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Autore: MadLucy    19/04/2022    1 recensioni
[Grindeldore | missing moments | angst | summer 1899]
Di notte, Albus appoggiava la testa sul petto di Gellert, ascoltava i ventricoli del suo cuore pulsare e immaginava il tradimento, per esorcizzarlo, per cacciarlo via.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aberforth Silente, Albus Silente, Ariana Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto, Dai Fondatori alla I guerra
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Albus rientrò in casa e rimase frastornato. Era l’illustrazione da libro più irregolare che avesse potuto immaginare, la camicia da notte di Ariana che si agitava intorno ai suoi polsi per stare al passo con il suo buonumore anziché con la sua paura. «Albus, dovevi vederlo! No, dovevi vederlo!» Poi si voltò, inusualmente perentoria: «Gellert, mostragli quello che hai mostrato a me!» Aveva tirato fuori dalla scatola sotto il letto tutti i capricci da bambina accantonati per mesi, nel tentativo di prendere di meno dagli altri, esistere di meno. 

«Jawohl.» Gellert strappò un frammento di carta dal taccuino che aveva con sé e, in pochi gesti efficaci, lo piegò in un cigno dall’aspetto alquanto convincente, con una maestria che dipinse un sorriso esile sulle labbra di Ariana. Lo appoggiò sul palmo come se fosse una cosa fragilissima di inestimabile valore, qualcosa al di fuori della sua portata che lo stesso non riusciva a impedirsi di volere. Non era difficile immaginare Gellert alla conquista del mondo. Ma per ora era lì, seduto al tavolo della loro cucina, un miracolo del tutto ordinario, con le gambe accavallate e i capelli vichinghi raccolti in modo vanesio. «Allora, chi è il più divertente tra me e tuo fratello?»

«Tu» confermò Ariana in estasi. «Tu cento volte.»

«Visto, Albus?» Gellert inarcò un sopracciglio, con un ghigno lasco e antipatico che riempiva la testa di Albus di pensieri nuovi e ridicoli, stucchevoli come quel cigno. Si finse contrariato. 

«Stai forse corteggiando mia sorella?»

«Certo che sì.»

Ariana ridacchiò, un suono anch’esso stucchevole, anch’esso nuovo. L’innamoramento più puro si leggeva chiaro nel suo sguardo privo di filtri, di nascondigli, e Albus poteva comprenderlo fin troppo bene. Nessuno era più portato di Gellert per raccogliere amore. Si nutriva di ammirazione come un fiore della luce solare, e più l’ammirazione era incondizionata, più i suoi capelli sembravano biondi. 

Ma le cene in quella casa potevano colmarsi di buio –il rumore brusco di una bottiglia di vetro che sbatteva sulla superficie del tavolo, così poco bastava ad Ariana per passare dall’essere un angelo fiammingo distratto nella contemplazione degli altri a contorcersi su se stessa, con la schiena ritorta, emettendo versi gutturali e facendo crollare il lampadario sul tavolo da pranzo. 

Quella per Albus era la forma del male, Ariana paralizzata in uno spasmo conativo per controllare la cosa che era diventata, Ariana che nel pieno del terrore cercava di acquisire sensibilità del magma di distruzione che le franava intorno come di un proprio arto, forzava se stessa ad identificarsi con l’inchiostro e la colpa e il dolore del mondo –e falliva, con le mani che tremavano, il sudore di ghiaccio sul collo, filamenti di sangue nella sclera. Il segreto perfetto della famiglia Silente –aggrappata a una sedia come se il pavimento fosse scomparso, in mezzo ad una nebbia di polvere di intonaco. 

«Oh… oh…» Ariana contemplava mortificata la scenografia fatta a pezzi del suo bel ricordo più recente, tossiva. «Non è vero… Non è vero…»

Albus percepiva così nitidamente la propria inadeguatezza da limitarsi ad aggiustare cose aggiustabili, mormorare incantesimi e guardare altrove. Gellert no. Lo sguardo che posava su di loro, su quella mezza famiglia sfasciata in preda alla disfunzione, era remoto, sereno, come se contemplasse un fiume che può scorrere in una sola direzione, e vedesse oltre, molto più in là.

È una creatura affascinante, gli aveva detto dopo aver incontrato Ariana per la prima volta. Albus non aveva saputo cosa rispondere. Non gli sembrava giusto parlare di lei come se fosse possibile dimenticarsi che, un tempo, era stata solo sua sorella. Però ne era in grado. Gellert si permetteva di essere fin troppo schietto con lui, e questo un po’ gli piaceva, un po’ gli faceva paura. 

Sa cosa la aspetta?

A malapena, e a tratti.

Aberforth l’aveva odiato. Lui sapeva giudicare gli sguardi che si soffermavano su Ariana, e nel suo aveva riconosciuto l’interesse dell’entomologo che analizza un insetto, concentrato e gelido. I suoi sorrisi attraenti non contagiavano quegli occhi. 

Qual è il massimo della distruzione che abbia mai causato?

Albus fingeva con se stesso che Gellert lo chiedesse perché era preoccupato per il loro futuro. Non voleva altro che la sua preoccupazione, lo spazio nella sua mente, il suo tempo, ogni frammento fosse disposto a dargli.

Aberforth era venuto a raccogliere le spoglie sfinite di sua sorella, basta basta è passato, guardandoli accusatorio, assetato di vendetta, come se fosse tutto a causa loro. Ariana li salutava mesta con la mano mentre saliva le scale in braccio a lui, arrossendo di vergogna, come se avesse appena offerto uno spettacolo umiliante. Gellert le spediva un bacio furtivo, le restituiva un briciolo di umanità. Il cigno era tenacemente stretto nel suo pugno chiuso.

Ma c’erano cose che riguardavano soltanto loro due. Albus non poteva crederci che bastasse una porta chiusa. No, dai. Gellert gli aveva semplicemente tolto la voce dalle labbra, con un incantesimo delicato come un soffio, e di colpo l’improbabile succedeva. Gellert rendeva le cose possibili in un modo strano. Entrava dentro di lui e respirava nel suo orecchio. Piano, come se dovesse trattenerlo contro un fondale, o forte, fino a far scricchiolare la testiera del letto di noce contro il muro in colpi sordi. Albus si lasciava atterrire dalla sua bellezza, che senza abiti diventava così evidente da risultare scomoda, e dalla schiacciante preponderanza dei morsi sui baci. Ciò che rendeva il sesso tanto cruciale, per lui, era probabilmente l’analogia con il controllo, o con la morte. 

Gellert era bravo a raccontare, così come era bravo ad inventare, ad evocare. Raccontava di Durmstrang, con le sue vene maestose e sporche, un luogo così suo da essere divenuto mentale, interiore, percorribile dai suoi polpastrelli in qualsiasi luogo al mondo si trovasse, con la sua architettura da prigione e l’acqua infetta. Gli aveva mostrato le cicatrici che si era fatto durante le lezioni, fili traslucidi tra i peli biondissimi delle braccia e del costato, con l’importanza di chi mostra fotografie preziose, e Albus aveva annuito con gravità, fingendo di poter leggere quei segni, di capire che fierezza implicasse quel castigo. Come se la scuola l’avesse morso, marchiato, prima di fagocitarlo. Per Gellert, l’atto di suggellare era fondamentale. 

E che cosa aveva imparato, a Durmstrang?

«Niente» rispondeva senza mezzi termini, scrollando i capelli d’oro grezzo, «se non per i contatti, le persone, i ragazzi che ho conosciuto.» Albus arrossiva. 

«Non essere provinciale» ordinava Gellert. Era un vezzo rimasto dal suono della lingua tedesca; le sue parole sembravano sempre richieste. E Albus gli concedeva qualsiasi cosa. 

Gellert non aveva regole, mentre Albus era stato cresciuto per non saperci pensare, al di fuori. Sotto la sua bocca, il suo cuore era insensibile, era congestionato in qualcosa che era oltre le emozioni. «Ariana non può venire con noi. Devo stare con lei fino alla fine.»

«Con Aberforth è felice –e Aberforth a Hogwarts non impara nulla.»

«Potrebbe vivere ancora dieci giorni, o dieci anni.»

«Infatti.»

Immaginò cosa avrebbe pensato Ariana se avesse saputo che il ragazzo che la incantava con cigni di carta gli stava facendo un pompino per convincerlo a trasformarla in una macchina da guerra o mancare alla sua morte. Ciò che la mente scartava, sospingeva via, il corpo lo restituiva come la risacca, in scosse, brividi, fitte acute. Gellert lasciava che fosse la chimica del suo corpo ad accettarlo, a dargli le risposte che si aspettava; lui ricercava l’assenso, irriflessivo, viscerale, appassionato, tanto che a volte scacciava via le argomentazioni vere e proprie con gesti impazienti. Albus aveva imparato che il corpo non è uno strumento esteso della mente, ha una volontà, ha le sue ragioni, non necessariamente più banali o meno vere. 

«Dobbiamo prenderci dell’altro tempo.»

«Il tempo si sta esaurendo mentre parliamo.»

Il tempo di Ariana, il tempo dell’estate, del loro amore che viveva di così poco, chiacchiere e ragazzate. Ma teorie e sesso non erano all’altezza di ciò che sentivano, per nessuno dei due. 

Decisero di versare sangue. Un’idea di Gellert, ovviamente. Gellert era soltanto in grado di sentimenti simili, tetri, muscolari. Che segano la carne, legano le mani, fiutano la lealtà. Le cose dovevano sempre diventare terribilmente fisiche con lui.

Albus si aprì il palmo con gratitudine, finalmente esprimendo quel languido anelito al sacrificio che gli scoppiava dentro. Del proprio sangue lo avrebbe nutrito, gli occorreva solo un buon motivo. Moriva dalla voglia di fare cose plateali e tragiche per lui. L’amore in circolo ammansiva i pensieri cattivi, i presagi indefiniti, e pompava l’oppio giusto nel cervello. Era sangue quasi stregato, dal potere ambiguo, e nozze scarlatte, che li legavano a doppio filo. Gellert gli aveva concesso un bacio lunghissimo che lo aveva scavato come un artiglio. 

Il corpo di Albus era bendisposto alla manipolazione, ma la sua mente avvertiva lo stridio di qualcosa di storto, come un ultrasuono. Gellert che li guardava come se Ariana fosse già morta e Albus fosse già suo. L’espressione infantile e frustrata che lampeggiava sui suoi lineamenti quando realizzava che ci sarebbe voluto più tempo di quanto credesse per ottenere qualcosa che voleva. Il contrassegno di un cuore incostante e bulimico. Albus odiava capire Gellert. Avrebbe preferito sposare il suo mistero per sempre. L’amore avrebbe dovuto essere più cieco, più indulgente di così. 

Gellert si scaldava. «Amore è una parola per le grandi cose! Gli affetti minori non possono interferire, come una sciocca consolazione di oggi non può essere ciò che impedisce i benefici del domani.» 

Quanto è grande il nostro amore, Gellert? pensava Albus. È minore o superiore, superiore o minore a che cosa? Dammi una risposta convincente, non costringermi a trovarne una per conto mio, perché mi vengono in mente solo cose terribili. 

«Non voglio scegliere quale amore è più importante. Non voglio essere così.»

«Tu sei già così. Ti piace ritenerti incapace di cose di cui invece sei perfettamente capace. Non capisci che insieme possiamo cambiare tutto, davvero?»

«Sì, ma potremmo anche solo fare piccole cose, piccole cose solo per noi.»

Gli faceva così male vedere una smorfia di ribrezzo sul suo volto. «È questo ciò che vuoi essere? Qualcosa di piccolo?»

«Posso anche non essere niente, qui con te.»

Gellert non capiva, o non voleva capire, quanto fosse enorme fargli dire questo, averlo ridotto così. «Parli come un debole.»

«Sei tu che mi rendi debole, mi togli a tutto ciò che sono.» Albus lo sapeva, e non poteva o voleva impedirlo. Voleva consegnarsi come uno stupido regalo. 

«Io lo so chi sei.» Gellert gli saliva sopra, gli comprimeva i fianchi con le cosce, compulsivo. «Io ti consegnerò a te stesso, Albus.» Non era abituato a perdere, e soprattutto a perdere contro di lui.

Oltre una certa soglia di comprensione, tutto si faceva sgranato, sovraesposto, smangiato da una luce spietata. Albus si chiese se l’amore fosse così per tutti, una pazzia che discende a raffiche come un temporale estivo, lealtà militare e sinergia psichica. Nessun altro l’avrebbe amato così. Nessun altro avrebbe trasformato i suoi pensieri in qualcosa di carnale e li avrebbe morsi. Nessun altro gli avrebbe tolto la libertà e dato qualcosa che gli piaceva di più. Gellert lo baciò all’estremità della mandibola, e Albus provò gioia. Non si fidava più della propria gioia. Forse non era bene. Forse non c’era neanche da credere al bene.

Era stato dopo quella notte che aveva litigato con Aberforth.

«Cosa farete, si può sapere?»

«Pensa al tuo. Noi pensiamo giorno per giorno.»

«E dopo? Ve ne andrete in giro per il mondo, tu, Gellert e Ariana? Finché non vi dimenticherete di lei per l’ennesima volta e non la mollerete in un manicomio?»

Ma non lo capisci che nei piani di Gellert Ariana non è altro che uno spettro, un fantasma da compagnia per una personalità nostalgica come la mia? «Datti una calmata. Ti fa comodo incolpare Gellert per qualsiasi cosa non abbia alcun tipo di spiegazione. Non vuoi nemmeno vedere quanto ci sta aiutando. Quand’è l’ultima volta che hai visto Ariana così felice?»

«Non è felice, è illusa, come te.» Aberforth esplose in una risata sgangherata, dileggiante. «Aiutare! Povero scemo che sei. Tutta quell’intelligenza non ti serve a niente.»

«Tu non tolleri che ci sia più felicità in questa casa. Ci vorresti sempre in lutto, prima e dopo la morte, sempre e comunque.»

«Noi siamo in lutto, Albus. Non dovrebbe esserci bisogno che qualcuno te lo spieghi.» Scosse la testa. «Tua sorella morirà e non te ne frega niente, anzi, sarai sollevato, questa è la verità.»

«Non sai nemmeno fare un incantesimo per allacciarti le scarpe, che ne vuoi sapere, tu, della verità?»

«Se ci fossi stato io, quel giorno, mamma non sarebbe morta. L’avrei calmata in tempo.»

Albus si sentì affilare l’anima da quelle parole. «Invece non c’eri. Non hai salvato mamma e non puoi salvare Ariana, Aberforth, lo sai, vero? Non puoi salvare nessuno.»

In seguito si era pentito di aver detto molte cose, ma soprattutto quella. A volte, Gellert tirava fuori il meglio di lui; a volte il peggio. 

Aberforth non aveva risposto. «E tu, Albus? Chi salverai, tu?» Sogghignava con amarezza, faceva previsioni oscure su quel sangue appena mescolato insieme. Poi il volto diventava un’ombra. «Lei è tutto ciò che ho, e non me la porterete via, voi due che potreste avere tutto.»

Potreste, diceva il suo tono, e invece non avrete nulla.

Di notte, Albus appoggiava la testa sul petto di Gellert, ascoltava i ventricoli del suo cuore pulsare e immaginava il tradimento, per esorcizzarlo, per cacciarlo via. 

  
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