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Autore: Catcorzx    03/05/2022    1 recensioni
Per i fan di Haikyu!! che si sono sempre chiesti "ma come sarebbe un Hinata o un Bokuto, personaggi irreali, nella vita reale, ma non in Giappone, bensì in Italia, che hanno a che fare con persone reali?". "Nella nostra testa" è uno scritto avventuroso e sportivo che racconta le vite di tre giovani manager di tre diverse squadre di pallavolo (tra cui io, e due mie amiche), che si ritrovano a un campus sportivo (di pallavolo, appunto), e che vivono la loro vita tra lo studio, il lavoro, e qualche cotta amorosa in qua e in là...La storia è molto dettagliata, volta a ricreare ogni singolo particolare di una ipotetica avventura come questa. A volte potrebbe sembrare un po' pesante, ma vi garantisco, cari lettori, che saranno proprio tutti i particolari a farvi innamorare di questa storia...o almeno, lo spero!
Genere: Avventura, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Karasuno Volleyball Club, Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto, Nekoma
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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 Erano le 20.42 di un qualsiasi giovedì, ed avevo appena finito di mangiare una frittata con zucchine e dell’insalata, niente di speciale, da sola. Dovevo continuare a studiare, dato che negli ultimi giorni avevo preso la giusta strada: avevo organizzato tutti i corsi autunnali, gli esami e buttato giù qualche idea per eventuali tesine. Però quella sera faceva caldo e decisi di prendermela comoda, dato che comunque avevo studiato tutto il pomeriggio. Il sole era ancora alto ed entrava dolcemente nel mio piccolo monolocale in centro a Firenze, così mi misi alla finestra e mi accesi una sigaretta, mentre cercavo il mio posacenere a forma di ranocchio, e intanto guardavo le persone che camminavano. D’altronde era una bella serata, perfetta per una passeggiata, pensai. Ma nel tempo libero, quando decidevo di prendermi una pausa dagli studi, ero solita comporre musica. È una passione che ho fin da quando ero bambina, per la musica s’intende, la passione per la composizione è arrivata col passare degli anni. Quindi mi misi alla scrivania e tirai fuori dal cassetto sottostante un grosso foglio pentagrammato, già preparato precedentemente. E quando decidevo di comporre anziché studiare, dovevo concentrarmi al massimo per non sprecare il tempo levato allo studio, così accesi la pianola ed iniziai a buttar giù qualche accordo. Mi soffermai sul Re: “Re, Fa naturale, La…no, forse meglio Fa diesis…sì, decisamente meglio il maggiore”, dissi ad alta voce, e iniziai a scrivere un bel pezzo in Re Maggiore, la tonalità “rinfrescante”, come la chiamo io. Scrivevo e scrivevo quello che mi veniva in mente, anche se poi mi accorgevo che non tornava, ma scrivevo; ero sulla buona strada e feci quattro pentagrammi. “Non male Caterina, non male”, pavoneggiavo, “vedi che quando ti ci metti, tiri fuori belle cose?” E continuavo a scrivere, quasi come una pazza; non so cosa mi prese in quel momento, ma sentivo un certo collegamento fra me e la musica che stavo scrivendo, l’avevo fatta mia, una musica per un quartetto d’archi immaginario, il mio quartetto. Ero solo all’inizio e già pensavo a come sarebbe stata una possibile esecuzione. Cavolo, ero felice, e volevo continuare assolutamente. Avevo tutto in testa: le varie tonalità che si susseguivano, le note, gli accordi… Bzzzzzzz…bzzzzzz, bzzzzzz, era il mio cellulare che vibrava. “Ma chi è adesso accidenti!”, gridai subito di rabbia, ed alcune ciocche di capelli bagnate di sudore per l’afa serale rimbalzarono sulle mie spalle per il sussulto. E poi quella vibrazione mi dava i nervi, avrei dovuto cambiarla. Incavolata, risposi senza neanche vedere chi fosse. “Pronto chi è?”, con tono abbastanza arrabbiato e infastidito. “Ehm, ciao Cate, sono Takeda, ti disturbo?”. Subito, in un istante di tempo, mi ricomposi e mi misi una mano sulla fronte pensando a quanto fossi stata aggressiva e scema, e risposi cambiando completamente tono: “Take! Scusami se ti ho risposto in modo scortese, ero presa da una composizione e non mi aspettavo una chiamata, soprattutto da te! Che mi racconti? Come sta il mio caro professorino?”. Era Takeda, il mio amico di infanzia. Non ci potevo credere. E nonostante non ci sentissimo da tempo, quasi un anno, mi venne naturale chiamarlo in quel modo. “Aah, vedo che ti diverti ancora a chiamarmi in quel modo eh! Che ti racconto? Bhe, sono sommerso di lavoro ahaha, ma a parte questo va tutto bene, ti ringrazio”. Takeda era più grande di me di circa tre anni, era laureato in ISEF ed insegnava alla Scuola Superiore Karasuno, un liceo sportivo nella provincia di Prato. Non solo era un mio amico, ma era colui che mi offrì il mio primo impiego, quello di manager della squadra di pallavolo della scuola, lavoro che purtroppo lasciai per l’università. Io e Takeda ormai non ci sentivamo da un bel po’ e durante quelle poche volte che ci chiamavamo, mi chiedeva dell’università, se mi trovassi bene, come fosse il piano di studi…ma mi ricordo che ogni volta provava a convincermi di tornare al Karasuno come manager, ed io rispondevo sempre di no, non solo per la mancanza di tempo, ma anche perché la squadra stava iniziando a cadere, a non spiccare più, addirittura vedeva ogni giorno un componente in meno… e tornare a fare la manager di una squadra decimata e che non credeva più nelle sue potenzialità, sarebbe stato uno spreco di tempo. Non potevo permettermi di aspettare nuovi componenti per riformare la squadra… Di tempo ne avevo sprecato già abbastanza. Tutto questo mi venne in mente sentendo la voce di Takeda, che intanto mi raccontava delle sue avventure da professore. “Capisco capisco”, risposi dopo che finì di parlare. Poi ci fu un silenzio imbarazzante e per circa tre secondi nessuno dei due disse una parola. “Cate sai...” “Takeda”, subito lo interruppi con la voce tremante, “c’è un motivo preciso per questa chiamata? Perché se è quello che penso, sai già la mia risposta”. Subito mi venne il dubbio, e senza pensarci due volte, dissi quelle parole. Immaginavo già quello che aveva intenzione di dirmi, o meglio, di chiedermi. Diventai fredda, forse perché mi tornarono in mente tutti quei bei ricordi assieme a lui e i ragazzi, e l’allenatore Ukai. Già… Ukai, il mio primo e vero amore, se così posso chiamarlo. Non lo vedevo da tanto, tantissimo direi, non mi aveva chiamato nemmeno una volta da quando decisi di non fare più la manager della Karasuno, capibile da una parte, anche perché smisi all’improvviso, ma dall’altra avrei voluto che avesse provato a cercarmi anche una sola volta, ma non si può volere tutto dalla vita, pensai, con un piccolo sorriso di rassegnazione. “Cate ti prego, torna! Le cose sono cambiate adesso, sono arrivati dei nuovi membri, e grazie a loro la squadra si è rinvigorita! Vedessi che passi abbiamo fatto: nuove mosse, nuove strategie d’attacco, nuove difese…”. “Sono contenta Takeda, davvero, ma lo sai come la pens” “Domenica mattina partiremo per un campo di pallavolo a Falconara Marittima, nelle Marche, e sarebbe fantastico se tu venissi”, mi disse, prima che potessi finire la frase. Io rimasi un attimo ferma, per qualche secondo zitta, ed analizzavo le parole che Takeda mi aveva appena detto. “Un Campus?”, pensai nella mia mente. Mi meravigliai. Ai tempi in cui ero ancora manager, eventi del genere ce li sognavamo… “Ci staremo per due mesi, da fine giugno a fine agosto, e parteciperanno due delle squadre più forti d’Italia”, chiuse così la frase, senza aggiungere altro. Io incuriosita, dissi subito: “Di quali squadre stai parlando?” “Ehehe, vedi che ti ho messo curiosità! Prova a indovinare, Cate”. Ci pensai per un momento, e dissi: “Non saprei, ce ne sono così tant…aspetta! Non starai mica parlando di…”, mi fermai un attimo, non sicura del presentimento che stava invadendo la mia mente. “Penso che tu abbia in mente le squadre giuste”. “Non dirmi che sono Nekoma e Fukurodani…”. “Ebbene sì!”, disse, senza lasciare alcuna suspence. Non potevo crederci, la Karasuno che si confrontava con due delle squadre più forti d’Italia. Quando ero ancora manager, sentivo spesso parlare di queste due squadre, eccome se ne sentivo parlare! Ci siamo scontrati molto spesso con loro, e qualche volta vincevamo…ma più che altro perdevamo ahaha. Eravamo davvero bravi, ogni giorno sembravamo migliorare di tantissimo. Poi gli anni passarono, molti studenti lasciarono la squadra come conseguenza di aver finito la scuola, ma si aggiungevano nuove reclute del primo anno, chi per provare una nuova esperienza, chi per confrontarsi seriamente con le sfide quotidiane di uno sport come la pallavolo. E in tutti noi c’era quel sentimento e quella grinta di andare avanti. Poi però, col passare dei mesi, e degli anni, mulla più bastò per far continuare a vivere la squadra…ad un certo punto, con me manager da più o meno un annetto, le cose cambiarono radicalmente: nessuno più sembrava divertirsi durante le partite, ogni cosa stava diventando un peso quasi per tutti, e molti decisero di abbandonare la squadra. Anche chi faceva il tifo per noi, pian piano smise di venire ad incoraggiarci durante le partite; alcuni allenatori importanti vennero a suo tempo a darci qualche consiglio, e dopo un po’ anche loro sparirono, giustificando il loro comportamento così: “la squadra sta cadendo a pezzi; o fate qualcosa ora, o è meglio lasciar perdere”. Ero talmente incazzata che quasi mi mettevo io in campo a giocare tra gli studenti, e mentre giocavo, correggevo le loro mosse, e insegnavo loro di nuove. Non volevo mollare, non volevo farlo assolutamente. Per sistemare le cose, io, Takeda e e Ukai, l’allenatore, avevamo pensato di mettere su una specie di “club della pallavolo” la sera, dopo cena, nel retro del negozio di Ukai, che ormai conoscevano tutti. Gli unici che vennero quasi sempre erano tre ragazzi, Daichi, Suga e Asahi, che avevano una grande passione per lo sport, e volevano migliorare a qualsiasi costo, anche per migliorare le condizioni della squadra (amori :(( ). Nell’ultimo periodo prima che me ne andassi, appunto, arrivarono tre tipetti interessanti: Daichi Sawamura, un “gentleman” dallo spirito combattivo, Sugawara Koushi, ma noi lo chiamavamo “Suga”, un ragazzo molto dolce e intraprendente, e Asahi Azumane, un po’ timido all’apparenza, ma con un cuore d’oro e tenero. E nonostante la loro entrata massiccia in squadra, questa non si risollevava, mancava lo spirito giusto. Ma io ero determinata, pronta a fare tutto il possibile per eliminare quella “famosa” diceria sulla nostra squadra: “Ahahahah povera Karasuno, decimata in quel modo, ce la farà a giocare una vera e propria partita con la P maiuscola?”. Non sopportavo questi commenti, e mi impegnavo a migliorare ogni campo, dalla difesa all’attacco, alle strategie…Mi ricordo che per una settimana intera non toccai libro, ma comprai un manuale sulla pallavolo per imparare tutto su quello sport e studiai sodo per acquisire tutte le competenze che un bravo manager dovrebbe avere. Niente, niente di tutto ciò servì per invogliare a tornare i ragazzi…Che rabbia però a ripensarci: avevamo fatto un gran lavorone, avevamo comprato ogni sorta di attrezzatura, qualche pallone più professionale…e soprattutto i ragazzi sembravano entusiasti di partecipare anche a quei tornei più difficili…ma niente. La cosa che non mi perdonerò mai, però, è il fatto di aver deciso anche io alla fine di abbandonare il compito di manager: l’università che avevo scelto (giurisprudenza a Firenze) stava diventando davvero difficile, i corsi intensificati, e gli esami quasi impossibili…Con grande vergogna, quindi, a testa bassa, lasciai la squadra, e non rividi più quei tre adorabili ragazzi, gli unici, e lo dico a malincuore, ma devo dirlo, che mi sono rimasti nel cuore, nè Ukai, di cui mi ero follemente innamorata.

Ritornando alla telefonata, ero turbata, ad essere sincera; volevo rivederli, veramente, ma non potevo abbandonare gli studi, ora che stavano andando bene.  In quel momento di silenzio, Takeda disse: “Cate, io, Ukai ed i ragazzi vorremmo davvero che tu tornassi, o meglio, che tu venissi a questo campus, lo vorremmo con tutto il cuore…”. Ed io subito: “Ma perché proprio me? Sai quanti altri manager puoi trovare oltre a me! Sicuramente ne troveresti di più capaci…”. Subito mi disse, senza pensarci due volte: “Perché noi vogliamo te e nessun altro…Nessuno potrà mai sostituirti, Cate. Durante quel periodo di merda, e scusa se dico parolacce ma è vero, tu ci sei stata, sei stata tu quella che ha provato in ogni modo a risollevare la squadra…tu e nessun altro Cate. Io e Ukai vogliamo te e solo te”. Mi scese una lacrima, più di una, al solo sentire “vogliamo te”. Volevano me, non un altro manager, ma me…Forse questo poteva bastare per tornare. Ero sicura che Takeda potesse sentirmi mentre tiravo su col naso, infatti mi disse: “Questa reazione…la prendo come un sì?”. “Ci devo pensare un po’, Take…”, dissi asciugandomi le lacrime. “Va bene Cate, puoi farmi sapere anche domenica stessa, perché, in ogni caso, la tua quota verrebbe pagata automaticamente grazie alle donazioni che hanno reso possibile questo campus! Quindi non ti preoccupare, prenditi tutto il tempo che serve…saranno due mesi impegnativi, dopotutto”. “Va bene Take, ti farò sapere il prima possibile. Ti ringrazio per ora.” “Sono io che ringrazio te Cate, sono contento che tu abbia preso in considerazione di tornare tra noi”, disse tutto contento. “Farò la mia scelta in modo accurato, vedrai”. “Com’è tuo solito fare, dopotutto, Cate…”. Sorrisi, e dissi: “A presto!”. “Ciao Cate”, rispose il mio amico Takeda, che ancora una volta aveva provato a convincermi di tornare…e questa volta forse ce l’aveva fatta davvero. Ma non corriamo troppo, mi dicevo, mentre sistemavo gli spartiti. Erano due mesi, e non potevo davvero permettermi di stare lontano dagli studi così a lungo. E poi, pensavo, dovevo prepararmi per l’esame del venti luglio, che ormai era alle porte quindi non avrei potuto comunque partecipare, anche solo per un mese, nel caso. Dovevo studiare, ecco tutto, ora che l’università stava andando alquanto bene; non sarebbe stato il caso di precipitare così in basso per una sciocchezza. Così mi misi l’anima in pace, per così dire, anche se ero ancora scossa per la telefonata, rigovernai le poche stoviglie che avevo usato per cena, spazzai le briciole per terra e mi preparai per andare a dormire. 

 

Il giorno seguente ho studiato tutta la mattina, dalle nove fino alle dodici e quaranta circa, quando iniziai ad avere fame. Così aprii il frigorifero per farmi, magari, un panino veloce, dato che volevo continuare a studiare, quando mi accorsi che era completamente vuoto. Erano rimaste solo due uova. E senza pensarci due volte, decisi di fare un salto al negozio di alimentari sotto casa mia, per comprare qualcosa per pranzo. Avevo deciso, durante il tragitto da casa al negozietto, di non fare una spesa completa, ma di comperare solo lo stretto necessario per quei due giorni, venerdì e sabato; infatti, nel fine settimana, molto probabilmente di domenica, sarei tornata a fare la spesa per la settimana seguente. Alla fine abbandonai l’idea di farmi un panino, e comprai gli ingredienti per una caprese, del pane, degli affettati e, ovviamente, le mie patatine al formaggio preferite, uno spuntino perfetto per accompagnare lo studio. Quando uscii dall’alimentari, mi ritrovai davanti il professore di diritto criminale dell’università che frequentavo, e lo salutai con gioia. “Buongiorno professore, come sta?”, gli dissi, con un sorriso a sessantaquattro denti. “Benissimo, ti ringrazio cara!”, mi rispose, contento di vedermi. Era uno dei pochi professori che apprezzavo in quell’università, un tipo un po’ strano, ma l’unico che spiegava gli argomenti con amore, e non semplicemente per fare il suo lavoro ed essere pagato. Subito gli dissi: “Ci vediamo tra qualche tempo per la sessione estiva, non la deluderò!”. “E’ ancora troppo presto…se va bene ci vedremo in sessione d’esame a settembre…Ora scappo, stammi bene!”. “Sì, grazie, anche lei!”, risposi. “A settembre?”, pensai sorpresa. “Avrà così tanti studenti che si sarà confuso con qualcun altro, di sicuro”. “Sì, di sicuro”. Tornai a casa e misi i prodotti in frigo; poi mi feci una caprese, e continuai a studiare tranquilla, anche se nel mentre pensavo alle parole di Takeda, ma soprattutto a quelle del professore. “Smettila, ti stai deconcentrando, così non ce la farai mai”, mi dicevo, e tornai sui libri. Alle sette e mezzo staccai, e mi fumai due sigarette, e fu in quel momento che ripensai ancora una volta alle parole di quel professore. Mi aveva messo il dubbio. Così andai in camera e presi il piano di studi che mi ero preparata tempo fa, per controllare se avessi davvero l’esame a luglio, o a settembre, come riteneva il prof. Non potevo crederci, il professore aveva ragione! L’esame di cui parlavo non era segnato il venti di luglio, bensì il venti di settembre! Mi si aprì un mondo, letteralmente: ero davvero convinta di avere l’esame tra meno di un mese…Questo piccolo ma immenso dettaglio avrebbe potuto cambiare ogni cosa. E intanto la mia mente iniziava a pensare, a fare ragionamenti contorti, senza un filo logico…Accesi un’altra sigaretta e pensai all’unica cosa che non avrebbe mai dovuto passarmi per la testa, ovvero quella di andare al campus. Ero una folle, iniziai a pensare, folle a tal punto da commettere una sciocchezza del genere. Subito pensai a tutto quel tempo che avrei potuto utilizzare per studiare e prepararmi al meglio per l’esame di settembre. Ma un’occasione come quella del campus di due mesi nelle Marche, quella non sarebbe più capitata, mi dicevo, mentre la cenere del tabacco piano piano si allungava sempre di più. “Aaaah…e ora! Cosa faccio? Vado, o non vado?”, ripetevo ad alta voce. “L’esame sarà a settembre, avrei tutto il tempo necessario per prepararlo, contando che sono già a buon punto, e mi manca solo quello da dare…”, continuavo. “Ma sì, dai, vado”… … “No! No, no, no, no, cosa dici Caterina! È vero che hai già iniziato a studiare e sei quasi a fine, però questo è uno degli esami più tosti che devi dare, e hai già detto al professore che non l’avresti deluso, perciò…”. Mi bloccai un istante: le vene del collo erano visibili e gonfie, e il cuore andava a mille. Pensai a tantissime cose in quel momento, e alla fine “Cate, ma un’esperienza del genere…quando avrai la possibilità di rifarla?”, dissi alla me stessa ancora confusa.

“Aaaaah, che palle! Questa è vera tortura…le scelte sono così difficili!”, dissi ad alta voce. Poi mi vennero in mente le parole di quel buon vecchio Orazio, e il suo adagio “carpe diem”, cioè “cogli l’attimo”, e mi calmai, avendo finalmente trovato una scusa lecita per andare con gli altri al campus…In realtà mi decisi sul serio. “Cazzo”, pensai, “quei latini avevano già capito tutto della vita”.

Presi una decisione, una definitiva, senza ripensamenti o cose di ogni genere. Domenica mattina sarei partita per Falconara Marittima, e avrei raggiunto la località in macchina. Volevo troppo fare una sorpresa ai ragazzi, a quei tre ragazzi che mi erano rimasti così tanto nel cuore…”E chissà quanto sono cresciuti”, dissi. “Sì, ho preso la mia decisione”. 

“Devo fare i bagagli”. 

I giorni seguenti feci tantissime lavatrici e bucati, in modo da avere una vasta gamma di vestiti da mettere ogni giorno, e lavai tutto quello che potei, da cappelli a calzini, dal chiaro allo scuro…lavai tutto insomma. Per fortuna non avevo ancora fatto la spesa per la settimana, altrimenti quei prodotti sarebbero andati a male, e sarebbe stato un peccato, e per fortuna che i miei genitori, a suo tempo, mi fecero portare a casa due valigie belle grandi da viaggio, che iniziai a riempire volta per volta. Ero felice, nonostante avrei avuto comunque da studiare, ero felice di poter rivedere le persone che mi avevano dato tanto, e felice soprattutto di incontrarne di nuove. Il giorno prima della partenza, cioè sabato, andai a comprare in cartoleria i “block notes” su cui ero solita prendere appunti durante le partite e gli incontri. Ne comprai almeno una ventina, infatti il proprietario mi guardava con una faccia a dir poco straniata, ma io pensai solo a comprarne il più possibile, in modo da non rimanerne senza, una volta là, anche se sicuramente laggiù avrei trovato senz’altro un’altra cartoleria. Comprai anche qualche rivista di pallavolo: alcune che commentavano partite e interviste del nostro paese, altre di paesi stranieri, per ampliare il mio bagaglio culturale-sportivo riguardo la pallavolo. 

Si fecero le sette, e stavo tornando a casa per gli ultimi preparativi, tutta contenta, quando notai una figura in lontananza che si stava avvicinando verso di me. Feci piccoli gli occhi e la riconobbi: era il professor Tognani della mia università. “Professore, che bello vederla ancora, come mai stava correndo poco fa?”, gli chiesi con aria curiosa e meravigliata. “Anf, anf…Cateri…na…senti una cosa…”, mi disse con un respiro agitato e affannato. “Professore, innanzitutto si calmi e si sieda. Cosa succede?”, gli chiesi, stavolta preoccupata. “Ora sto molto meglio, ti ringrazio. Dunque, dov’ero rimasto…ah sì! Eri tu, per caso, che avevi partecipato a quel corso sulla psicologia criminale applicata al rapporto tra “Freud e la pazzia di un killer”?”, mi chiese, come se sapesse già la risposta. “Sì, professore, ero io, come mai? Ha avuto dei riscontri positivi? Se è così, ne sono più che felic…”. “No no no, non si tratta di questo, o meglio, anche”, mi interruppe, prima che potessi finire la frase. “Il corso ideato da me e dal Prof. Schweilung ha avuto un grandissimo successo, ma purtroppo, come sai, non è stato frequentato da molti studenti…come posso dire…brillanti, ecco. Tranne una. E quella, cara, eri proprio tu. Ed il Prof. Schweilung è stato informato dall’università, e da me, delle tue straordinarie capacità di scrittura in ambito della psicologia moderna e contemporanea, e, per questo motivo, vorrebbe una relazione scritta da te, in cui parli delle nozioni che hai acquisito e dell’efficacia che potrebbe avere un corso del genere, se allargato anche alle “new entry” dell’università. Uhgh…penso di averti detto tutto”. Confusa, risposi: “Ah sì, ora mi ricordo! Quel corso strambo a cui partecipò qualche studente, penso al massimo tre, e al quale partecipai anche io perché lei mi aveva costretto a farlo, se non si ricorda male. Ricordo anche il Prof. Schweilung, una brillante mente amante del caro vecchio Freud, certo…ricordo perfettamente. Ma di una relazione…non ho ricordanze”. “Vedi, il fatto è che il Professore mi aveva contattato tempo fa, e in quel momento mi disse di questa relazione da farti fare…L’unico problema è che mi sono dimenticato di dirtelo, e la consegna scade domani alle 13.00.”. “Professor Tognani mi dispiace, ma domani devo partire per le Marche e tornerò per la fine di agosto. Mi è proprio impossibile scrivere questa relazione adesso. Lo farò in seguito, può starne certo”, gli dissi con una certa calma, sicura della mia scelta. “No, Caterina, non hai capito…Questo Schweilung è un osso duro, non molla così facilmente, soprattutto non dopo che la scadenza di questa relazione è stata posticipata varie volte, ehm…da me, lo ammetto”. “Prof ma lei sta scherzando vero? Come può pensare di non dirmi una cosa che mi riguarda fino alla gola e venire fuori solo un giorno prima della consegna di ‘sta relazione! Perché non me lo ha detto subito, professore? Di certo avrei ritagliato del tempo per dedicarmi alla scrittura ed alla revisione degli appunti presi durante quel corso”, dissi con tono arrabbiato. “Perché ti vedevo presa dai tuoi studi, stavi andando bene, e tutt’ora vai benissimo! Hai raggiunto risultati che neanche io alla tua età avevo raggiunto…e, bhe, non ho avuto il coraggio di dirtelo…Tant’è che ho provato io stesso a scriverla al posto tuo, in modo da non farti perdere tempo, ma non ci sono riuscito…non potevo scrivere un documento autentico e firmarlo a nome tuo, non sarebbe stato corretto nei tuoi confronti e del professore, ma soprattutto tuoi”. “Ho capito professore, ma lei capisce in che situazione mi trovo adesso? Devo partire per Falconara Marittima, domani mattina! Lei non può farmi questo, professore. Lasci pure a me la responsabilità, ma adesso non posso proprio fare questa relazione…”. “Certo, capisco benissimo Caterina…c’è solo un problema”, mi disse con aria triste, e questo fece cambiare il mio atteggiamento. “Che tipo di problema, professore?”, gli dissi preoccupata. “Schweilung mi ha confermato che se entro domani alle 13.00 non gli viene inviata la relazione finita e firmata da te, si occuperà personalmente della tua espulsione dall’università di Firenze. E’ un guaio, lo so. Ma se tu potessi metterti anche per una sola oretta sopra quella relazione e buttare giù qualcosa, renderesti la vita più facile a tutti”. “Sì professore, vada al diavolo, mi dia questa relazione e mi lasci in pace. Sappia che mi ha rovinato mezza vacanza, pertanto la ringrazio e le auguro una splendida serata”, dissi con un tono tremendamente arrabbiato e scocciato. “Io credo in te!”, disse il professorino in lontananza.

Entrai di corsa nel mio appartamento, chiusi la porta a chiave, posai le borse che avevo in mano, e mi misi nel letto. Non era possibile. Finalmente avevo preso una decisione con senno, e tutto quello era stato distrutto con il rischio di un’espulsione dall’università per opera di quel verme tedesco.”Mmhmmh…”, pensavo, “che nervoso”. Decisi di mettermi subito all’opera, dato che era chiaro che se non avessi consegnato quella cavolo di relazione entro le 13.00 del giorno dopo, non avrei più messo piede in università. Ma prima mangiai un boccone, mi feci un toast con dell’insalata, e poi iniziai a riprendere gli appunti di quel maledetto corso, che fortunatamente avevo riposto in modo ordinato sulla mensola. Era esagerato dire che sarei stata tutta la notte a finire di scrivere quel foglio, ma una buona parte sì. Andai a letto verso le quattro circa, per poi svegliarmi verso le dieci e venticinque, con il sonno che scorreva nelle vene e una relazione di ventotto pagine da rileggere da cima a fondo. Per fortuna mi ero concentrata molto la sera prima, e non trovai infatti molti errori. Dopo averla riletta, decisi di farmi una doccia e di finire di preparare le ultimissime cose, come documenti, soldi, benzina, etc…e già…dovevo spedire pure quella seccante relazione. Mi feci coraggio e cercai l’indirizzo e-mail, che Tognani mi dette a suo tempo, di Schweilung, per inviargli una mail, ma prima che la avessi inviata, mi venne in mente che a quello piaceva ricevere sia e-mail, sia lettere cartacee. Così, subito dopo aver inviato la mail, con specificato che gli avrei inviato anche una lettera cartacea, andai a frugare nel cassetto vicino alla cucina per prendere una lettera ed un francobollo, conservato per le emergenze, come questa, e gli scrissi una lettera, con dentro il testo della mia relazione. Non mi restava che farla spedire alla posta più vicina, che si trovava a dieci isolati da casa mia. Così ne approfittai per fare il pieno di benzina alla macchina, in modo che dopo, appena pronta, sarei partita. Feci una stima: se fossi partita per le due e mezzo circa…, sarei arrivata verso le diciassette, orario perfetto d’arrivo. Quindi mi precipitai in macchina, e prima mi diressi verso l’ufficio postale, poi a fare benzina dal benzinaio dietro casa. Era quasi tutto pronto, mi mancavano da sistemare le valigie, gli ultimi bagagli meno ingombranti…ah, e dovevo prelevare alcuni soldi, ma decisi di andarci dopo aver caricato la macchina. Bzzzzz…bzzz…bzzzzz, era il cellulare. Un messaggio. “Da Takeda: Ehi Cate, allora verrai? Sai, sono fiducioso…”. Mi era appena arrivato un messaggio da Take, e non potevo crederci, proprio un momento prima che partissi. Gli risposi così: “Caro Take, sappi che sto per partire per questa magnifica avventura assieme a te, Ukai e i ragazzi, e non vedo l’ora. Credo di arrivare più o meno per le cinque. Ho avuto un imprevisto, altrimenti sarei partita la mattina. Ah una cosa…per favore non dire nulla ai ragazzi, voglio che sia una sorpresa…Ci vediamo dopo!”. Subito mi rispose: “Sono felicissimo! Sapevo saresti venuta alla fine! Tranquilla, terrò la bocca chiusa. Ti mando la posizione dell’alloggio appena arriviamo. A dopo!”. 

E così iniziò il mio viaggio. Erano le due e mezzo, ed avevo finito di preparare tutto. Avevo finito anche di caricare la macchina, rimanevano due cose che avrei tenuto nel sedile accanto al mio. Pensai di dover mangiare un boccone prima di partire, ma era già tardi, ed il viaggio fino alle Marche sarebbe durato un bel po’. Quindi mi feci, molto velocemente, due panini da mangiare durante il viaggio. Era tutto pronto: documenti, soldi, serbatoio pieno…Restava solo da partire.

Lasciai la città, e presi l’autostrada. Per fortuna non c’era molto viavai, di solito i fiorentini per le due e mezzo/tre tornano a lavorare; quindi, la strada era pressoché libera. Intanto, mentre guidavo serena e mangiavo un panino, pensavo a cosa avrei fatto una volta là, alle persone che avrei rivisto…Ukai soprattutto, ma non solo. Ovviamente, alle attività che avremo svolto, tutti insieme, agli allenamenti, alle avventure…Mi sembrava di tornare ai tempi del liceo… “Mi sento vecchia a pensare a queste cose!”, mi dicevo. Finii il secondo panino dato che avevo molta fame, e sentivo la stanchezza negli occhi (avevo lavorato tutta la notte e la mattina a quella cavolo di relazione!), ma non potevo assolutamente fermarmi e riposare un po’, anche se sarebbe stata cosa ottima. Decisi allora di mettere un po’ di musica, la playlist salvata nella macchina, che di solito mettevo per i viaggi lunghi. Era la playlist dei Gorillaz, che mi faceva impazzire, e cercando tra le varie tracce capitò “Aries”, dall’album “Song Machine”. “Mettiamo un po’ di musica va’”, dicevo, “e poi, come ci insegna il buon Nietzsche, la vita senza musica sarebbe un errore”, dicevo, improvvisandomi filosofa. E con la mia musica, continuai a viaggiare. Verso le quattro e un quarto entrai nella regione delle Marche, e lì sì che iniziarono i guai…Iniziai a guardare tutte le varie uscite, una volta arrivata a Macerata, ma non vidi nessuna col nome di “Falconara Marittima”. “Cavolo”, pensai, “e adesso che faccio?”. Notai un po’ più avanti una piazzola di sosta, e così decisi di fermarmi. Guardai per bene su Google Maps, e capii di dover prendere la strada per Ancona, e poi da lì la strada per Falconara Marittima. Ripartii, e presi l’uscita per Ancona, che da Macerata distava trentasette chilometri circa, pressoché quaranta minuti. Appena arrivai ad Ancona, la città Dorica, notai subito l’uscita per Falconara, e la presi senza alcun indugio. Sul cartello indicava undici chilometri, quindi circa dieci/quindici minuti di viaggio. La meta si stava piano piano avvicinando, ed ero felicissima. Intanto guardai velocemente il cellulare e notai un messaggio di Takeda, con inviata la posizione dell’alloggio, e subito misi il navigatore. In quel modo non mi sarei potuta sbagliare. 

Erano le cinque e dieci esatte, ed entrai nel parcheggio dell’alloggio, che caspita…era davvero grande. “Che sia una vecchia scuola?”, pensai subito. “Non è possibile che sia un hotel, dai…così grande poi. Ma quanto avranno pagato?”, rimasi con questa domanda in testa. Che emozione, ero arrivata, finalmente…Mi sembrava che quel viaggio fosse durato un’eternità, anziché due orette e mezzo. Alzai i finestrini, spensi la macchina, cercai di prendere tutte le borse, in modo da non fare troppi viaggi, e mi diressi verso l’entrata. Non c’era nessuno, tutto era silenzioso, e mi sembrò alquanto strano, ma mi incamminai lo stesso. Non era un hotel infatti, ma una specie di ostello o tipo una scuola con dormitori. “Che figata”, pensai. E fu in quel momento che davanti ai miei occhi vidi l’autobus ufficiale della Karasuno, e dietro quello della Nekoma, e ancora, quello della Fukurodani. Era incredibile, non ci potevo credere…Avrei rivisto gli allenatori e i manager di quelle squadre, e ovviamente, i giocatori. “Che emozione…”, pensai fra me e me. Così entrai di corsa nella struttura e mi ritrovai davanti una montagna di borse e valigie. Girai lo sguardo e notai una persona che a malapena riuscivo a vedere al di là di quella moltitudine spaventosa, così mi avvicinai. “Buonasera, che succede?”, dissi preoccupata, anche se nella mia preoccupazione vi era una sfumatura di curiosità. “Oh, buonasera signorina”, disse un anziano signore. “I ragazzi hanno lasciato tutto nel mezzo, accidenti…sono corsi subito in palestra. Persino gli allenatori non hanno detto nulla! Che disgraziati…Bando alle ciance…lei è…?”, mi disse, mettendosi un paio di occhiali con lenti molto spesse e prendendo in mano una lista lunga fino a terra. “Guardi, non si preoccupi, ora le do io una mano”, gli dissi offrendogli aiuto. “Macchè, macchè, ci mancherebbe altro! Adesso chiamo quello screanzato di mio nipote che se ne sta sempre a quel cellulare…ah, e mi farò dare una mano anche da mio figlio, che dovrebbe rientrare da poco con asciugamani, saponi e quant’altro, che metteremo nelle varie stanze”. “Ah, va bene, va bene”, dissi io, un po’ perplessa. “Comunque sono Caterina Corzani, la manager della squadra Karasuno, sono arrivata forse un po’ in ritardo, ma eccomi qui!”, dissi al vecchietto, che continuava a guardare quella immensa lista. “Mmmh, vediamo…ah, sì! Eccoti qui, Caterina Corzani. La tua stanza è al secondo piano, la prima a destra. Adesso ti do la chiave…vediamo dov’è…eccola! Tieni cara”, mi disse, consegnandomi la chiave. “La ringrazio tantissimo! Il pagamento lo faccio subito? O magari preferisce un altro giorno…”, gli chiesi per sicurezza. “Stia tranquilla, è già stato tutto pagato da quel giovane professore, quant’è simpatico.” “Ah, capisco…”, dissi io sbalordita. “Ahhhh, è vero, che stupida! Takeda mi disse che aveva provveduto a tutto lui, anche per me, grazie alle donazioni fatte, che cretina…”, dissi mettendomi una mano sulla fronte. Ero proprio sfatta, non avevo dormito abbastanza, e il viaggio è stato abbastanza pesante…”Figurati figliola, tieni, e vai pure nella tua stanza. Mettiti comoda! Spero che la camera sia di tuo gradimento. Sai, questa struttura non è un albergo, ma è una ex scuola, la mia scuola…”, disse il vecchio, alzando lo sguardo al cielo. “Sì, l'avevo capito. Ma wow, era sua questa struttura?”, gli chiesi per saperne di più. “Sì, era una struttura di famiglia, che poi è passata a me, e a quei tempi ero il preside di questa scuola. Mi facevo rispettare, sai! Ero un osso duro, non guardare ora che sono vecchio…all’epoca tutti mi temevano, ero proprio un gran brontolone…Ignazio, vedi di metterti all’opera! Non startene lì senza fare niente, vieni qui e aiutami con i bagagli! E dov’è tuo padre? Possibile che qui nessuno venga a darmi una mano??”, urlò in modo tenero. “La vena brontolona gli è rimasta, non c’è che dire!”, dissi fra me e me, accennando a una risatina. “Scusami cara, dov’ero rimasto?”. “Non si preoccupi. Mi stava parlando della struttura e di quando era preside”, gli dissi. “Ah, sì, giusto. Dicevo, questa scuola era davvero bella, ampia, con una bella palestra…Poi col passare degli anni ci furono sempre meno iscritti, dato che aveva aperto una nuova scuola ad Ancona, più bella, più grande, e con tanti indirizzi da scegliere. Tra l’altro il preside di questa scuola è il mio vicino di casa Terenzio, con cui all’inizio ero in concorrenza per le due scuole. Ma poi entrai nella sua scuola, e mi accorsi di quanti più servizi e spazi offrisse, che non la mia. Così decisi di chiudere l’istituto, e di adibire la struttura a un semplice ostello, con dormitori e mensa, per i ragazzi in vacanza o in viaggio studio, come si fa oggi, no? Ed eccoci qui. Quindi, dopo questa storia, che sa, racconto sempre a tutti, spero che tutto sia di suo gradimento”, chiuse finalmente questo monologo. Caspita, aveva parlato se non per dieci minuti pieni, senza interrompersi. Mi si chiudevano gli occhi per la stanchezza, ma anche per la lentezza e lagna con cui il vecchio raccontava il passato…però che carino…si vede che va fiero di questa nuova struttura che ha messo su. “Ora capisco perchè i ragazzi hanno lasciato tutti i bagagli nel mezzo…il vecchio li avrà trattenuti con le sue avventure del passato, e quelli morivano dalla voglia di andare in palestra! Ahahahahaha, che ridere”, pensai. “Sono contenta per questa avventura che sta vivendo, signore! Spero che vada avanti ancora per molto!”, dissi sorridendo. "Eheheh, lo speso anche io cara, gnegnegne”, sogghignò, e se ne andò via, confabulando qualcosa a bassa voce, e con le mani dietro la schiena. Sembrava proprio uscito da un film, e la cosa mi faceva davvero ridere. Intanto mi aveva dato la chiave, e mi diressi verso le scale per i dormitori, per cercare la mia camera. Arrivai al secondo piano, e in tutto c’erano quattro camere, ed ero curiosa di sapere chi le avesse preoccupate. Girai la chiave, entrai e sistemai subito delle cose. Tirai fuori alcuni vestiti e li appesi nell’armadio con l’apposita gruccia che trovai dentro, mi feci una doccia veloce per levare il sudore dal corpo, e mi cambiai. Mi misi addosso una tuta da ginnastica leggera, e tirai fuori dalla mia borsa il PC ed i libri dell’università, che appoggiai sulla grande scrivania con tanto di finestra davanti. C’era anche un balcone: era spazioso, accogliente e soprattutto aveva una spettacolare vista sul mare. Mi piaceva già. Mentre me la spassavo a curiosare per la camera, ad un certo punto inciampai nella borsa appoggiata ad una gamba della scrivania, e, per il colpo, caddero dalla tasca tutti i blocchetti che mi ero comprata per annotare tutto durante le partite. “Già! Ma i ragazzi dove sono?”, pensai ad alta voce. “..sono scappati subito in palestra…”, mi ricordai le parole del vecchio. Così presi con me quanti più blocchetti potevo e tre penne, nel caso fosse finito l’inchiostro, e mi precipitai giù all’ingresso.  Vidi seduto per terra un ragazzo, più o meno sui quattordici anni, che giocava al telefono.“Scusami”, gli chiesi gentilmente, “dove si trova la palestra?”. Ignazio, il ragazzo, mi disse che appena uscita dalla struttura, dovevo andare verso destra, e avrei visto subito l’entrata della palestra subito di fronte. “Grazie mille!”, gli risposi. Lui accennò un sorrisetto. Doveva essere timido.Appena uscita, quindi, girai a destra, come da indicazioni, e mi trovai davanti non una semplice palestra, ma una gigantesca, imponente, come quelle che vengono utilizzate per i tornei internazionali. Mi avvicinavo sempre di più, e il cuore batteva, forte, e poi all’impazzata, al solo pensiero che al di là di quelle porte avrei rivisto la mia seconda famiglia… Aprii le porte, e un odore di gomma bruciata raggiunse le mie narici all’istante. Il suono delle scarpe che scivolavano sul pavimento, il loro rimbalzo, il suono della palla al contatto con la mano…Prima di aprire gli occhi, mi arrivarono alle orecchie questi suoni, suoni che non sentivo da tanto, ma familiari. Trovai davanti ai miei occhi un’infinità di palloni della marca “Wikasa”, la più rinomata per palloni da pallavolo, la marca che usavamo anche ai miei tempi. Subito notai Takeda, seduto su una sedia, e Ukai, con i suoi capelli biondi tinti, sparati indietro e, beh, era affascinante anche di spalle, come sempre. “Ma che mi metto a pensare in un posto simile!”, mi dicevo arrossendo. “Concentrati sulle mosse e non pensare a ques…”. “Sbaaaamm!!”, fece la palla schiacciata da un ragazzo della Karasuno, uno che non conoscevo, dai capelli arancioni. Rimasi allibita dalla potenza di quella schiacciata, e il rumore quasi mi stordì da quanto era forte. Dall’altra parte della rete c’era la Fukurodani, una delle squadre più forti d’Italia, imponente, che stava dando il meglio di sé come sempre, con il loro allenatore Yamiji, che avevo solo sentito nominare in televisione. Anche dalla Fukurodani partirono schiacciate in lungo linea e parallele da paura. E senza pensarci due volte, annotai tutto quello che vidi dopo quella schiacciata: dai movimenti alle tecniche, dalla velocità dei passaggi alla difesa…tutto. Mentre scrivevo, notai una ragazza dai capelli rosa che si aggirava per il campo dove giocavano Karasuno e Fukurodani, con un cellulare in mano, tenuto in una posizione che suggeriva quella per fare foto, pensai subito, rielaborando nel cervello l’immagine che avevo visto. Subito mi sembrò strana, e mi chiedevo chi fosse, ma pensai che fosse solamente una turista fan di una delle due squadre, intenta a fare alcune foto per poi tornare a casa e incorniciarle. Era vestita tutta di nero, e se avessi dovuto definire il suo stile, avrei sicuramente detto stile punk, per la prevalenza del colore nero e viola, e per il trucco pesante che aveva attorno agli occhi azzurri, trucco tra l’altro un po’ colato, probabilmente per il caldo. Ma per il momento decisi di lasciarla perdere, anche se intralciava un po’ i giocatori, ma nessuno le diceva niente, così anche io decisi di non intervenire, e continuai a osservare il gioco. Dall’altra parte, abbastanza distante dalle altre due squadre, vidi la Nekoma, famosa per la velocità e la difesa impeccabile, con il capitano Kuroo Tetsuro, di cui conoscevo soltanto il nome ed un po’ il volto, niente di più. Annotai nel taccuino alcune cose particolari che vidi, come il salto dalla seconda linea del libero e finte molto interessanti. Nessuno mi aveva notato, tutti erano concentrati a giocare le partite. Ad un certo punto il coach Yamiji iniziò a battere le mani, come per voler dire di smettere il gioco e di prestargli attenzione. Tutti si fermarono e Yamiji pronunciò delle parole: “Avete giocato tutti bene, nonostante siamo qui da poco. Vorrei innanzitutto ringraziare il mio collega Ukai, che ha reso possibile questo campus. Non sei d’accordo anche tu, vecchio Nekomata?”, disse al coach della Nekoma. “Assolutamente sì Takeyuki. Ukai, giovanotto, è una bella opportunità quella che hai dato a tutti noi, e per questo ti ringraziamo tanto!”. A quel punto tutti i ragazzi, compresi quelli della Karasuno, ringraziarono Ukai e Takeda in coro. E fu in quel momento che Daichi guardò dalla mia parte ed esclamò: “Ma non è possibile…c’è la Cate!”. Subito io feci un sorriso a sessantaquattro denti e salutai tutti quanti, correndo verso di loro. Anche Daichi iniziò a correre verso di me, e con lui Suga e Asahi, con le lacrime agli occhi. Ci scontrammo tutti e quattro in un forte abbraccio, tutti con le lacrime agli occhi. Subito dopo arrivò anche Nishinoya, il libero, poi con lui Tanaka, Kinoshita, Ennoshita…tutti ragazzi del secondo anno che avevo conosciuto poco prima che lasciassi il lavoro di manager, che mi abbracciarono tutti nonostante non ci conoscessimo molto. “Cate!! Ma quando sei arrivata? Potevi farmi uno squillo o un urlo…Da quanto sei qui?”, esclamò tutto preoccupato Take. “Take! Sono arrivata verso le cinque, ho fatto una doccia e mi sono cambiata, poi vi ho trovato qui ed ho assistito alle partite mozzafiato fino ad ora e wow…ora capisco quando mi hai detto che la squadra aveva fatto dei progressi…e che progressi!”, risposi con la bocca che mi tremava per la felicità. Take rispose con un sorrisone, e mi disse: “Vedo che hai con te il solito blocco di appunti…quanti ne hai portati in tutto?”, e finì la frase con una risata. “Ne ho più di trenta, che vuoi…?”, dissi, anche io ridendo. E intanto tutti mi tempestavano di domande: dove fossi stata, dove fossi finita per tutto quel tempo, cosa facessi, dove abitassi…Ed io risposi a tutte, come fosse un’intervista. Poi venne verso di me Ukai, e, a essere sincera, non aspettavo altro. “Ciao Cate, che sorpresa, non mi sarei mai aspettato di vederti qui! Come stai? E’ andato bene il viaggio?”, e intanto mi abbracciò. Un abbraccio…da Ukai…Era da molto tempo che non lo vedevo e sentivo, e mi vennero le lacrime agli occhi. “Sì…Tutto bene Keishin…ti ringrazio…”, dissi tremando tutta e piangendo un po’. “Cosa c’è, non ti senti bene per caso, Cate?”, mi disse con aria preoccupata. Io risposi muovendo la testa in modo negativo. “No Keishin, va tutto bene, sono solo emozionata di poter stare di nuovo con voi…”, gli dissi asciugandomi le lacrime. “Siamo contenti anche noi Cate, tanto”, disse guardandomi negli occhi. Cavolo, non poteva fare così, non poteva rivolgermi parole dolci…mi sarei innamorata di nuovo…Come se non lo avessi amato fin’ora… “No no no, Caterina, di nuovo questi pensieri? E basta! Goditi la vacanza e non rompere!”, mi diceva l’inconscio che tutto sa. Dopo, arrivarono i coach Yamiji e Nekomata, che mi dettero il benvenuto. “Sono Caterina Corzani, ed è un onore per me fare la vostra conoscenza”. “Sei giovane eh”, disse il coach Yamiji. “Mi è stato riferito che tu sia una delle migliori manager che la Karasuno abbia mai avuto…Non vedo l’ora di vederti all’opera”. Io rimasi impietrita dalle sue parole, e annuii dicendo: “Farò del mio meglio per far vincere la mia squadra!”. “Ah ah ah, vedo che sei determinata, brava!”, concluse il coach della Fukurodani. “Sei all’università, eh”, mi chiese il coach Nekomata. “Sì signore, al secondo anno di Giurisprudenza, a Firenze”, dissi io. “Mmh, bene. E come ti trovi? Hai il Professor Tognani, giusto?”. “Mi trovo benissimo, la facoltà mi piace molto e le lezioni sono interessanti. Sì, esatto. Vi conoscete forse?”, gli chiesi, sbalordita. “Ah ah ah, sì. Eravamo compagni di merende ai tempi dell’università”, mi disse con aria fiera”. Io, tutta contenta, gli dissi che mi faceva molto piacere. “Sei venuta qui per un motivo, giusto?”. “Sì, uno ed uno solo”. “Molto bene”, disse Nekomata. E concluse così il suo interrogatorio, mettendomi una mano sulla spalla e sorridendomi. “Bene, facciamo conoscere le nostre manager!”, disse Yamiji. “Lei è la nostra manager, Emily Cerbai, al quinto anno del Liceo Scientifico di Prato”. “Oddio è la ragazza strana col cellulare che ho squadrato prima! Figurati, pensavo fosse una turista, ed invece è la manager della Fukurodani. Mamma mia, menomale non le ho detto niente…fiùu...”, pensai in quell’istante di tempo. Si presentò ringraziando dell’opportunità, ed io feci lo stesso. La ragazza mi sorrise con quegli splendidi occhi azzurri, ed io ricambiai. “E questa è la piccola Hitoka Yachi, manager tirocinante della Nekoma, al secondo anno del Liceo Classico di Prato. Su, presentati”, disse il coach dalla rossa uniforme. Io e la ragazza dai capelli rosa ci guardammo perplesse, dato che non vedevamo la terza manager. Poi il coach si spostò, e lei era subito dietro di lui, intimorita dagli occhi puntati su di lei. Si presentò con la voce tremante e le mani giunte al petto. Era una ragazza timida, ma molto carina, con le gote rosa ed i capelli biondi. Un ragazzo della squadra le andò vicino e le mise una mano sulla spalla per rassicurarla, e con lui tutti gli altri. “Che bella squadra unita”, pensai. Dopo le presentazioni, mi fu raccomandato di prendermi cura delle due ragazze e di dare loro consigli, dato che ero quella con più esperienza. Si fecero le sette, e un’ora dopo, circa, ci sarebbe stata la cena in mensa, con tutti riuniti, e poi il tempo libero. Era a tutti gli effetti un campus, che seguiva una precisa tabella di marcia, proprio come piaceva a me. Intanto che le altre squadre si preparavano per tornare in camera per farsi una doccia, notai in fondo al campo due ragazzi che stavano ancora allenandosi a fare passaggi. Erano della squadra Fukurodani, li riconobbi dall’uniforme bianca e nera. Uno era un alzatore, e l’altro, molto probabilmente, uno schiacciatore. Entrambi altissimi, superavano sicuro il metro e ottanta, e lo schiacciatore era più alto del suo compagno. Aveva dei capelli bianchi con sfumature nere, sparati in alto, e per questo assomigliava molto a un gufo, pensai. Non riuscivo a vederlo bene da lontano, ma pensai che fosse un gran bel ragazzo, come tanti altri lì dentro, alla fine. “Vorrei vederlo gioca…”. “Cate!”, qualcuno disse. Mi girai, ed era Takeda che mi chiamava. Subito lo raggiunsi. “Voglio presentarti la squadra al completo, anzi…lo farà il nostro Ukai”, disse, e il coach gli mise una mano sulla schiena. Osservai quel gesto, e rimasi un po’ confusa, ma non gli detti così tanto peso. “Allora Cate, tu hai conosciuto una parte della squadra anni fa…ora è bene che tu conosca per intero…la Karasuno”. Appena sentii il nome della squadra, mi iniziò a battere forte il cuore e un brivido mi attraversò la schiena. “Sì, dissi emozionata”. “Lui è Kageyama Tobio, un alzatore, del secondo anno”. Era il ragazzo coi capelli neri che avevo notato all’inizio. Wow, com’è alto rispetto a me, ed è solo del secondo anno…”, pensai. “Poi c’è Hinata Shoyo, un promettente schiacciatore, anche lui del secondo anno”. Il ragazzo dai capelli arancioni, avevo notato anche lui per la velocità e la precisione con cui schiacciò la palla. “Tsukishima Kei, muro centrale, del secondo anno”. Mi sembrava di averlo intravisto mentre murava gli avversari…Anche lui altissimo, forse superava addirittura il metro e novanta. “E poi c’è Yamaguchi Tadashi, il nostro “pinch server”, assieme a Kinoshita, rispettivamente del secondo anno e del terzo anno”. “Piacere di conoscervi ragazzi, vi ho visto mentre giocavate, e siete davvero talentuosi. Non vedo l’ora di iniziare questo percorso insieme”, dissi in modo professionale. Il ragazzo coi capelli arancioni, l’alzatore e il “pinch server” annuirono tutti insieme, come se non vedessero l’ora di lavorare con me. Il “middle blocker” invece se ne stava da una parte ad ascoltare la sua musica. “Ci sarà da lavorare con questo Tsukishima, me lo sento”, dissi fra me e me. Dopo le presentazioni, anche la Karasuno scappò in struttura a farsi una bella doccia. “Sono proprio curiosa di sapere la disposizione delle camere”, pensai a bassissima voce. “Cate hai un minuto?”, mi chiese Takeda dal nulla. “Anche due!”, risposi subito. “Benissimo, allora andiamo in struttura e sediamoci nel tavolo vicino alla mensa. Dobbiamo discutere del programma per questa settimana, che partirà da domani”, disse, facendosi tutto serio. “Certo che sì, adoro i programmi!”, dissi fogata. “Keishin, vieni con noi, vero?”. “Certo”, rispose in modo tranquillo. Così, dopo esserci accertati che non fosse rimasto nessuno, Takeda chiuse la palestra e ci avviammo dentro la struttura.

Ci sedemmo al tavolo, e iniziammo a parlare del programma per la settimana. “Allora…”, iniziò Takeda, “stasera ceniamo e ci rilassiamo. Siamo stanchi per il viaggio e per l’allenamento, soprattutto i nostri ragazzi”. “Sono d’accordo, per stasera lasciamoli liberi”, disse Ukai. “Però è bene mettere una specie di coprifuoco, non voglio che stiano tutta la notte a giro, primo, poiché non tutti sono maggiorenni e dobbiamo tenerli sotto controllo, e secondo, perché il giorno dopo aspetta loro una giornata faticosa, piena di allenamenti e partite”. “Certo, hai ragione”, rispose Takeda. “Qualche proposta di orario? Cate…tu che dici?”. Io, da festaiola quale ero, nonostante fossi una persona seria e composta, proposi: “Direi che dal lunedì al venerdì, tutti dovranno essere in camera massimo per le undici, perché, come hai detto tu Keishin, la mattina dopo dovranno faticare, ed è bene che siano riposati per giocare al meglio. Ovviamente proporrei di far controllare la situazione a uno di noi allenatori o manager, a rotazione, in modo da stare tranquilli. Questo è un campo dove bisogna impegnarsi per dare il massimo, il tutto unito a risate e divertimento, certo, ma i ragazzi devono essere consapevoli che non è una vacanza, per quanto lo possa sembrare. È un mettersi alla prova, per imparare cose nuove, divertirsi, e stare con le persone più care. Detto questo, direi che il sabato pomeriggio e la domenica i ragazzi saranno liberi di fare quel che vorranno. Ho visto che il centro non dista molto da qui; quindi, volendo, potrebbero benissimo decidere di andarci la sera o quando vorranno. Anche il mare non è lontano, penso che in massimo dieci o quindici minuti si raggiunga bene, ma controllerò in questi giorni e vi farò sapere. Ovviamente credo sia opportuno darsi un orario anche per le uscite nel weekend. Pensavo a un coprifuoco massimo alle tre di notte, sono ragazzi, facciamoli divertire almeno un po’. Ah, e inoltre per le uscite in qualsiasi posto, dovrà esserci sempre un adulto che tenga d’occhio i ragazzi, non dico che debba star loro attaccato, ma che stia nel loro stesso posto e che fissi un ritrovo per tutti. Almeno io la penso così. Che dite? Ho parlato troppo, come sempre forse”, conclusi il mio logorroico discorso con una risata. I due mi guardavano con occhi sbalorditi, ed io mi imbarazzai. “Cavolo”, pensai, “hai praticamente deciso tutto tu, Caterina! Che figura…”. E mentre io mi scervellavo, “wow Cate, hai detto tutto in modo perfetto, e sono tutte idee fantastiche e serie. Grande!”, disse Takeda. E anche Ukai annuì. “Bel programma, molto dettagliato e responsabile, come ci si sarebbe aspettati da te, Cate”, esordì il coach. “Ci sei proprio mancata Cate, si vede anche da questo…non facevamo programmi così dettagliati da molto, oserei dire da quando hai deciso di lasciare la Karasuno. Sono sbalordito, e sono assolutamente d’accordo con quello che hai appena detto”, disse Takeda. “Io pure”, disse semplicemente Ukai ma con grande stima. Guardai entrambi sorridendo. Ero tornata, e si vedeva da tutto, anche dai minimi particolari. “Ho annotato tutto quello di cui vi ho parlato sul mio blocchetto, e vorrei metterlo subito nero su bianco, in modo da avere un documento ufficiale, anche da attaccare sulla bacheca all’entrata se necessario. Sarebbe perfetto se questo programma venisse esposto a tutti prima o dopo cena, in modo che abbiano già un’idea sul da farsi”, dissi fiera. “È un’ottima idea quella di attaccare il programma sulla bacheca”, disse Takeda. “Già. Perché non lo esponi tu a tutti? D’altronde, sei stata tu a idearlo, ed hai la completa approvazione di tutti”, chiuse la frase Ukai. “Tutti…tutti?”, chiesi perplessa. E vidi spuntare gli altri coach, che evidentemente avevano ascoltato tutto. “Siamo più che d’accordo!”, dissero in coro Yamiji e Nekomata, “ci affidiamo a te”. Mi sembrava quasi di rivivere quei momenti passati alla Karasuno, e mi brillarono gli occhi. “Va bene, allora datemi un minuto per raggruppare tutte le idee”, dissi iniziando a scrivere. Intanto i ragazzi stavano iniziando a scendere, non tutti, ma la maggior parte, e si chiesero dove fosse la cena. Poveri, dovevano essere davvero affamati, pensai. Mentre scrivevo, mi si avvicinò Hinata, ed insieme a lui Kageyama. “Cosa fai, signora manager Caterina?”, mi disse in modo buffo. “Ahahah, chiamami solo Caterina”, risposi sorridendo. “Ricevuto sign…ehm…Caterina!”, disse Hinata, e subito dietro Kageyama: “Sì! Ricevuto!”. E subito dopo iniziarono a bisticciare sul ritardo della risposta di Kageyama. Erano due tipi strani, pensai, ma molto simpatici e tenaci. Appena arrivata li avevo subito notati per la precisione e la velocità delle mosse, ed infatti, in una pagina bianca del mio taccuino, scrissi, nel mezzo, “Hinata e Kageyama”, inseriti all’interno di un cerchio. Mi ero segnata anche Tsukishima, dal caratterino da tenere sotto controllo, e anche Yamaguchi, a cui, mi ero ripromessa, avrei insegnato il tiro roteante. Vedevo in questi nuovi membri del potenziale, potenziale che, se sfruttato al meglio, poteva solo fare crescere la squadra. Appena conclusi la riscrittura delle regole fondamentali, scesero tutti i ragazzi, e i coach li riunirono al centro. E quando ebbi l’attenzione di tutti, iniziai a parlare: “Buonasera di nuovo a tutti, sono Caterina Corzani, manager della squadra Karasuno, ma ci siamo già presentati prima. Mi hanno affidato il compito di occuparmi delle regole basilari da rispettare durante questi due mesi”. Era incredibile, avevo l’attenzione di tutti. Nessuno era distratto, anzi, erano tutti interessati a quello che stavo dicendo. Così esposi brevemente le regole, e tutti mi sembrarono d’accordo, e aggiunsi che in quei giorni avrei stampato le regole e le avrei attaccate sulla bacheca davanti all’entrata, in modo che ognuno potesse consultarle. Dopo di quello, dissi: “E adesso…tutti a mangiare!”. Si levarono grandi “Evvai!”, “Sì!”, “Si mangia!” da tutti, compreso dagli allenatori. Tutti si avviarono verso la mensa, e prima che mi dirigessi anche io, mi si avvicinarono Daichi, Suga e Asahi, che mi dettero una pacca sulla schiena, dicendomi: “Grande Cate, non ti smentisci mai!”. Io sorrisi e ci avviammo in mensa. Tutti si erano già seduti ed alcuni stavano addirittura già mangiando, non vedevano l’ora. Io mi misi in un posto libero nel tavolo con Takeda e Ukai, e altri ragazzi. Riconobbi alcuni componenti della Nekoma e la loro manager, ed alcuni della Fukurodani. Quella sera per cena c’era pollo arrosto con patate e verdure, e molti dei ragazzi fecero il bis. Io mangiai con gusto, ed intanto continuavo a scrivere sul blocchetto le idee che mi venivano in mente. Ad un certo punto, gli allenatori si alzarono e proposero un brindisi, con varie bibite e del vino. “Direi di fare un brindisi per festeggiare l’inizio del campus, che sarà domani, ma che vorrei proporre oggi! Caterina, prendi un bicchiere di vino e brinda con noi!”, disse il coach Yamiji con Nekomata che gli andava dietro. Ringraziai ed accettai volentieri “Anche noi vogliamo il vino!”, esclamarono Tanaka e Noya. “Per voi solo acqua!”, disse Ukai sorridendo. Alla fine, tutti alzarono i bicchieri in alto, chi con vino, chi con altre bevande analcoliche, e brindammo tutti urlando di gioia. Che bel momento, pensai, un gran bel momento. Dopo ciò, alcuni si alzarono, chiedendo il permesso, e si sparsero per il corridoio della struttura. Alcuni andarono fuori; faceva caldo, ma si stava comunque bene all’aria aperta. Io, nel frattempo, avevo scambiato qualche parola con la manager della Nekoma, Yachi, e con un membro della stessa squadra, un ragazzo del quarto anno di nome Kenma Kozume. I due non erano molto espansivi, anzi, erano abbastanza timidi. La ragazza molto più del ragazzo, e ogni tanto la confortava con una mano sulla schiena. Avevo sentito da Nekomata che Yachi era una ragazza sveglia e promettente, ma frenata da un piccolo disturbo di ansia, uno di quei disturbi che aumentano col tempo. E in quel momento, da quanto mi era stato detto, questo disturbo era cresciuto ancora di più, e per questo il coach mi affidò il compito di aiutarla in caso di difficoltà, oltre alla squadra che le faceva da supporto. Io capii subito la situazione, e senza dire una parola, le sorrisi, e dopo un po’ il mio sorriso fu ricambiato, sia da lei che dal ragazzo. I due poi si alzarono, ed io rimasi seduta, a continuare i programmi e le tabelle di marcia, non solo per la mia, ma anche per le altre squadre. Fu in quel momento che passò vicino a me la ragazza coi capelli rosa, la manager della Fukurodani, che canticchiava un motivetto giapponese. “Ma questa canzone…mi suona familiare…non sarà!”, dissi fra me e me. E non appena passò davanti a me, mi alzai e continuai il resto della canzone. “No…non ci credo”, disse la ragazza dagli occhi azzurri, “anche tu conosci T…”. “Tokyo Ghoul, sì, esatto! Cavolo, è uno dei miei anime preferiti, con una delle migliori sigle iniziali nella storia”, dissi interrompendola. “Anche il mio! Ah, e sì, la sigla è pazzesca. Emily Cerbai, manager della Fukurodani, di nuovo piacere”, mi disse in modo dolce. “Caterina Corzani, manager della Karasuno, piacere mio!”. Ci guardammo un momento negli occhi, in silenzio, e ricominciammo a cantare la sigla di quell’anime, senza mai interromperci. La sapevamo entrambe a memoria. Poi, una volta finito di cantare, ci mettemmo a ridere per le parole giapponesi storpiate. “Comunque, è da un po’ che ti osservo, cosa stai facendo?”, mi chiese curiosa. “Sto concludendo la prima parte del programma per la prossima settimana, che presenterò domani mattina stesso!”, le dissi. “Cavolo, che bella scrittura che hai! Devi essere abituata a scrivere tanto a mano”, disse sbalordita. “Ti ringrazio, effettivamente in tempi recenti, preferisco il cartaceo al digitale, nonostante usi il PC praticamente sempre. Me lo sono portato anche qui al campus, pensa te!”, risposi. “A che anno di università sei ora?”. “Al secondo, e ho ancora tanta strada da fare…”. “Capisco bene…mi hanno detto che frequenti giurisprudenza a Firenze. Deve essere dura ma anche interessante”, concluse. “Sì, hai ragione. Ha le sue difficoltà ma è davvero bella. E tu cosa vorrai fare dopo il Liceo?”, le chiesi curiosa. “Hai già in mente qualcosa?”. “Sì. Molto probabilmente frequenterò ingegneria a Firenze, ho sentito che è una delle migliori qui in Toscana”. “Sì, è vero, posso confermare. Alcuni miei amici la frequentano e si trovano tutti molto bene, sia parlando di orari, sia di organizzazione”, le dissi. “Grazie per i consigli Caterina, davvero…”, disse sorridendo con gli occhi azzurri. “Figurati Emily! Per qualsiasi consiglio, conta pure su di me. Spero che diventeremo buone amiche”, conclusi. “Lo spero davvero anche io! Ti saluto per ora, buona serata”. “Ti ringrazio. Buona serata anche a te”. Che bello, pensai, non ci conoscevamo nemmeno, eppure quella melodia ci aveva fatte conoscere meglio. È una ragazza in gamba, con la testa sulle spalle, e volevo conoscerla meglio. Il sonno, intanto, si faceva sentire; mi si appesantirono gli occhi. Così decisi di alzarmi un po’ e sgranchirmi le gambe, andando a parlare un po’ con i miei amici della Karasuno. E fu in quel momento che vidi una cosa strana: notai la scioltezza e la gentilezza con cui Ukai parlava a Takeda. Era strano…Ukai era sempre stata una persona sulle sue, non troppo espansiva e abbastanza fredda. Ma con Takeda sembrava diverso. Gli aveva messo una mano intorno al fianco, e sembrava che lo stringesse. Avevo già notato un gesto simile in palestra…ma non gli detti importanza. In quel momento, invece, mi salirono i dubbi, e, presa dallo sconforto, uscii fuori per fumare una sigaretta. Le avevo in tasca; le tirai fuori, me ne misi una in bocca, e mi avviai verso la porta d’uscita. E mentre fumavo pensai: “Forse devo cercare di scordarmi di Ukai…devo lasciarmi scivolare tutto addosso e voltare pagina. Certo, dovrò vederlo per due mesi…non sarà facile, questo è poco ma sicuro”. E intanto fumavo pensierosa. Che potesse provare sentimenti per lo stesso sesso già lo avevo capito, più o meno. Era il mio primo anno come manager alla Karasuno e notai l’allenatore dai capelli biondi tinti che flirtava con un ragazzo più giovane che era venuto a vedere la squadra: lo avevo capito da quello. Ma a quel tempo non mi faceva effetto, anzi. Ero innamorata, e volevo solo il meglio per Ukai. Adesso invece era diverso, quasi quasi ero gelosa. Presi l’accendino e mi accesi un’altra sigaretta. E fu in quel momento che sentii aprirsi la porta da dove anche io ero passata per andare fuori. Vidi qualcuno, ma non era della Karasuno, che si avvicinò a me. “Scusa, avresti un accendino?”, chiese con la sigaretta in bocca. “Certo, tieni!”, gli dissi, dandoglielo. “Grazie mille”, rispose sedendosi vicino a me. Era un ragazzo alto, dai capelli corti e neri. Aveva una t-shirt blu e dei pantaloni corti bianchi. “Anche tu prendi una pausa da quella confusione?”, chiese guardandomi, sorridendo. “Diciamo di sì”, risposi anche io sorridendo. “Caterina Corzani, manager della Karasuno, piacere”, dissi togliendo la sigaretta dalla bocca per parlare. “Akaashi Keiji, alzatore della Fukurodani, piacere mio”, rispose. “Ho sentito parlare molto bene di te dal mio allenatore”. “Il signor Yamiji! È una persona fantastica”, dissi subito. “Sì, è vero. È un po’ difficile da seguire durante gli allenamenti, ma è davvero una brava persona. Ci troviamo tutti molto bene”. “Bene così, sono contenta!”, dissi sorridendo. Dopo quest’ultima frase, ci fu silenzio tra noi. Si sentiva solo il soffio del fumo che usciva dalla bocca, a volte sfalsato, a volte all’unisono. Non era un silenzio imbarazzante, bensì era di riflessione, di raccoglimento personale. Almeno per quanto mi riguardava. Ad un certo punto uscirono dall’ingresso Ukai e Takeda. “Aaaaah”, pensai… “Non li voglio proprio vedere insieme…”. E abbassai lo sguardo. Notai che il ragazzo, con sguardo serio, prima guardò Ukai assieme al professore, e poi me. “Non pensare a quello. Sei giovane, hai tutta la vita davanti a te. Non perdere tempo per un adulto che neanche ti considera. Meriti di meglio”, disse con parole serie e fredde, ma piene di verità. Non ci eravamo mai visti, né parlati, ed era come se sapesse tutto di me. “Hai un qualche super potere o cosa, “Signor Mistero”?”, gli chiesi ridendo. “Signor Mistero? Che razza di nomignolo sarebbe?”, si girò verso di me ridendo a crepapelle. “A parte gli scherzi, come fai a sapere che avevo una cotta per il mio allenatore?”, chiesi curiosa. “L’ho notato fin da subito, da quando sei arrivata. Ho visto il modo con cui lo guardi, con cui cerchi il suo sguardo. E da lì mi sono azzardato a formulare un’ipotesi, che alla fine si è rivelata quella giusta”, disse con una certa fluidità. “Capisco, capisco. Ora mi è chiaro”, dissi. “Ma ormai è acqua passata, devo voltare pagina. Mi ha solo dato noia vederlo con qualcun altro, ma voglio finirla qui, e devo finirla qui!”, dissi decisa. “Ma tu, cosa ci fai a parlare con una vecchia come me”, dissi sorridendo, “va’ a divertirti con gli altri”. “In realtà sto bene qui, sai. Anzi, mi piace molto parlare con te, e lo preferisco alla confusione che c’è dentro”, mi rispose con sincerità. “Grazie! Sai, lo stesso vale per me”. E tutti e due continuammo a fumare ed a guardare l’immenso cielo notturno. “Sai, penso diventeremo amici, Keiji”, dissi sorridendo. “Lo siamo già, Cate”, rispose con un sorrisetto. E ritornammo ad apprezzare il cielo e la brezza serale. Chiusi gli occhi per un attimo, e pensai a quanto fosse stato bello aver incontrato una persona così semplice ma allo stesso tempo profonda. E la conversazione continuò per molto tempo, e tra una sigaretta e l’altra si alternava una buona risata. Era una bella serata, ed io avevo trovato un ottimo amico con cui passarla. “Non vedo l’ora di vederti giocare domani assieme alla tua squadra”, dissi impettita. “Vinceremo sicuramente”, rispose spavaldo. “È tutto da vedere, è tutto da vedere…”, risposi, alzando le sopracciglia e con le braccia incrociate. Vidi una luce nei suoi occhi, un voler andare avanti a tutti i costi e un voler vincere. Fu quella luce che mi convinse di non mollare e di lasciarmi il passato alle spalle per voltare completamente pagina. Questo campus sarebbe stata la giusta occasione per fare nuove conoscenze, amicizie, un’occasione per imparare cose nuove. E volevo farlo, volevo voltare pagina per sempre. “Addio Ukai”, pensai nella mia testa guardando il cielo, “addio per sempre”. Nessuno disse nulla; io chiusi gli occhi, ed Akaashi fece lo stesso. “Ti va di fumare un’altra sigaretta?”, mi chiese. “Sì, perché no”, risposi subito. Ed ancora, tra di noi ci fu silenzio, dettato forse anche dalla stanchezza. “Cate!”, sentii che qualcuno mi stava chiamando. “Eccoti qui! Ti cercavo”, disse la voce di un Suga coi capelli ancora bagnati. “Suga! Eccomi qui. Come va la serata?”, iniziai subito a parlare. “Volevo proprio chiederti la stessa cosa. Ah! Che sbadato. Sono Sugawara Koushi, un alzatore della Karasuno, molto piacere”, disse all’altro alzatore. “Piacere mio, Akaashi Keiji della Fukurodani. Anche io sono un alzatore”, disse con un sorrisetto, che determinò subito una risposta da Suga, sempre con un sorriso. E intanto notai che Akaashi si stava allontanando, sia per l’odore del fumo, che poteva essere sgradevole per Suga, pensai, ma anche per lasciarci spazio. “Allora Cate, come ti è sembrata la squadra?”, mi chiese curioso. “Siete veramente fantastici...non me lo sarei mai aspettato, davvero. Però dovrete lavorare sodo eh…”, dissi con aria da sbruffona. “Signorsì capitano!”, disse Suga, portandosi la mano alla fronte a mo 'di marinaio, cosa che fece suscitare in me una risata. “Mi piace questo spirito!”, dissi ridendo. E notai che anche Akaashi, da dietro, stava cercando di nascondere la sua risata, che però era evidente. Mentre ridevamo di gusto, ad un certo punto, si sentì un forte rumore di una porta che si apriva. “Daichi, ma che cazzo fai, per l’amor del cielo…” disse, subito, Suga, mettendosi una mano sulla fronte. “Suga! Oh, ehilà, ciao Cate. Scusate per il trambusto, ma i nostri ragazzi stavano facendo casino, e…bhe…sono dovuto intervenire, ovviamente. “Intendi Noya e Tanaka?”, chiese Suga. “Sì…”, rispose Daichi. “Eccoci…cosa hanno combinato stavolta?”. “Facevano troppa confusione! Poi avevano delle carte e facevano uno strano gioco con una candela, non ho capito molto bene…So solo che facevano un gran casino, ed è sera”, disse un Daichi, ormai a corto di energie. Appena sentii quelle parole, mi venne in mente solo una cosa: “Vodoooo”, che mormorai a bassa voce. “Hai detto qualcosa, Cate?”, chiese Daichi. Io, in preda al panico, risposi però tranquilla: “No, no, non ho detto niente”. “Comunque”, ripresi, “lasciamoli fare, almeno per questa sera… Da domani, ovviamente, saremo più severi. “Sì…dai…Hai ragione Cate. Lasciamoli stare…” “Sbammm!!”, si sentì un forte rumore dall’interno. “Eh, no! Adesso basta! Ora torno dentro e faccio loro una bella lavata di capo!”, disse Daichi tutto arrabbiato, mentre io e Suga nascondevamo le nostre risate sotto ai baffi. “Daichi è davvero un ragazzo responsabile, si prende cura dei ragazzi come fossero suoi figli”, dissi in modo carino. “È vero, è sempre stato così, da quando l’ho conosciuto. Poi quando si arrabbia…bhe…son cazzi!”, disse Suga, scoppiando a ridere. Ed io lo seguii. Ed intanto, da fuori, si percepivano le parole arrabbiate di Daichi: “Ah, siete stavi voi eh!! Adesso basta, mi avete rotto! Andatevene subito a letto!! “No, no Daichi, non siamo stati noi, lo giuriamo!”, dissero in coro Noya e Tanaka. “Aaaagrghh, andate a letto!”, urlò Daichi. “Va beeeneeee”, risposero i due squinternati. Io e Suga intanto avevamo sentito tutto da fuori, e ridevamo sempre di più fino a quando Suga: “Penso che andrò dentro a calmare Daichi…Ci vediamo domani Cate, buona notte. Ciao Akaashi! Non vedo l’ora di sfidare te e la tua squadra domani”, disse con aria seria. Ed entrò dentro. “Stai bene, Akaashi? Sei stato in disparte per tutto questo tempo”, dissi al ragazzo che intanto si stava alzando. “Sì, sì, sto bene, grazie, ho pensato di lasciarti parlare con calma con i tuoi compagni di squadra”, disse, accendendosi un’altra sigaretta. Rimasi colpita dalla sua intuizione, che alla fine si era rivelata giusta. Era da tanto che non parlavo con Daichi e Suga, e anche Asahi, ed anche se i discorsi di quella sera alla fine furono brevi, mi fece comunque tanto piacere. Così seguii anche io Akaashi, e fumai un’altra sigaretta. Sapevo benissimo di averne fumate un po’ troppe, ma dovevo scaricare la tensione, che molto probabilmente avrei avuto nei giorni successivi. E fu in quel momento una mandria di ragazzi agitati e rumorosi si diresse verso l’esterno, urlando. Alcuni saltellavano, alcuni litigavano, altri schiamazzavano. Riconobbi subito Hinata, il ragazzo dai capelli arancioni che spingeva per la schiena Tsukishima, il biondo col “caratterino”, che mi salutarono calorosamente, seguito da un mio “Fate attenzione!” “Sì, Signora manager, faremo attenzione!”, rispose Hinata. “Aaah, quante volte ancora devo dirti di non chiamarmi così!! Semplicemente Cate...”, dissi con un sorrisetto. “Oook Cate!!”. “Mi raccomando non tornate tardi, domani si inizia subito eh!”. “Certo, parola di schiacciatore!”. E i due sparirono nella fiumana, correndo. Insieme a loro c’era anche Kuroo Tetsurou ed alcuni suoi compagni della Nekoma, tra cui il di colore, che avevo visto durante gli allenamenti, un altro dai capelli bianco platino ed uno più basso, che sembrava lamentarsi con Kuroo, che intanto gli faceva delle facce strane. E poi mi apparve davanti agli occhi un altro ragazzo. Era alto e aveva capelli bianchi e neri sparati in alto, un ragazzo dalla presenza massiccia, che faceva un sacco di rumore con le scarpe, ed appena uscì dalla porta per l’esterno, si voltò verso di me ed Akaashi. “Hey hey heyyyy, Akaashi, che fai lì, vieni con noi in palestra, wehheee! Oh…”, aggiunse dopo essersi rivolto ad Akaashi, stavolta guardando me, diritto negli occhi. La mia mente, in mezzo secondo, rielaborò i pensieri e mi ricordai di averlo visto poche ore fa in palestra, mentre giocava. “Era lui!”, dissi mille volte dentro di me… “Era lui…”. E non riuscivo a staccarmi da quegli occhi color ocra brillante. Non avevo mai visto occhi così… E nessuno mi aveva mai guardata per così tanto tempo in quel modo, nessuno. “Bokuto-san, non fare troppo rumore e non fare tardi, devi riposarti ben bene per domani”, disse tranquillamente il ragazzo da capelli neri. “S-sì…”, rispose l’altro. Poi ad un certo punto si sentì un: “Forza Bokuto, che ti prende?”, provenire da Kuroo, che era tornato indietro a cercare quel ragazzo, e gli dette una forte pacca sulla schiena. “Ahh, uhm, sì, arrivo”, “ciao”, disse guardandomi. Così, ripresosi, continuò a camminare assieme agli altri, senza voltarsi e senza dire nulla. “Così si chiama Bokuto…”, subito pensai. Quel nome mi risuonò in testa fino a che non sentii una voce che diceva: “Cate…”. Neanche lasciai finire la frase e subito dissi: “Sì? Che succede?”. “Ti sta per cadere la cenere addosso”. “Oh, giusto…sì, grazie”. Mentre spegnevo la sigaretta, notavo lo sguardo di Akaashi addosso. “Che c’è?”, dissi imbarazzata. “Sei rimasta colpita dall’Asso, non è vero?”. “L’Asso?”, chiesi per avere spiegazioni. “Bokuto, Cate”. “Ah, lui…sì, sì…”, risposi un po’ imbarazzata. “Direi che tu abbia cambiato per bene pagina, Cate”, disse, alzandosi e sorridendo. Poi andò via, senza dire nulla, e rimasi da sola, con la sigaretta spenta in mano.

“Cosa voleva dire Akaashi con quel “sei rimasta colpita dall’asso?”, chiesi dentro di me. “E poi…l’asso? Cioè lui è quello che in squadra fa più punti di tutti gli altri? Cazzo, allora sarà fortissimo”. In effetti, ripeto, lo avevo già notato in palestra trattenersi proprio con Akaashi, e questo Bokuto faceva delle schiacciate impressionanti e rumorosissime! Cazzo, che figo…pensai subito. “Aaaah…ma poi cosa intendeva con “aver cambiato pagina”? Ok che magari sono sulla buona strada per dimenticarmi di Ukai, ma di certo non è che sia rimasta colpita così tanto da un figliolo, voglio dire, era la prima volta che ci vedevamo di persona. Ok è davvero bello però…No, ok, basta Cate, non puoi innamorarti del primo figo che passa! Devi mantenere un rapporto professionale, altrimenti si inizia già male…provavo a dirmi dentro di me.

Si erano fatte ormai le dieci, e decisi di finire il programma settimanale in camera, magari già in pigiama e pronta per andare a dormire. E infatti feci così. Però prima mi assicurai di andare da Takeda a chiedergli di accertarsi che alle undici, ovvero al coprifuoco, tutti i ragazzi a giro o fuori tornassero in camera, dato che io avevo urgenza di andare a dormire alquanto presto. Infatti, Takeda accettò subito ed anzi mi esortò ad andare a letto presto, cosa che avevo in mente di fare anche io. Insieme a lui c’era Ukai, ovviamente, ma cercai di farmi scivolare la cosa addosso. Così ringraziai quei due, e mi diressi in camera. Per le scale incontrai Emily: anche lei stava andando in camera sua, che era al primo piano, “Yawnnnnn…buonanotte Cate”, mi disse salutandomi, “a domani”. “Notte Emi, a domani!”. Lei entrò nella sua stanza a destra, ed io continuai le scale, fino ad arrivare alla mia. 

Mi spogliai e mi misi comoda alla scrivania per finire il programma, ma il sonno stava invadendo la stanza. Così mi affrettai a finire, spensi la luce ed andai a dormire. 

 
   
 
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