibile, quello delle labbra di Oikawa contro le sue. Ad Iwaizumi sembrò che passasse qualche secondo prima che la pressione sulle sue labbra aumentasse, o forse semplicemente la stanchezza faceva in modo che il tempo scorresse più lentamente per lui. Ma ora Iwaizumi si sentiva decisamente sveglio, sapeva che quello non poteva essere un sogno. Le labbra di Oikawa che si muovevano sulle sue erano reali, e anche il modo in cui Iwaizumi gli rispose era reale.
   La sua mano era andata a posarsi sulla nuca di Oikawa, afferrando le ciocche più lunghe dei suoi capelli annodati, mentre quella di Oikawa era passata dapprima sul suo viso, poi sulla sua spalla, e poi l’aveva lasciata scorrere dolcemente fino al suo fianco, dove si era fermata, e dopo un po’ le dita di Oikawa erano affondate nella sua pelle, e Iwaizumi si era trovato premuto contro i cuscini del divano, la presenza imponente ma gentile e affettuosa di Oikawa sul suo corpo. Quasi non si staccava per prendere fiato, e Iwaizumi, da parte sua, avrebbe voluto non staccarsi mai.
   Quanto andarono avanti, avvinghiati sul divano di casa sua, con il televisore che continuava a blaterare in spagnolo in sottofondo, Iwaizumi non avrebbe saputo dirlo. Oikawa lo teneva ancora intrappolato, sopra di lui, quando erano stati interrotti da un fischio. Oikawa si era subito voltato, e da lì Iwaizumi aveva osservato il suo profilo, il suo viso illuminato dalla luce bianca, e si era concentrato sulle sue labbra gonfie, dischiuse…
   – Guardami, Iwauccio, – disse Oikawa.
   – Ti sto guardando.
   – Lì, – disse Oikawa, facendo un gesto con il mento. – Quello sono io.
   In televisione stavano trasmettendo dei momenti della partita di quella sera, per celebrare la vittoria in finale del San Juan. Un primo piano di Oikawa lo raffigurava nei pochi secondi prima del fischio dell’arbitro che desse via al suo servizio. La pelle sudata, i capelli attaccati alla fronte, e la bocca dischiusa da cui respirava affannosamente. Gli occhi concentrati sul campo, sulla metà avversaria. Iwaizumi aveva sempre guardato lui, prima del suo servizio; infinite volte era stato ripreso dall’allenatore per quella mancanza di attenzione per gli avversari, ma Iwaizumi la trovava semplicemente una scena imperdibile. E poi eccoli, il fischio dell’allenatore ed il servizio di Oikawa. Violentissimo e velocissimo, le telecamere non avevano fatto in tempo a riprendere il momento in cui la palla si schiantava al suolo vicino alla linea del campo avversario. Oikawa esultò sottovoce quando lo vide, quasi non fosse stato uno dei tanti servizi che aveva perfettamente mandato a segno quella sera.
   – Dici che lo staranno vedendo anche a casa, Iwauccio? – chiese Oikawa, poggiando comodamente il braccio sinistro sulla spalliera del divano. La mano destra rimase poggiata sul fianco di Iwaizumi, ferma e sicura.
   – Sì, penso che Tobio ti stia guardando, – rispose Iwaizumi. Non c’era bisogno di chiedergli cosa intendesse con quella domanda. – O che lo farà. E anche tutti gli altri.
   Dopo qualche secondo dedicato alla squadra avversaria, sullo schermo apparve un’altra ripresa ravvicinata di Oikawa mentre la alzava al suo compagno in prima linea, e la sua espressione esultante quando l’attacco andò a segno.
   – Sei la nuova star della pallavolo argentina. I cameraman vanno pazzi per te, – disse Iwaizumi serio.
   – E come puoi dargli torto, Iwauccio? Hai visto questo bel viso? – disse Oikawa voltandosi di nuovo verso di lui. Iwaizumi gli sorrise semplicemente, un vero, largo sorriso che non faceva ormai da non sapeva quanto, mentre Oikawa continuare a blaterare qualcosa per gonfiare il proprio ego, anche se Iwaizumi sapeva che quello era tutto il suo entusiasmo ed il suo orgoglio per essersi visto finalmente vincitore e riconosciuto pubblicamente.
   – Cavolo, che invidia, – disse Iwaizumi voltandosi di nuovo verso il televisore. Ora stavano trasmettendo delle scene delle partite precedenti, che avevano portato il San Juan alla vittoria di quella sera. – Non riesco a sopportare che tu venga esaltato così tanto, come se non fossi già uno stronzo impertinente.
   – Te l’avevo detto che sarei diventato famoso prima di te, – rise Oikawa facendogli la linguaccia. In quel momento Iwaizumi era tornato ad essere consapevole di come Oikawa l’avesse spinto sempre più giù sul divano, fino a farlo distendere completamente. Oikawa si era abbandonato sopra di lui, la mano destra ancora fissa sul suo fianco, la mano sinistra che si muoveva in continuazione per garantirgli un qualche equilibrio. Ormai Iwaizumi era certo di non provare più nessuna stanchezza.
   – Stai zitto, razza di idiota ignorante, – rispose Iwaizumi. – Io mi sto facendo una cultura, a differenza tua.
   – Ma se avevo voti più alti dei tuoi, al liceo…
   – È perché non mi piacevano i professori! E poi, come avrei potuto concentrarmi con la tua presenza soffocante? Anche dopo gli allenamenti… Ma come facevi a studiare? Sempre con, “Te ne alzo un’altra”, oppure, “Guardiamo questa partita”, oppure, “Andiamo a giocare con Takeru”… Eri veramente soffocante, io non…
 Lo sproloquio di Iwaizumi venne messo a tacere quando Oikawa lo baciò di nuovo, con foga, con tutte le proprie forze. Iwaizumi non ci pensò due volte prima di ricambiare con la stessa veemenza con cui l’altro lo stava stringendo, le mani che scorrevano sulla sua schiena ampia. Gli sembrava ancora una cosa irreale, dentro di sé avrebbe ancora voluto gridare e piangere dalla gioia, dopo quel primo bacio così fantastico, che il secondo lo travolse con tutta la potenza delle emozioni che Iwaizumi si era tenuto dentro per anni, con tutto l’amore con cui Iwaizumi aveva guardato Oikawa giorno dopo giorno, e che ora voleva finalmente riversare su di lui.
   – La tua “cultura” ti ha reso più scorbutico di prima, Iwauccio, – disse Oikawa, staccandosi per riprendere fiato. – Una bella vacanza a Buenos Aires ti farebbe bene…
   – È per questo che sono qui, razza di cretino.
   – E non per vedere la mia strepitosa partita? – esclamò Oikawa, quasi strillando.
   – Che razza di vacanza è, con te? – sbuffò Iwaizumi.
   – Stai sorridendo! Guarda che ti vedo! Sei un bugiardo, Hajime Iwaizumi…
   – E tu sei sempre lo stesso sbruffone irritante e spocchioso…
   Oikawa sorrideva.
   –…Tooru Oikawa, – concluse Iwaizumi. – E, per la cronaca, puzzi da fare schifo.
   – Ma ti sei sentito? Sicuro di non voler usare la doccia prima di me? – disse Oikawa puntandogli un dito – sinistro – a pochi centimetri dal viso. Iwaizumi lo colpì sulla tempia.
   Ma alla fine, con suo grande rammarico, Oikawa si alzò davvero per fare la doccia, sollevandosi con cautela dal corpo dell’altro. – Non crollare come un bambino, ok? – gli disse Oikawa prima di sparire nel corridoio.
 Non appena sentì lo scatto della porta del bagno, Iwaizumi si alzò lentamente dal divano, poi fece un giro della casa: la piccola cucina, con un’ingombrante penisola di marmo che occupava quasi tutta la stanza, a sinistra dell’ingresso, il salotto separato da una parete da cui era appena uscito, e alla fine dello stretto corridoio la camera di Oikawa, che non era in condizioni molto diverse da quelle della sua stanza al dormitorio del liceo. Per terra c’erano due palloni, il letto era sfatto, la scrivania era piena di libri, principalmente in spagnolo (più che altro dizionari e libri sull’alimentazione), e su una gruccia appesa in una posizione precaria all’appendiabiti c’era la tuta variopinta che Oikawa usava per andare a correre ogni giorno, presumibilmente appena lavata.
   Senza farsi troppi scrupoli, Iwaizumi aprì il grande armadio a due ante, dove, su una pila di vestiti simili, trovò un paio di pantaloni della tuta abbastanza larghi per lui e una felpa che gli sembrava familiare. Quando Oikawa uscì dalla doccia, Iwaizumi si era già cambiato ed era tornato sul divano, dove si sforzava di afferrare qualcosa dei programmi in spagnolo in televisione.
   – Allora li avevi messi tu, – esclamò Oikawa comparendo sulla soglia. – Stavo cercando quei vestiti. Non ti hanno insegnato nemmeno le basi dell’educazione, eh, Iwauccio?
   – Parli di questa felpa? Che mi hai rubato due anni fa? – rispose Iwaizumi calmo. – E non metterti a strillare a quest’ora, brutto idiota che…
   In tutta risposta Oikawa corse verso di lui e, piegandosi in avanti, si mise a scuotere la testa convulsamente, facendo sì che i suoi capelli bagnati gocciolassero sui vestiti di Iwaizumi. Questi lo prese per le braccia e lo spinse via, ovviamente invano, perché subito Oikawa piombò al suo fianco e nascose la testa nell’incavo della sua spalla.
   – Perché devi essere così fastidioso? Mi stai bagnando la spalla… – si dimenò Iwaizumi, ma Oikawa gli aveva circondato il busto con le braccia, immobilizzandolo. – Se vuoi ammalarti fallo pure, ma…
   – Stai zitto, Iwauccio, – lo interruppe Oikawa con tono calmo, a bassa voce. – E non muoverti.
   Iwaizumi fece come gli aveva detto. Dopo un po’, vedendo che Oikawa non si era mosso di un millimetro, ancora stretto dal suo abbraccio, disse piano:
   – Oikawa…
   – Sei sempre così serio, Iwauccio, – rispose Oikawa. – E hai anche detto che io non sono abbastanza affettuoso con te…
   Iwaizumi fece del suo meglio per tastare la fronte di Oikawa da quella posizione. Aveva i palmi leggermente sudati, ma poté percepire che Oikawa non aveva la febbre. Tuttavia temeva comunque che cadesse ammalato, dopo quella giornata estenuante, e per di più quando si rifiutava di andare a dormire.
   – Se vai a dormire adesso, accetto di dormire sul pavimento, – disse Iwaizumi serio. – Ma se tardi di un altro minuto non lo farò, quindi…
   Oikawa fece un verso soffocato contro la spalla di Iwaizumi, poi scostò lentamente le braccia e si alzò in piedi. Iwaizumi, poco sorpreso, spense il televisore e si mise a riflettere se il divano non fosse una valida opzione al pavimento. In fondo, aveva le gambe troppo lunghe, però…
   – Iwauccio, – lo chiamò Oikawa dall’altra stanza. – Non ti conviene dormire su quel divano.
   Iwaizumi imprecò ad alta voce, raggiungendolo nella stanza da letto. – Dammi una coperta, – gli disse senza troppi preamboli. Oikawa si era steso, con la luce accesa, sul letto ancora sfatto, senza tirarsi le coperte addosso, rannicchiandosi verso il muro.
   – Se vieni a dormire adesso, accetto di farti spazio, – mormorò Oikawa. – Ma se tardi di un altro minuto non lo farò.
   Iwaizumi, forse con più fretta di quanto avrebbe voluto dimostrare, chiuse la porta e spense la luce. Poi si stese accanto ad Oikawa sul letto troppo piccolo, sentendo il suo respiro tranquillo sul collo.
   – Buonanotte, Iwauccio, – canticchiò Oikawa.
   Iwaizumi non rispose, ma sapeva che Oikawa poteva vederlo sorridere anche con gli occhi chiusi.
 
   Era ormai una costante del loro rapporto che fosse sempre Iwaizumi ad alzarsi per primo, e anche se era passato quasi un anno dall’ultima volta in cui avevano dormito insieme, anche stavolta fu lui ad aprire gli occhi per primo, complici le tapparelle che Oikawa aveva lasciato aperte. La mattina a Buenos Aires era completamente diversa da quella a Sendai, e anche da quella a Los Angeles, a quanto sembrava. Iwaizumi non immaginava come si potesse fare così tanto baccano per la strada, già negli Stati Uniti aveva fatto fatica ad abituarsi a questo fatto, ma Buenos Aires non era nemmeno lontanamente paragonabile a quello a cui era abituato. Anche con la finestra chiusa, pur essendo al quinto piano, ad Iwaizumi sembrava che gli schiamazzi e le auto fossero a pochi metri da lui. 
   Dopo un po’ di tempo, da qualche parte in casa, un telefono iniziò a squillare. E quando Iwaizumi riconobbe che era la sveglia di Oikawa, per poco non gli venne voglia di gettarlo dal letto.
   Ma Oikawa era perfettamente incastrato fra lui e il muro, con gli occhi chiusi ed il viso tranquillo. Iwaizumi, a dispetto di tutto il suo fastidio, si era voltato con la massima cautela, e si era ritrovato il viso di Oikawa a pochi metri dal suo. Oikawa aveva sempre avuto l’abitudine a non muoversi mai mentre dormiva, e inoltre dormiva di un sonno profondissimo e imperturbabile. Era esattamente nella stessa posizione della sera prima, su un fianco, con una mano sul cuscino, fra il suo viso e quello di Iwaizumi. Cosa di cui Iwaizumi non sapeva se sentirsi sollevato o dispiaciuto.
   Iwaizumi si alzò dal letto e andò prima nel bagno, dove Oikawa aveva lasciato la finestra spalancata, si lavò i denti e si spostò nel salotto. Sulla parete di fondo c’erano delle grandi vetrate, che Iwaizumi aveva notato anche prima di entrare nel palazzo, alzando lo sguardo dalla strada, mentre Oikawa cercava le chiavi. Da lì si affacciò un po’ sulla strada affollata. Era un quartiere un po’ decentrato dal fulcro della vita cittadina, che Oikawa aveva scelto principalmente per non dover prendere i mezzi, e raggiungere subito la palestra. Le persone che si salutavano schiamazzando da una parte all’altra della strada, si abbracciavano, chiacchieravano a voce alta. Ad Iwaizumi sarebbe piaciuto conoscere lo spagnolo abbastanza bene da sapere cosa si stessero dicendo, così animatamente, senza curarsi di chi poteva ascoltare, come lui stava facendo. Ma anche così gli sembrava di avere una vaga idea di cosa potessero dire.
   Nella finestra di fronte alla sua, un uomo fumava con i gomiti appoggiati al davanzale, e guardava in basso, anche lui, verso la strada. Iwaizumi si voltò verso la sua sinistra. Qualche finestra dopo, una donna giovane, presumibilmente la vicina di casa di Oikawa, parlava al telefono, e si passava in continuazione le mani fra i capelli biondi. Ad Iwaizumi sembrava che la vita stesse scorrendo più lentamente, gli sembrava che, se avesse detto a quella vicina, o all’uomo che aveva di fronte, quali erano i suoi pensieri ed i suoi sentimenti, e avesse raccontato tutta la serata precedente, l’avrebbero ascoltato e gli avrebbero parlato con più lucidità di quanta ne avrebbe potuta avere lui, e sarebbe stata la cosa giusta. Se gli avesse detto che da anni era innamorato del suo migliore amico d’infanzia, e che la sera precedente, in quell’appartamento in quel posto sconosciuto, uno dei sogni della sua vita, uno di quelli che non aveva mai pensato potessero accadere, si era realizzato…
   A quel pensiero Iwaizumi si allontanò dalla finestra e la richiuse velocemente, borbottando qualcosa fra i denti. Oikawa stava ancora dormendo beatamente, cosicché Iwaizumi si sedette vicino a lui e iniziò a scuoterlo leggermente per la spalla.
   Non si svegliava. Iwaizumi iniziò a scuoterlo più forte, chiamandolo a voce alta, finché Oikawa non socchiuse gli occhi e lo guardò confuso.
   – Perché mi tormenti? – disse Oikawa, serio, a mezza voce, prima di scostare con un colpo la mano di Iwaizumi e affondare il viso nel cuscino.
   In altre occasioni, Iwaizumi gli avrebbe forse risposto con il tono sarcastico che usava sempre, o magari gli avrebbe persino fatto una battuta innocente. Ma stavolta nulla di icastico gli si affacciò alla mente. Gli era venuto un solo pensiero, così importante che era assolutamente necessario che Oikawa si alzasse dal letto senza fare troppe storie.
   – Se non ti alzi, ti faccio alzare con la forza.
   – Non sei abbastanza forte.
   Ma ancora prima che potesse finire la frase, Iwaizumi gli aveva già fatto passare un braccio sotto la spalla e l’altro sotto le ginocchia, e se l’era caricato addosso. Oikawa alzò la testa di scatto, aggrappandosi al collo di Iwaizumi con le braccia.
   – Lo sapevo che stavi fingendo, – disse Iwaizumi a fatica. Era veramente più difficile del previsto, per quanto non fosse affatto fuori allenamento. Ma questo, ovviamente, non gliel’avrebbe concesso.
   – Mi sembra di essere la principessa che viene salvata dalla torre maledetta, – disse Oikawa prima di essere scaraventato sul divano. – Solo che tu sei l’orco burbero.
   – Solo perché non vuoi ammettere che io sarei un principe migliore di te, – disse Iwaizumi, in piedi davanti a lui. – Ho fame. Hai del cibo decente in questa casa? Cibo commestibile?
   – Cos’è tutta questa fretta? – rispose Oikawa alzandosi. Iwaizumi lo seguì in cucina, dove l’altro iniziò a tirare fuori scatole e sacchetti dalla credenza. Cereali, biscotti dietetici, sacchetti di frutta presa dal congelatore, yogurt, le solite cose che Oikawa mangiava dal liceo.
   – La frutta nel congelatore? Sei diventato completamente deficiente? – sbottò Iwaizumi. Le remore e la reticenza di poco prima l’avevano completamente abbandonato.
   – Hai mai provato il caldo di Buenos Aires? Ti va di andare a fare una corsetta mattutina, Iwauccio? – rispose Oikawa. – Lo so che ti sei stancato per avermi preso in braccio, ti serve…
   – Perché l’hai fatto?
   Oikawa si voltò verso di lui. Fermo e impassibile. Iwaizumi aveva cercato di dirlo senza esitare, e in realtà l’aveva detto piano, senza sovrastarlo. Comunque Oikawa si era girato senza capire, e lo guardava con occhi curiosi.
   – Fatto cosa?
   – Quello… che hai fatto.
  Non c’era bisogno di spiegarsi meglio, e oltretutto ad Iwaizumi non era nemmeno possibile. Oikawa si rivolse completamente a lui, poggiandosi con la schiena al ripiano della cucina. Mentre lo fissava, ad Iwaizumi sembrava di vedere l’espressione che aveva quando studiava gli avversari sotto rete: concentrata, lucida e assolutamente spietata. Ma quando capì di essersi completamente sbagliato, Oikawa aveva già iniziato a parlare.
   – Vai via, – disse. – Dimentica tutto, devi andare via. Ho allenamento stamattina, non so nemmeno che ore siano, e si arrabbieranno se non ci vado.
   – Non hai nessun allenamento, lo so…
   – Davvero, fuori, – disse Oikawa. – Ci sono un sacco di cose divertenti da vedere, per esempio…
   Oikawa fu interrotto quando Iwaizumi gli lanciò il pacco di biscotti addosso.
   – Mi dai sui nervi. Non ti sopporto quando fai così.
   – Devo accompagnarti alla porta? La casa è piccola, non dovresti rischiare di perderti, – disse Oikawa raccogliendo i biscotti. – Li hai spaccati tutti, dovresti…
   – Ti ho fatto una domanda, – rispose Iwaizumi.
   – Non so cosa risponderti, – buttò fuori Oikawa senza esitare.
   Rispondere senza pensare, girare intorno alle cose, dare anche in escandescenze se necessario, e soprattutto evitare qualsiasi tipo di contatto: Iwaizumi conosceva bene quella reazione, sapeva quanto Oikawa fosse codardo e incoerente a volte. Ma sapeva anche che non c’era nessun altro motivo dietro al suo comportamento oltre alla sua pura e semplice convinzione, terribile e spaventosa, che gli faceva paura più di ogni altra cosa al mondo, di aver rovinato tutto.
   Il dolore bruciante che lo trafisse a quella risposta, però, non diminuì affatto.
   – Lo so che sei un codardo e un cagasotto, dimmi qualcosa che non so, – rispose Iwaizumi fermo.
   – Te l’ho detto, non so cosa risponderti.
   – D’accordo, allora chiamami quando nel tuo cervello bacato inizierà a formarsi una cosa chiamata idea, – rispose Iwaizumi alzandosi dalla sedia.
    Aveva previsto che sarebbe andata così. Anche se tutto ciò che era successo era inaspettato e assurdo, sapeva che Oikawa avrebbe reagito in questo modo: tagliandolo fuori. Per questo sapeva esattamente cosa doveva fare.
   – Tu lo volevi più di me!
   Iwaizumi era già sulla porta della cucina, quando Oikawa esclamò questa frase. Era ceduto. Ci aveva visto giusto.
   – Non mi sembra di essere quello che ha preso l’iniziativa, – rispose Iwaizumi calmo. – Lo dici solo perché sei un cagasotto e ti fa comodo…
   – Allora perché non ti sei scansato?
   – Per lo stesso motivo per cui non l’hai fatto tu!
   Oikawa lo guardò negli occhi, poi abbassò lo sguardo sulle proprie dita.
   – L’ho fatto perché mi sembrava il momento giusto… – rispose piano. – Sei venuto a vedere la partita, mi hai fatto una vera e propria sorpresa e sai che mi piacciono le sorprese… e poi c’è stata la cena, e poi stavi per addormentarti sulla mia spalla… e io…
   – Sei un animale che non sa controllare i propri istinti, o cosa? Baci tutte le persone che ti fanno una carineria?
   – Non l’ho fatto per le carinerie, l’ho fatto perché volevo farlo!
   – Bene, ora che l’hai ammesso, potremmo…
   – Ti ho detto di andartene! – lo interruppe Oikawa, azzerando la distanza fra loro con un passo e iniziando a spingerlo. Iwaizumi si appoggiò istintivamente agli stipiti della porta, aprendo le braccia. – Ti ho detto di andare via!
    – E smettila di spingermi in questo modo, – Iwaizumi cercò di fermare le mani invadenti – non come avrebbe voluto – dell’altro con una mano. – Finiscila! – scoppiò colpendogli una spalla, e Oikawa arretrò di qualche passo, verso la penisola di marmo.
   – Visto che te ne sei pentito così tanto, perché non mi fai il favore di andartene e smetterla con questa vergogna per entrambi? Sei solo uno stronzo sadico e vendicativo, vuoi umiliarmi apposta per il tuo stupido piacere personale, ma sai che ti dico? Non me ne importa niente, minacciami pure… anzi, non c’è bisogno che mi minacci, vai a raccontarlo ad Hanamaki o a chi vuoi… ma ti ricordo che anche tu…
   – E respira, razza di idiota…
   E Oikawa così fece, perché quando si fiondò su di lui Iwaizumi poté sentire il suo respiro caldo e accelerato sul viso, mentre Oikawa lo baciava di fretta, in modo avventato, senza nemmeno dargli il tempo di rispondere. E dopo qualche secondo, ancora pericolosamente vicino alla sua faccia, Oikawa sembrò di nuovo sul punto di parlare e di sputare fuori altre parole piene di veleno, che Iwaizumi sapeva non poteva pensare davvero, che erano solo il suo modo di proteggersi dalla verità, o meglio di reagire alla paura. Ma proprio perché lo sapeva, Iwaizumi fu più veloce di lui.
   – Posso tollerare che tu mi dia dello stronzo sadico, o che mi sbatta fuori da casa tua, o che mi picchi… – disse Iwaizumi respirando a fatica. – Ma che pensi che io possa averlo fatto solo per poterlo raccontare in giro, per umiliarti… non lo posso sopportare, nemmeno da un cretino come te…
   – E allora perché…
   – Per lo stesso motivo per cui l’hai fatto tu, te lo ripeto…
   Oikawa era più alto di lui di svariati centimetri, era cresciuto e non aveva più il fisico di un adolescente, ma c’era qualcosa che non sarebbe mai cambiato nel suo viso: la sua espressione da bambino spaventato, con cui adesso guardava Iwaizumi, ed i suoi occhioni profondi, lucidi, in cui c’erano solo preoccupazione ed ansia.
   – Quindi non sei…
   – Pentito? No. Ma incazzato con te sì, sempre.
   ­– Non dovresti offenderti se ti do dello stronzo sadico…
   ­– Ma quando hai intenzione di imparare che… – cominciò Iwaizumi, ma poi si interruppe, pensieroso.
   – Io sarò sempre dalla tua parte. Sempre.
   Iwaizumi lo disse d’un fiato, senza esitare, ma lo disse in modo perfettamente calmo, perché entrambi sapevano che era la verità e niente avrebbe potuto cambiarla.
   Qualcosa sembrò tremolare nella figura di Oikawa, quando si voltò dall’altro lato per nascondere il suo viso ad Iwaizumi. –  Iwauccio, posso… – mormorò, con il pretesto stupido di sistemarsi i capelli con una mano. – Hajime…
   – Se devi piangere, almeno prendi un fazzoletto…
   Ma Oikawa si buttò in avanti e lo abbracciò stretto. – Grazie, – disse piano, sospirando.
   In quel momento, mentre lo abbracciava, Iwaizumi si ricordò della promessa che Oikawa gli aveva fatto circa un anno prima, nella sua stanza del dormitorio, prima che partisse per gli Stati Uniti.
   Con addosso la tuta bianca e verde dell’Aoba Josai, seduto sul suo letto, Oikawa gli aveva promesso, guardandolo negli occhi: Farò in modo che la distanza fra noi non esista.
   Iwaizumi non era riuscito a mantenere il suo sguardo, l’aveva abbassato sulle proprie mani, cercando di ricacciare i pensieri dolorosi che si erano affacciati alla sua mente: come avrebbe fatto a stare senza di lui? Partire era davvero la scelta giusta? Non sarebbe stato meglio restare con lui?
   E se Oikawa l’avrebbe sostituito?
   Quest’ultimo pensiero era quello che lo preoccupava più di tutti e lo feriva, quando Iwaizumi ci pensava e ci ripensava e immaginava tutti i modi in cui Oikawa avrebbe potuto farlo.
   Ma Oikawa aveva mantenuto la promessa. Ogni giorno l’aveva chiamato, gli aveva raccontato la sua vita, l’aveva tirato su di morale, aveva continuato ad essere l’unica costante – oltre alla pallavolo – nella vita di Iwaizumi, la sua sicurezza, solo in un modo diverso. Non era riuscito a cancellare quell’enorme distanza fra loro, così abituati a stare insieme sempre, giorno dopo giorno l’uno di fianco all’altro, ma era stato tutto ciò di cui Iwaizumi aveva segretamente avuto bisogno, senza saperlo nemmeno lui stesso. Ancora una volta Oikawa aveva dimostrato di conoscerlo meglio di se stesso.
   E ora, nel loro infinito abbraccio nella minuscola cucina a casa di Oikawa, Iwaizumi voleva solo stringerlo e abbracciarlo e ringraziarlo senza parlare.
   Oikawa lo precedette, perché, come sempre, gli aveva letto nel pensiero: – Iwauccio, ti ricordi… – mormorò sollevando la testa dalla sua spalla. – Quando ti ho promesso che avrei fatto in modo che la distanza non ci fosse?
   Iwaizumi annuì.
   – Forse non ci sono riuscito del tutto, però…
   Iwaizumi catturò le sue labbra, in un impeto che non riuscì a controllare. Sentiva il bisogno fisico di farlo. Eppure mettere a tacere Oikawa non era così semplice:
   ­– Ti prometto che farò in modo che ne valga la pena.
   Iwaizumi guardò Oikawa con le lacrime agli occhi, mentre il sole di Buenos Aires entrava dalla finestra e illuminava il suo viso, felice e carico di speranze.
   
 
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