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Autore: _Il colore del vento_    20/04/2022    0 recensioni
[Dark]
[Dark (Netflix-2017)]
Dal testo:
"È finita, Katharina, è finita.
Il mondo ti ha inghiottita e ti ha trascinata giù, sul fondo – nella tana del gigante.
Alla fine del tempo."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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The ghost of me

 
 

«They (the ghosts that have stayed behind) have stayed to look back for a glimpse
of the very last moments of their lives.
But the memories of their own deaths are faces on the wrong side of wet windows,
smeared by rain, impossible to properly see. »
 I Am the Pretty Thing That Lives in the House
 
 
«Sapete di quella donna affogata qui?»
«Smettila.»
«Quando l'acqua è limpida come oggi, si può vedere il suo vestito sul fondo.»

Dark, 2x06

 


0.

Adam's World, 20 giugno 2019
 
 
 
«Mamma, ti ricordi per caso dov’è quella sorta di raccolta agiografica che avevamo in libreria? Non la trovo più.»
Il pomeriggio assolato trascorso giù al lago ha lasciato le sue impronte rosate sul naso e le guance di Martha. La ragazza se ne sta in piedi sulla soglia della cucina, con i capelli ancora umidi sciolti sulle spalle. Una misteriosa serietà le si annida nello sguardo, quasi una sorta di adulta – triste, persino – solennità che si trascini dietro, come scie su di un pavimento bagnato.
Katharina la osserva un po’ corrugata, asciugandosi le mani in uno straccio abbandonato sul lavello.
«Tesoro, ancora così conciata? Dovresti andare a cambiarti o non riusciremo mai a prepararci in tempo per la festa» replica al suo indirizzo, adocchiando l’orologio a muro. Si volta giusto in tempo per scorgere il volto della figlia adombrarsi per una manciata di istanti.
«Come mai la stai cercando?» indaga allora, trattenendo a stento un sospiro – assecondandola.
Martha e la sua spropositata curiosità, Martha e le sue domande improvvise.
Sua figlia non sarebbe cambiata mai.
La ragazza scrolla le spalle, persa nei suoi pensieri, mentre le labbra le si sollevano impercettibilmente verso l’alto.
«Io e Jonas abbiamo trovato una piccola medaglietta sepolta nella sabbia, in riva al lago. C’era sopra raffigurata l’effigie di San Cristoforo…» si interrompe, lanciandole un’occhiata perplessa. Nota l’espressione d’un tratto vacua della madre.
«Va tutto bene, mamma?» domanda allora incerta.
Quello è San Cristoforo, il santo protettore dei viaggiatori.
Ha rinunciato al diavolo e ha trasportato il Creatore del mondo.
L’immagine di un cordino sottile, legato a una piccola medaglietta con sopra un gigante – un gigante che trasporta il Bambino sulla schiena –, si fa prepotentemente largo nella memoria di Katharina: sua madre aveva una collanina di San Cristoforo.
Quel ricordo ha il potere di arrestare l’estate, almeno ai suoi occhi, di far calare una patina d’ombra sulle superfici della cucina, sul volto abbronzato di Martha e l’aria dorata di sole incorniciata dalle finestre.
Il calore si ritira dal suo corpo, sostituito da un gelo improvviso, segnalato dalla pelle d’oca su braccia e nuca.
Mamma, lasciami!
«Mamma?» la voce di Martha sembra provenire dal fondo di una caverna, dal fondo del lago da cui ha appena fatto ritorno.
«Mamma!» la chiama più forte sua figlia, ora evidentemente preoccupata.
Katharina abbassa lo sguardo sulle proprie dita, strette attorno allo straccio molto più del necessario.
Io non sono tua madre.
Scuote la testa, cercando di scacciare le voci fastidiose come moscerini, di focalizzarsi sugli occhi di sua figlia, che la guardano in attesa di una risposta.
«Non è niente, tesoro,» cerca di rassicurarla, liberando lo straccio dalla presa delle dita, «ho avuto solo un piccolo déjà-vu. Tutto qui».
Non c’è tempo per spiegare, per riesumare gli incubi del suo passato e rivangare la paura – incubi di giganti che la rincorrono per i boschi di Winden, di giganti che rivelano un volto e una voce precisi: quelli di sua madre.
Non c’è tempo.

 
1.
Adam's World, 25 giugno 2020
 


Al suo Mikkel piacevano tanto i trucchi di magia: non i giochetti insulsi e maldestri, facili da smascherare, bensì i movimenti fluidi ed eleganti, così rapidamente eseguiti da risultare inspiegabili a occhio esterno.
Adorava quelle illusioni ottiche in grado di ipnotizzare lo spettatore, di affascinarlo e suscitarne la curiosità, lasciandolo con un'unica domanda, una soltanto, pronta a fuoriuscire dalle labbra spalancate dallo stupore: «Come? Come è stato possibile?».
A volte, rannicchiata nel letto di suo figlio, in quei momenti sospesi tra il sonno e la veglia in cui i confini della realtà sfumano in qualcosa di indistinto, di distante, Katharina riflette.
Medita sul fatto che, alla fine, il trucco più riuscito di Mikkel non abbia richiesto né mazzi di carte, né monetine, né fazzoletti colorati – nulla di nulla, nulla di elaborato.
È bastata la sua assenza... e quella foto, certo.
Una foto che, a prima vista, non aveva nulla di insolito: una banalissima, datata foto di classe come ve ne sono a migliaia.
Se non fosse stato per quel volto, dai tratti malinconici come non li aveva mai visti – nondimeno lo stesso, riconoscibilissimo volto di sempre, di cui sente una mancanza che le svuota lo stomaco –, persino lei non vi si sarebbe soffermata più di tanto. Vi ha trovato il viso di Mikkel; il suo Mikkel, lì, immortalato in mezzo a tanti altri ragazzini, rinchiuso in una foto risalente al 1986.
Quella foto sottratta agli archivi della scuola, con quella sua aria quasi beffarda di invecchiato, di arcaico, l'ha scossa, dando luogo in lei a un’inaspettata reazione a catena.
Quell’immagine ha smosso qualcosa nella sua memoria, come mani spinte su un fondale a raspare nella sabbia.
Quella foto ha fatto riemergere brandelli di ricordi che aveva completamente obliato, disseppelliti dal fondo della sua coscienza – le ha spezzato irrimediabilmente dentro qualcosa, quella foto, quella prova tangibile dell’impossibile, e le ha mozzato il respiro.
Il suo Mikkel, il suo Mikkel disperso in un'epoca estranea, che – in un mondo giusto, in un universo ordinato e regolato, addirittura clemente – non avrebbe mai dovuto conoscere.
Mikkel, che si è lasciato dietro il suo cappello a cilindro e la bacchetta, assieme ai suoi adorati libri di magia, Mikkel con i suoi trucchi ben congegnati e il sorriso enigmatico, ha distrutto l'illusione più radicata e comune di tutte: quella del tempo.
Nessuna linea diritta, nessun passato che sfrecci via come casolari ai bordi di un'autostrada, né alcun futuro che man mano si avvicini come un viandante lungo un sentiero. Mikkel è vivo, sì, ma a distanze inconcepibili dal suo cuore che sanguina.
Suo figlio, intrappolato in un'altra Winden, in una Winden più giovane, cresce e cambia (La tuta nera con lo scheletro, quella che aveva indosso il 4 novembre 2019, il giorno in cui è scomparso, gli calza ancora bene o gli si vedono le caviglie, ora? – non può fare a meno di chiedersi Katharina, perché è importante, è dannatamente importante).
Mikkel si avvia a diventare un giovane uomo lontano da lei o, a dirla tutta – e le viene da piangere al pensiero – assieme a lei, ma una lei che non esiste più.
Mikkel cresce fianco a fianco alla lei degli anni ottanta, impegnata a sua volta a diventare donna – quella con i capelli pettinati in onde accurate, che portava giacche dai colori sgargianti e procedeva con aria studiatamente sfrontata e si divertiva a sfruttare le debolezze altrui pur di non pensare alle proprie; quella che nei corridoi del liceo, assieme alle altre ragazze, si scambiava cassette con sopra incise le canzoni "fantastiche" (c’era quella che le piaceva tanto, parlava di una ragazza dalle labbra truccate di rosso, rapita e condotta nei boschi).
Se Mikkel ha quella Katharina accanto, la Katharina che di giorno, a scuola, si scambiava inni di trasgressione con le sue coetanee e a casa piangeva nel cuscino, dopo una delle violente esplosioni di sua madre, vuol dire che allora è troppo lontano.
Perché, in quel caso, non basta una mano che smuova un po' di sabbia depositata sul fondale della memoria per recuperarla: quella Katharina giace seppellita in profondità marine irraggiungibili. È diventata ella stessa polvere.
Ecco, del tempo lineare – il tempo degli orologi e dei calendari, ammassi di giorni che poi vengono cestinati una volta che l'anno finisce –, in tutta quella situazione assurda che non riesce ad accomodarsi nello spazio della sua mente neanche per un minuto, tanto è inconcepibile, non è rimasto niente.
O meglio, dalla scomparsa di Mikkel e dal rinvenimento di quella terribile foto, da una linea semplice, quasi rassicurante, il tempo è come esondato, si è dilatato, gonfiandosi ben oltre gli argini e occupando tutto lo spazio a disposizione: ha occupato gli anfratti della sua esistenza, ogni angolo di Winden, ogni centimetro di terra umida e persino l'aria tra gli alberi. Il tempo s'è infiltrato ovunque, è ovunque, ora, come presente e futuro assieme, ma soprattutto passato, sì, soprattutto passato.
Katharina non ha mai avuto un'indole filosofica – ha sempre preferito il pragmatismo, lei, e il senso comune – e non le conosce le implicazioni di un tempo che regna ovunque, che non lascia spazio nemmeno per respirare. Ma sa cosa significa tutto quello per lei: significa, semplicemente, che gli incubi – i suoi incubi – non finiscono mai.
Non ci sono mostri sconfitti e ricacciati sotto il materasso, non esistono vie di fuga.
Se il tempo è sempre attorno a lei, se la circonda e la avvolge come una seconda pelle, vuol dire che i mostri, invincibili, sono sempre acquattati dietro l'angolo (se fa attenzione, può avvertirne distintamente l'ansito sul collo). Non c’è neanche bisogno di dissotterrarli.
Vuol dire che tutto quello che fa, che tenta di fare, per arrancare fuori dai propri limiti – tutti gli sforzi, la disciplina autoimposta e la pazienza sfinita dall'esercizio –, tutto quello si dimostra tragicamente inutile.
La sua intera vita da adulta era stata un continuo tentativo di redimersi, di far cessare il senso di inadeguatezza (Schifosa sgualdrina) e cancellare il ricordo degli occhi supplicanti e colmi di lacrime di Regina Tiedemann (la vittima preferita delle sue angherie, ai tempi del liceo) che ancora affiorano a tormentarla; un lungo, ininterrotto tentativo di espiare le colpe, le sue e quelle di Helene – Helene Albers, sua madre, che le aveva reso la vita un inferno, da ragazza.
Ma, con la sua scomparsa, Mikkel le ha insegnato che dall'Inferno non ci si salva, non si esce.
Del resto, le lezioni di letteratura, a differenza di quelle di filosofia, hanno lasciato un segno più duraturo in lei e le ricorda ancora.
«Lasciate ogni speranza» recitava la sua professoressa di italiano, reggendo fra le mani cosparse da macchie di nicotina una fragile e consunta copia della Commedia, dalla quale sceglieva stralci dell'Inferno dantesco da leggere alla classe.
(Lasciate ogni speranza).
Mikkel ha fatto le cose per bene: si è portato con sé tutte le sue speranze, lasciandosi dietro soltanto l’Inferno; un inferno perenne, un passato che non passa e un tempo circolare che, come una ruota, torna e ritorna, macinandola sotto il proprio peso.
 



2.
 
Adam’s World, 25 settembre 1987, Reparto psichiatrico
 
 
«Ti porterò via da quella casa», le prometteva Ulrich, quando erano giovani e innamorati, prima di baciarla così intensamente da toglierle il fiato.
(Schifosa sgualdrina. Non sei degna del nome che porti, le sputava contro sua madre, quando scopriva i segni lasciati dalle labbra di Ulrich sulla sua pelle).
Katharina, all'epoca, quando ancora credeva che il tempo fosse una lancetta che attraversava quadranti e non un incubo perenne, nutriva la speranza che le parole di lui contenessero un briciolo di verità.
Ma alla fine Ulrich non l'ha portata via. E, deve ammetterlo, forse non è stata neanche colpa di lui se poi sono rimasti tutti bloccati lì a Winden.
È soltanto ora, nel crepuscolo delle illusioni, ora che avanza fra i cocci di un mondo che non può più comprendere e incede timorosa in questa realtà che non sa afferrare, Katharina capisce che forse la colpa è stata solo sua, per averci creduto davvero – la colpevole era ancora una volta lei.
(Forse è il contesto, forse è quel tempo in cui è tornata a immergersi, a farle recuperare i vecchi schemi di pensiero?).
(Sciocca ragazza, sciocca, disgustosa ragazza, le ripete sua madre all'orecchio).
Come se uscire da Winden sia possibile!
Winden è il tempo e il tempo è ovunque, ora l’ha capito – lei vi arranca esattamente al centro.
Lei è invischiata nel tempo della sua vita, nel tempo di Winden, un tempo che gira e macina, che torna sempre su se stesso.
Sono tutti bloccati a Winden, tutti prigionieri del tempo (Lasciate ogni speranza).
Anche sua madre, anche lei è una prigioniera e ora la guarda da dietro il vetro della gabbiola dell’accettazione – ha un cartellino appuntato al grembiule su cui è scritto il suo nome a chiare lettere: “Helene Albers”.
«Ci siamo giù viste da qualche parte? Ha un aspetto familiare…»
(Mamma, lasciami!).
Katharina ricambia lo sguardo attraverso una barriera di lacrime, cercando di ricordare come si faccia a respirare. Scuote la testa, ma non emette suono: l’antico terrore sepolto nel petto si è risvegliato, s’è drizzato come i peli sulle sue braccia.
(Perché non riesce a smettere di pensare al gigante degli incubi che aveva da ragazza?).
Eppure sua madre, dietro il vetro, non ha affatto la corporatura di un gigante. Ora che si è avvicinata, le appare come una donna minuta, mingherlina – non la ricordava così piccola.
Forse è lo sguardo; sì, forse è per quello, che invece è perfettamente identico a come lo ricordava: capace di farla sentire inadeguata, di suscitarle vergogna e disgusto per se stessa, con il potere di farle venire voglia di scappare. Ma non può farlo, non può scappare.
(Scappare dove, Katharina? Non ricordi come si concludevano i tuoi incubi?).
Deglutisce il nodo di paura e timore che le ostruisce la gola, ripetendosi senza sosta il nome di Ulrich.
Ulrich. È lì, lui è lì, Helene ha parlato di un “commissario” – dev’essere lui.
E lei deve vederlo, per forza, dopo tutto quello che ha vissuto per arrivare fin lì, per ritrovare suo marito.
«È una sua parente?» le sta domandando intanto sua madre, con la voce venata dal sospetto.
«È mio marito» sussurra allora, sorridendo tra le lacrime, quasi che dire la verità ad alta voce possa sistemare le cose, infrangendo la maledizione del tempo e riportandolo nei suoi argini. Come se quella piccola confessione possa risospingerli tutti indietro – o avanti, non ci capisce nulla del tempo, Katharina – a quando Mikkel, seduto al tavolo della colazione, faceva i suoi trucchi di magia suscitando l’ammirazione di Ulrich e Katharina intimava loro di sbrigarsi, ché altrimenti avrebbero fatto tardi.
Ma non funziona così: lo legge negli occhi di Helene, nella linea severa delle sue labbra. Non le crede e le sta voltando le spalle.
«Quello è San Cristoforo!» esclama senza pensarci, in preda alla disperazione. «Il santo protettore dei viaggiatori.»
È proprio come quel giorno d’estate, nella sua cucina, con sua figlia Martha sulla soglia che la guardava in attesa. È lo stesso senso di déjà-vu, lo stesso freddo che cala a intristire il presente, a immobilizzarle le membra.
Helene si gira a guardarla stranita, le dite arrampicatesi ad accarezzare la piccola medaglietta che porta al collo, quella con San Cristoforo.
Katharina sfrutta il momento di sospensione e l’attenzione ricevuta, pronunciando parole che sgorgano da chissà dove – forse da quel futuro giorno d’estate o da un passato ancora più remoto. 
Non deve rifletterci più di tanto, non deve sceglierle: semplicemente, le parole sono già lì, in attesa di essere usate – usate di nuovo, quasi.
«Ha rinunciato al diavolo e ha trasportato il Creatore del mondo» continua.
Guarda Helene dritto negli occhi, ora. Sua madre ha l’aria di chi vorrebbe porre una domanda ma, allo stesso tempo, ne tema la risposta.
E Katharina gliela fornisce, la risposta alla domanda che nessuno pone, che sua madre non potrebbe mai porle (Come potrebbe, del resto: per lei il tempo è ancora una lancetta che attraversa quadranti, è ancora una linea che viaggia dal passato, lungo il presente, e si getta nel futuro, come un fiume nell’oceano).
Sua madre non può porre la domanda giusta, non può chiederle perché ha un aspetto così familiare, né come faccia a sapere di San Cristoforo.
Ma non importa, non più. Non è più tempo di domande, ora, ma di risposte.
 «Mia madre ne aveva uno uguale» sputa tra i denti.
 
 
_
 
 
Helene l’ha lasciata sola, circondata dai pazienti dell’ospedale psichiatrico.
Katharina cerca di calmarsi, anche se l’unico pensiero che riesce a formulare – col freddo che ancora la insegue, immersa in quella cacofonia di urla e risa, di pianti e silenzi sconfitti, disperati, che macchiano l’aria nella stanza più delle urla – è che deve farsi forza. 
Deve reggersi in piedi per non sprofondare, come San Cristoforo che, traghettando il Bambino fra le acque, si sostiene con un bastone per non andare a fondo, per non farsi trascinare dalla corrente.
Sua madre l’ha condotta nel pieno della follia e poi le ha voltato le spalle. L’ha condotta a un girone più basso – da un incubo all’altro – e ora che l’incubo di sua madre si è momentaneamente ritirato, ce n’è un altro che sorge all’orizzonte. Tocca a un incubo nuovo, adesso, e la ragazza spaventata che si è risvegliata da quando ha rimesso piede in quell’ospedale, da quando ha rivisto sua madre, vorrebbe potersi fermare. Vorrebbe non procedere oltre.
Ma la ragazza spaventata, quella che preferirebbe fuggire, è la stessa ingenua che credeva alle promesse di Ulrich, quella che non ha mai imparato che non si scappa, che non si può neanche tornare indietro: si può solo saltare da un incubo all’altro.
Katharina guarda avanti a sé e l’incubo che deve affrontare ora si addensa nella figura di un vecchio girato di schiena. Ha capelli candidi, lunghi e disordinati, che gli ricadono sulla vestaglia verde e nera, e la postura china, quasi che troppo dolore l’abbia infine piegato definitivamente.
«Ulrich» chiama lei, trattenendo il respiro.
L’uomo, al suono della sua voce, di quel nome con cui nessuno l’ha mai chiamato, non lì in quell’inferno, solleva gli occhi su di lei; occhi esausti e slavati dal tempo, incastonati in un volto inciso da rughe e da una sofferenza indicibile, ma che hanno ancora la forza di convogliare tutto lo stupore di ritrovarsela lì – dopo quelli che per lui sono trentaquattro anni.
Katharina è ancorata al suo posto da quegli occhi familiari e allo stesso tempo estranei, combatte di nuovo con l’impulso di scappare (o di coprirsi gli occhi con le mani).
Ha fantasticato così tanto sul momento in cui l’avrebbe rivisto, eppure non avrebbe mai potuto prepararsi alla vista dell’uomo che ha amato, di suo marito, rinchiuso nel corpo di un vecchio. Sono viste, quelle, a cui ci si abitua gradualmente, nel corso di una vita assieme.
Sbatterci il naso contro, invece, è terribile, traumatico. Sembra quasi uno dei trucchi di Mikkel (anche se, ne è certa, lo stesso Mikkel non potrebbe arrivare a tanto).
Katharina scruta l’uomo che ha davanti, cercando un qualche appiglio nel suo volto, nella sua figura (la corrente è più forte ora, forte come non mai, e – se non fa attenzione – rischia di essere trascinata via).
Non resta più niente del bel ragazzo che le prometteva di salvarla da una madre irascibile e violenta, di quel ragazzo ribelle e sfrontato che le aveva rubato il cuore, né dell’uomo che l’aveva poi portata all’altare. Eppure.
Eppure, al contempo, tutte le immagini di Ulrich sono lì, mescolate sotto le rughe, sotto la pelle cascante, sotto i sedimenti del dolore che ha vissuto da solo.
Gli si siede di fronte, Katharina, e le loro mani si ritrovano subito – quelle di Ulrich tremano incontrollabili, quando le stringe da sopra alla scacchiera, intromettendosi nella sua partita solitaria e interrompendola.
Katharina avverte un bisogno disperato di un sostegno, perché sente che potrebbe impazzire da un momento all’altro. Forse è l’aria viziata che si respira lì dentro, l’aria intrisa di angoscia uscita fuori dai polmoni dei pazzi, di quei poveri diavoli che ridono e piangono intorno a lei.
Ha bisogno di qualcosa a cui reggersi, qualsiasi cosa, e non le importa che siano le parole che le rivolgeva Ulrich quando erano giovani e innamorati.
Non importa che siano le promesse vuote di un tempo.
«Ti farò uscire di qui. Te lo prometto.»
Quanto può ferire un'illusione in più, che crollerà al suolo esattamente come tutte le altre, come pedine su una scacchiera? Sembra che sia questa la domanda muta che gli occhi di Ulrich le rivolgono.
Ma Katharina non batte ciglio. È tutto diverso quando si è dall’altro lato, quando si è la persona che fa le promesse e non quella che le riceve.
È quasi piacevole.
Quando si è dall’altro lato, sembra che vi sia tutto il tempo del mondo per realizzare ogni promessa. Persino quelle impossibili.
 
_
 
 
Giubbino rosso, stivali rossi, borsa che sbatte contro la gamba fasciata dai jeans.
È sulla borsetta che si concentrano gli occhi di Katharina.   
La chiave magnetica per salvare Ulrich, per tirarlo fuori dall’ospedale, dev’essere lì. Deve soltanto prenderla. Deve raggiungere sua madre e recuperarla.
È talmente concentrata sulla sua missione, da non riflettere sul fatto che i suoi incubi iniziavano proprio così. Una corsa attraverso i boschi, sulla schiena del gigante.
Affrontare un incubo per superarne un altro, si ripete. Uno alla volta.
Il suo incubo, ora, è Ulrich intrappolato in un corpo da vecchio, le sue mani rugose e tremanti abbandonate su una scacchiera.
Non ha tempo per pensare agli incubi di quando era ragazza, popolati da giganti e santi che si rivelavano mostri.
O, almeno, è quello che crede fino a che sua madre non si volta a fronteggiarla – «Mi sta seguendo? Cosa vuole?» le chiede, e c’è rabbia nella sua voce, ma anche paura. Forse, sua madre ha iniziato a capire come ci si sente, come si sentiva lei nei suoi incubi, come si sente perennemente da quando Mikkel è scomparso.
Ma non importa, non importa ora. Importa solo recuperare la chiave magnetica, per Ulrich. Deve farlo: Katharina deve recuperarla, perché è l’unico appiglio che le resta, perché altrimenti la corrente l’avrebbe trascinata via una volta per tutte.
La sta già trascinando via e sua madre sembra avere la meglio, sembra approfittare della sua debolezza e le stringe il polso (e fa male, fa male, è proprio come durante gli scoppi d’ira di Helene, quando lei era ragazza e non poteva che subire i suoi colpi). 
Sembra che sia sempre destinata a perdere, contro sua madre.
«Mamma, lasciami!»
Quelle parole le sfuggono dalle labbra per disperazione, per istinto (erano le stesse che pronunciava invano da ragazza, quando sua madre incombeva su di lei e sfogava la sua rabbia accanendosi sul suo corpo inerte). Ma, stavolta, sortiscono il loro effetto.
Stavolta, il viso di Helene si contorce in una smorfia di orrore e Katharina approfitta di quel momento di calma, in cui le correnti sembrano placarsi.
E quando sua madre riprende a correre, la insegue, la insegue fino alle sponde del lago, proprio come nei suoi incubi – ma a ruoli invertiti.
Stavolta, però, lei ha una missione da compiere. La disperazione ispira ogni suo gesto, la fa dibattere, quando crollano a terra l’una sull’altra, ed è sempre la disperazione che la spinge a compiere l’inaudito, qualcosa che la ragazza ingenua che è stata, che è ancora da quando è ripiombata nel passato, non avrebbe mai fatto.
Afferra una pietra abbandonata lì vicino, alla cieca, per colpire Helene.
Non c’è tempo, non c’è tempo, pensa affannosamente, fiondandosi a recuperare la borsa di sua madre, in cui immerge le mani e scava, scava (come mani che scavino in un fondale di sabbia).
Ma dovrebbe intuirlo, ormai, che tutte le sue promesse le ha lasciate dietro di sé, le ha lasciate su una scacchiera ingombra, davanti a un corpo rugoso e fiacco che un tempo è stato suo marito. Anche la fievole sicurezza, la speranza dell’impossibile che l'aveva animata davanti a Ulrich sembra sia rimasta indietro, intrappolata nell’aria viziata dell’ospedale.
Oltre il regno rassicurante dei folli, c'è un universo ancora più folle, impietoso, e in quell'universo lei perde sempre, è destinata a perdere. Dovrebbe saperlo.
Infatti sembra che nulla, nulla, le risulti più facile che soccombere ancora, soccombere ai colpi di sua madre, che nel frattempo si è rialzata e le si è avvicinata.
L’ha colpita – il dolore alla tempia, dove l’ha raggiunta la pietra, è lancinante, tanto forte da accecarla.
Il dolore e la paura dovrebbero coprire la voce di sua madre, ma le sue parole la raggiungono lo stesso, mentre si dibatte al suolo coperto da foglie umide e marce.
«Non sono tua madre» la sente dire, da qualche parte sopra di lei. Ha la voce intrisa di rabbia e orrore, lo stesso orrore che la tiene ancorata al suolo, immobilizzandola più del peso di sua madre che la preme a terra col proprio corpo.
«Tu vieni dall’inferno. Ti ha mandata il diavolo. Non sei reale.»
Ha una luce folle nello sguardo e una pietra enorme stretta nella mano.
Katharina non l’ha mai temuta tanto.
(Ora ogni tassello sembra ritrovare il proprio posto, come nei suoi incubi. Il gigante, trascinandosela dietro, ha finalmente raggiunto il limitare del lago).
Il dolore alla testa è immenso, lì dove arriva la furia di sua madre. La colpisce con la pietra una volta e poi ancora e ancora.
È una sofferenza tale da farle smarrire i confini. Del resto, è così facile perdersi nel labirinto del tempo. Prova a sollevare una mano, a muoverla alla cieca, ma le sue dita stringono solo la fredda catenina di sua madre e tirano, la strappano via.
(È la stessa catenina, pensa al culmine del dolore e dell’orrore, è la stessa catenina che avrebbe ritrovato Martha un lontano giorno d’estate).
Katharina trattiene il respiro, incapace di raccogliere nuova aria nei polmoni, come quando, alla fine dei suoi incubi, il gigante che le aveva dato le spalle per tutto il tempo e l’aveva trascinata al lago, si girava finalmente verso di lei.
C’era sempre il volto di sua madre ad attenderla, stravolto da un sorriso orrendo, vittorioso. (Non ci sono mai stati santi; non nel lungo, ininterrotto incubo che è stato la sua vita. Solo giganti che la trascinano a fondo).
 «Io mi sono liberata di te» mormora il gigante col volto di sua madre, da qualche parte oltre il dolore, proprio al centro del labirinto del tempo – nel regno del terrore.
«Mi sono liberata di te» ripete in un’agghiacciante nenia, mentre continua a colpirla senza pietà.
Sono quelle le ultime parole che la raggiungono prima dell’incoscienza.
 
È finita, Katharina, è finita.
Il mondo ti ha inghiottita e ti ha trascinata giù, sul fondo – nella tana del gigante.
Alla fine del tempo.
 
 
3.
Original World, fine e inizio
 
 
(«Il mondo finiva.»
«Il mondo finiva?»
«Sì. Come dire?
C'era solo oscurità e la luce non è più tornata.
Ho provato questa forte sensazione, come se fosse un bene... che stesse finendo.
Mi sono sentita liberata di tutto all'improvviso.
Senza desideri, né doveri.
Un'oscurità infinita.
Non c'era ieri, né oggi, né domani.
Niente.
»)
 


La luce delle candele trema e i rumori dei tuoni, fuori, continuano imperterriti – sporadici singulti nella notte.
I riflessi alla finestra – i riflessi dei loro volti – sono immagini aliene, deformi. La pioggia ne scioglie i lineamenti. Sembrano tanti annegati che riemergano dalle acque in cui sono morti.
Katharina distoglie lo sguardo a disagio, si osserva attorno.
È la stessa sensazione, pensa distratta.
La stessa sensazione che a volte la coglie davanti allo specchio, dopo la doccia, quando se ne sta ferma con i capelli che gocciolano, stretta nell'asciugamano a scrutare un riflesso irriconoscibile, che sembra sul punto di dissolversi da un momento all'altro. Come se un altro tipo di pioggia, più insistente, possa lavarla via all’improvviso.
Quelli sono attimi in cui ha la certezza che il mondo sia finito, finito davvero, e lei con esso.
Forse Hannah ha ragione (il suo "Niente" ancora pende sulle loro teste, Katharina lo percepisce): il mondo dev'essere morto e rinato miliardi di volte, infinite.
È per questo che non può ridere alla battuta di Bernadette, perché lei, prima di venire da Regina, si è guardata allo specchio dopo la doccia, perché lei lo capisce cosa vuole dire Hannah.
Davanti allo specchio, Katharina ha creduto di non esistere, ha creduto di poter afferrare quello che proverebbero i superstiti di un'apocalisse. Ha avuto la certezza – una certezza che Bernadette forse non ha mai avuto – che la fine del mondo debba essere simile a un annegamento: quando il mondo finisce, si annega nel buio, trascinati giù dalla corrente con i polmoni in fiamme e poi, dopo, dopo un’eternità, si fa ritorno in superficie – ancora e poi di nuovo e poi di nuovo ancora.
È un ciclo infinito, di tuoni e incubi, di maledizioni impossibili da spezzare.
La maledizione consiste nel tornare eternamente a infestare la propria esistenza, continuando a precipitare nella propria disfatta, senza sosta. Continuando ad annegare e poi a rinascere.
È così che si sente Katharina davanti allo specchio: quasi in attesa di un Santo che la traghetti oltre le acque insondabili, un Santo che non sarebbe arrivato mai.
«Se il mondo finisse e aveste un solo desiderio... cosa chiedereste?»
La voce di Regina è un sussurro flebile, un fiammifero acceso in una cantina buia, e la distoglie dai suoi pensieri.
Katharina sbatte le palpebre e si allunga ad afferrare il calice di vino.
Sa che tocca a lei, adesso. Anche se ha la sensazione di non aver mai abbandonato il proprio bagno, di essere ancora davanti allo specchio, fradicia e intirizzita, anche se le sembra di riemergere dalle acque ghiacciate del lago, con le alghe attaccate al collo, alle braccia, e di stringere il calice tra mani rugose – nonostante tutto, riesce a sollevarlo in alto.
 «Un mondo senza Winden. Brindiamo!» esclama, cercando di coprire lo scrosciare della pioggia, fuori, e di acque agitate nelle orecchie.
Gli altri la seguono a ruota, ripetendo in un mormorio le sue stesse parole. Al suono delle loro voci, il generatore di corrente scatta, segnalando il ritorno dell'elettricità, e la luce artificiale delle lampade esplode intorno a loro, quasi infrangendo un incantesimo (una maledizione).
È la risata di Winden, quella, come se ridesse di lei e di quel suo brindisi impossibile.
«Ti porterò via di qui.»
È una voce distorta, quella che percepisce sotto il tintinnio del vetro contro vetro, un soffio insistente sopravvissuto alla pioggia scrosciante e ai tuoni, una voce portata lì dal vento, riemersa dalle profondità abissali di un lago o di un vecchio incubo.
Katharina manda giù un sorso di vino (che ha un sapore salmastro), facendo schioccare le labbra.
"Ti porterò via di qui": sembra quasi la promessa scambiata da due adolescenti ingenui e innamorati. Una promessa in cui avrebbe potuto credere davvero, in un'altra vita.
Ma in questa... un mondo senza Winden? Che assurdità.
Winden è passato, presente e futuro.
Non ci si libera del tempo.

 

Note:
Ci sono stralci di dialoghi ripresi dagli episodi della serie, rispettivamente: il dialogo nelle acque del lago tra Bartosz e Martha nella 2x06, episodio del quale menziono (implicitamente) anche lo scambio tra Jonas e Martha a riva, quando rinvengono il medaglione di San Cristoforo, la scena terribile della 3x05 tra Katharina e sua madre Helene (che proprio in quel momento perde il medaglione), il dialogo nell’epilogo, 3x08, nella Winden originaria, tra Hannah, Regina, Katharina e gli altri.  

Ho il presentimento che non molti finiranno da queste parti, ma non importa: dovevo scrivere di Katharina. Avevo questa storia praticamente pronta da ere geologiche, dimenticata in qualche file di Word. Mi è sembrato un peccato non pubblicarla.
Comunque, nel caso in cui vi sia davvero qualche fan della serie che si trovi miracolosamente a transitare ramingo da queste parti: spero che questo piccolo omaggio al personaggio di Katharina ti sia piaciuto (se esisti e ti va, fammi sapere cosa ne pensi)!
 
  
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