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Autore: yui00    07/09/2009    1 recensioni
Storia spudoratamente ispirata all'omonima canzone dei Nightwish (*__*)
Piccola e breve trama della storia:
Il poeta vive solo nella villa, il poeta non sa chi sia nè dove si trovi, il poeta è inquieto, sogni di sangue perseguitano le sue notti.
Un pendolo è l'unica cosa che gli fa compagnia, un pendolo che non ha numeri nel quadrante ma solo una linea rossa.
Una strana presenza accompagna il poeta, una presenza che lo guiderà alla verità e ben oltre...
Genere: Sovrannaturale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo mesi e mesi che non scrivevo niente alla fine sono riuscita a mettere per scritto il mio video ideale per la canzone "The Poet And The Pendulum" dei miei adorati Nightwish *___* capita quando uno ascolta a ripetizione la solita canzone XD
Non so se sia corretto in questo caso mettere l'avviso song-fic, casomai ditemelo che lo levo subito ^-^

Ah, se ancora non l'aveste capito ecco la soundtrack perfetta per leggere questa one-shot =)

The Poet And The Pendulum - Nightwish - Dark Passion Play




Il poeta si stava rigirando nel sonno, ancora una volta quell’incubo, quel solito e incomprensibile incubo, lo tormentava. Schizzi di sangue, volti umani resi irriconoscibili da squarci di lama, indicibili sofferenze, urla; ogni notte il medesimo copione.
Il poeta sudava freddo, in qualche modo era consapevole del fatto che quell’orribile sogno era strettamente legato a lui e al suo passato ma non era in grado di darsi una spiegazione logica.
L’uomo si alzò di scatto dal letto, il brusco risveglio che seguiva la notte era diventata un’abitudine per lui, lentamente si tolse le lenzuola di dosso e si alzò in piedi, si fece una toeletta veloce e si mise al suo scrittoio, in attesa che la dolce musa della poesia facesse lui visita. Il poeta scriveva e scriveva, versi su versi, strofe su strofe ma niente gli era di suo gradimento; scriveva di getto, poi si soffermava a leggere cosa aveva partorito la sua mente e puntualmente accartocciava il foglio gettandolo da una parte della stanza, insieme alle tante sue creazioni rinnegate.
Viveva solo in una villa immensa e immersa nel verde dei boschi, c’erano molte stanze ma l’uomo era solito usarne due o tre, si spostava dal suo rifugio personale solo per lo stretto indispensabile, la villa era troppo lugubre e spaventosa per lui; polvere e ragnatele ovunque, l’oscurità regnava sovrana in quei lunghi corridoi e nelle stanze disabitate. Non si era mai chiesto che cosa ci facesse lì, per quel che ne sapeva lui era sempre vissuto in quella grande casa e solo in quel luogo era sicuro di poter ritrovare la memoria perduta.
Non sapeva chi fosse. Una sera si era risvegliato in quella stanza, sperduto e impaurito come un pulcino caduto dal nido, c’era silenzio, una tranquillità inquietante; a fargli compagnia solo il ritmico battito di un pendolo appoggiato alla parte di fronte il letto. Era un orologio molto particolare, non segnava le ore e i minuti; il quadrante era tutto bianco e dove avrebbe dovuto troneggiare il numero dodici c’era una linea rossa, forse punto d’arrivo di un’unica lancetta.

Stanco ed esausto il poeta si allontanò dal suo scrittoio per recarsi nella piccola cappella di proprietà della villa, appena fuori la casa e unita ad essa tramite un breve sentiero che passava attraverso quello che un tempo doveva essere un magnifico giardino.
Si inginocchiò davanti all’altare e mirando la croce intrecciò le dita delle mani sulla sua fronte, abbassò lo sguardo e pregò, pregò che i suoi incubi potessero avere fine un giorno, pregò di poter ritrovare la sua identità perduta.
Due occhi candidi lo osservavano giorno e notte senza che lui se ne accorgesse, occhi pieni di tristezza di chi sa e non può fare niente, due occhi di anima in pena che ancora non può raggiungere il paradiso; occhi di fantasma.
Il poeta ritornò nella sua camera il più velocemente possibile, non amava camminare per quei corridoi, aveva quasi sempre la netta sensazione di essere osservato; più volte si era voltato di scatto ed aveva intravisto come un pezzo di stoffa ondeggiare poco distante dalla sua persona. Non si sentiva al sicuro in quella villa, a volte percepiva lo strascichio di un mantello, altre volte il passo leggero di una persona; le prime volte faceva una ricognizione veloce di tutte le stanze e di tutti i passaggi ma c’era un punto oltre il quale non osava procedere. Era un andito più oscuro di tutti gli altri e un’odore sgradevole di sangue permeava le sue pareti, a circa un quarto dall’inizio c’era una grande tenda malandata che divideva le due parti, l’uomo non aveva mai trovato il coraggio di scostare il tendaggio e vedere che cosa si celasse dietro.

L’inconsistente presenza era al suo fianco, avvolta in un mantello nero come la notte, ancora non poteva lasciare il regno terreno ed era costretta a rimanere prigioniera di quel luogo; il volto femminile dello spirito si voltò verso il poeta e lo guardò con occhi colmi di disperazione, lei lo conosceva, lo conosceva bene e sapeva che quella condizione era una tortura per entrambi, non poteva agire liberamente ma poteva fare qualcosa molto importante, poteva guidarlo verso la giusta via.
L’uomo era intento a scrivere un qualcosa più simile ad un necrologio che ad una poesia quando sentì un fruscio alle sue spalle, si volse immediatamente ma non vide nulla, in quella stanza c’erano solo lui e il pendolo misterioso, che non segnava il trascorrere del tempo terreno. Si convinse che si trattava solo della sua immaginazione, quelle scritte funeree lo avevano condizionato molto.
Ancora un fruscio, un lamento; il poeta si alzò di scatto facendo cadere la sedia su cui era seduto, non poteva essere la sua fantasia, quella cosa era reale come lui, non seppe perché ma il suo sguardo era indirizzato all’orologio, a quello strano pendolo la cui lancetta ormai era vicina alla linea rossa, si avvicinò per osservarlo meglio e quello che vide lo fece sobbalzare e indietreggiare di un passo: il volto di una donna che piangeva lacrime di sangue era specchiato sul quadrante del pendolo. Doveva uscire da quella stanza, ormai non era al sicuro nemmeno lì.
Prese un passaggio a caso, guidato, forse, dal suono di alcuni passi che sentiva davanti a lui, c’era una presenza in quella villa e per un attimo il poeta pensò che dovesse essere la chiave di tutto, convincersene fu un attimo e con passo stavolta spedito si diresse verso il corridoio oscuro. Si bloccò per un secondo di fronte alla tenda color cremisi, strappata in più punti. Era impossibile che il vento che fischiava fuori dall’edificio entrasse dentro eppure qualcosa di molto simile fece scostare la tenda rivelando al poeta i suoi più oscuri segreti.

L’uomo deglutì di fronte a quello che gli si presentava agli occhi, corpi in avanzato stato di decomposizione giacevano scomposti per terra, le pareti sembravano dipinte con il sangue rappreso dei poveretti e una gelida atmosfera opprimeva quel posto.
Il poeta proseguì evitando i cadaveri pieni di insetti e parassiti, cercava di contenere i conati di vomito ma non riusciva a trattenersi per più di qualche minuto, la morte lo circondava.
Si fermò in prossimità dell’ultima stanza del corridoio, la porta era divelta e mezza aperta, il fantasma della donna era entrato dentro e anche se lui non poteva vederla lei gli indicò ugualmente il letto addossato alla parete perpendicolare alla porta d’ingresso.
Il poeta entrò con cautela, cercando di non spostare niente; c’era qualcosa di molto familiare in quella camera, dolci sensazioni riaffiorarono dentro di lui prima di morire alla vista di ciò che era steso sul letto.
Una donna dai lunghi capelli e un bambino appena nato al suo fianco.
L’uomo urlò dal terrore, iniziava a ricordare, si addossò alla parte opposta tenendosi la testa nelle mani.
Ora sapeva chi era e che cosa era successo in quella villa tempo addietro.

La villa è in festa, presto la moglie del poeta partorirà il bambino che porta in grembo, tutti i pochi servitori sono radunati lungo il corridoio dove la donna darà alla luce suo figlio. Il poeta è nella sua stanza, è nervoso; è giovane e non sa se sarà all’altezza del compito che la nascita di suo figlio comporterà, sa solo che ama profondamente sua moglie e che insieme a lei farà del suo meglio per crescere il loro erede.
Sta componendo un sonetto in onore della moglie e del figlio, vuole leggerglielo quando il bimbo sarà nato; l’aiutante della levatrice lo chiama a gran voce e gli annuncia che il momento è finalmente giunto.
Preso dall’euforia il poeta si alza di scatto e quasi corre verso la stanza adibita al parto, non trova nessuno lungo il suo cammino, tutti sono in attesa di fronte alla porta.
Arrivato trova la porta chiusa, sente le grida della moglie e vorrebbe entrare per prendere la sua mano e confortarla, esserle vicino. La governante gli suggerisce di rimanere fuori, la levatrice ha annunciato che sarà un parto difficile e non vuole seccature esterne.
Il poeta è preoccupato, fa avanti e indietro per tutto l’andito, i servitori si scostano al suo passaggio, cercano di tranquillizzarlo ma il terrore è sempre più radicato nell’animo dell’uomo.
Da un po’ non si sentono più le urla della donna, forse il parto è andato a buon fine ma non si sentono i vagiti del neonato, la porta della stanza si apre e la levatrice ne esce con uno sguardo tetro e oscuro, il poeta comprende ma non vuole accettare; entra per vedere con i suoi occhi, nel grande letto la sua donna giace immobile, accanto a lei è stato deposto il corpicino del bambino morto. Il poeta fissa il vuoto davanti a sé, ora è solo, sua moglie non è più insieme a lui e il loro figlio ha preferito seguire la madre verso il regno dei morti.
L’uomo grida più forte che può ma ciò non potrà ridargli indietro i suoi cari, si accascia sulle ginocchia e piange disperato, non vuole accettare.
La levatrice è dietro di lui e gli pone una mano sulla spalla, dice che le dispiace infinitamente e che ha fatto il possibile per salvare almeno il bambino ma il poeta non l’ascolta, ha un solo pensiero in mente in quel momento: versare sangue per riavere la moglie e il bambino indietro.
Con pacata lentezza si alza e si avvicina al tavolo dove è appoggiato un lungo tagliacarte, la levatrice pensa al peggio e gli si avvicina per bloccarlo, non permetterà che il suo padrone si ammazzi. Il poeta sente lo strattone della donna, il suo volto si tramuta in una maschera di ferocia e con un colpo ben assestato colpisce la levatrice al braccio.
La donna scappa, esce dalla camera ma il poeta è più veloce e le si avventa alla schiena ferendola più e più volte finché la morte non sopraggiunge. I servitori fuggono ma non serve a niente, il poeta li accoltella uno dopo l’altro senza che loro abbiano il tempo di salvarsi, la furia dell’uomo è devastante, non ha pietà per coloro con cui ha diviso parte della sua esistenza.
E mentre uccide l’ultimo degli uomini vede un piccolo orologio cadere dalla giacca insanguinata, la lancetta è esattamente sopra una piccola linea rossa.
Il poeta cade in ginocchio, la lama gli cade dalla mano, è confuso, non sa cosa gli sia preso, è fuori di sé; con le ultime forze prende una grande tenda e l’appende in modo da coprire l’orrore che egli stesso ha creato e barcolla fino al suo studio. Quando riapre gli occhi non sa chi sia ne dove si trovi.


Il poeta cadde rovinosamente a terra, ora rammentava ogni minimo particolare di quell’orrenda uccisione di massa, era disgustato da se stesso, non poteva tollerare ancora la vista di quell’eccidio. Lo spirito era ancora al suo fianco ma non si mosse quando l’uomo si alzò e corse via, in un attimo si trovò nello studio dell’uomo e contemplò il pendolo, la lancetta era molto vicina alla linea rossa.
L’uomo fuggì gridando e piangendo, uscì dalla villa e si addentrò nel bosco innevato, correva cercando di scappare da quell’orrore ma a un certo punto una fitta al petto lo bloccò e lo fece cadere a terra, Con la coda dell’occhio vide il suo pendolo in mezzo agli alberi e vide chiaramente che la lancetta si stava posizionando esattamente al posto della linea rossa; rivide sua moglie, allegra e spensierata come un tempo e con l’ultimo sbuffo di forza vitale implorò perdono per i suoi peccati.

La neve iniziò a scendere candida dal cielo e ben presto ricoprì con il suo bianco mantello tutto ciò che trovava, i rami si piegavano sotto il suo peso e ne facevano cadere in quantità; dentro alla foresta c’era silenzio, i grossi predatori erano in letargo e quelli piccoli si muovevano silenziosi lasciando orme che in breve tempo sarebbero scomparse.
Il poeta aprì incredulo gli occhi, si alzò in piedi e vide sotto di sé un grosso cumulo di neve, cercò di scostarla per capire che cosa ci fosse sotto ma non era in grado di toccarla, la mano passava attraverso come materia inconsistente. Si guardò intorno, poco lontano da lui c’era la donna che lo guardava con un misto di gioia e tristezza. L’uomo capì in un attimo. Era diventato uno spirito.
Il fantasma gli si avvicinò e gli sorrise, gli prese la mano e lo condusse ancora più dentro la foresta, dove la luce del sole non arrivava e il buoi faceva da padrona. L’oscurità li avvolgeva ma ormai il poeta non aveva più paura, adesso era di nuovo accanto alla donna della sua vita e non voleva più separarsene.
Alla fine del sentiero tenebroso che avevano percorso vide una potente luce farsi sempre più grande mano a mano che si avvicinavano, lei era al suo fianco e lo rassicurava con lo sguardo. Arrivarono in una grande valle in fiore, dove l’estate era perenne e gli uccellini cantavano ad ogni ora del giorno.
Il cuore del poeta traboccava di felicità, non poteva desiderare niente di meglio per lui e per lei. Con la coda dell’occhio vide verso ovest una grande foresta di pietra che ricopriva l’unica collina presente in quel luogo paradisiaco; gli alberi erano lugubri, assomigliavano a delle anime in pena, condannate per sempre in quella tetra forma, uomini che in vita si erano dannati di gravi delitti.
L’uomo teneva ancora la mano della sua amata ma aveva rallentato leggermente il passo, l’energia di quel bosco pietrificato lo attirava, era quello il luogo che gli era stato destinato alla morte, la donna continuava imperterrita nel cammino quando sentì la presa del suo compagno allentarsi e staccarsi definitivamente, si voltò lentamente e vide il poeta guardarlo con lo sguardo più dolce che le avesse mai rivolto. Non ci fu bisogno di parole per capire che le due anime si stavano congedando per sempre.
Il poeta abbassò la testa e si diresse verso la foresta, non si volse mai indietro, se avesse rivisto ancora la sua donna forse non avrebbe più avuto il coraggio di compiere il suo destino, l’aveva vista per l’ultima volta e gli era bastato per prendere quella decisione. A capo alto attraversò la foresta, alcuni radici iniziarono a sbucare fuori dal terreno e si avvinghiarono alle gambe dell’uomo, il poeta se ne liberò con fatica, prima di tramutarsi in un albero voleva scegliersi il punto migliore.
Le sue gambe iniziarono a farsi sempre più pesanti e iniziarono a piantarsi al terreno, il busto si allungò e le braccia si tesero in alto verso l’esterno, il volto sparì all’interno del tronco di un maestoso albero per ricomparire sotto forma di venatura, un volto sereno e pacifico.
La donna osservava cosa stava accadendo insieme ad altre anime che si erano radunate per l’occasione, non si era mai vista una cosa del genere in quel luogo; un grosso, enorme, albero di ciliegio stava nascendo proprio nel punto più alto della collina. Una lacrima scese dagli occhi della donna.
Un vento improvviso scosse i rami di quel nuovo albero colmo di fiori portando con sé petali profumati.
  
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