E per la serie “scriviamo su personaggi di cui non si sa ancora una cippa”, l’ennesima “dovrei scrivere qualcos’altro ma manca l’ispirazione” production!
Questa volta fra le mie meningi maniacali è caduto Glen Baskerville. E mi ha fatto comprendere che dovrei smetterla di prendere i personaggi ancora misteriosi e farmi così tanti viaggi su di loro.
Ma siccome il GlenxJack è canon marcio nel manga (suvvia… non si può negare l’evidenza), eccomi qui ad infestare il fandom di Pandora Hearts con una piccola shot.
Anche se com’è uscita non mi piace.
Andiamo dunque ad iniziare! A chiunque sia qui a leggere:
buona lettura ♥
Desclaimer: i personaggi non mi appartengono,
sono © della sensei Mochizuki. Non li sfrutto a scopo di lucro ma solo per
soddisfare le mie tare mentali da yaoifan maniaca
dell’angst (e non che Mochizuki-sensei
sia da meno, comunque…)
Ringraziamenti: Si ringrazia Shichan per la minaccia di
morte se la cancellavo il betaggio.
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Fade to Black
Il timbro
accordato di un pianoforte, le note ripetute in un armonico susseguirsi.
Il Sole. La sua luce
calda sul mogano, sulle pagine dello spartito scarabocchiato poggiato sul
leggio.
La lenta melodia che prende forma,
accompagnata dalla sua voce cristallina.
« Ti piace? »
Il suo sorriso, la sua lieve risata come
suono di campane.
« E’
bellissima. Come si chiama? »
Luce. Era lei il mio sole.
« Lacie »
Era lei…
« Come me! »
« Sì, come te… » mormorò con
un lieve movimento di labbra, lo sguardo fisso sui tasti d’avorio sotto i
polpastrelli della mano destra.
Sospirò. Poi, ritirando la
mano dalla tastiera, si alzò con eleganza per dirigersi alla scrivania, a
qualche metro dietro il pianoforte.
Rigorosamente in silenzio.
Non amava conversare, nemmeno
con se stesso. Nemmeno per svago, o per rabbia, o per solitudine.
Non amava ricordare. Perché ogni volta i ricordi gli si attaccavano addosso come
resina e lui ne rimaneva invischiato, intrappolato nel suo personale e fin
troppo luminoso abisso.
Luce. I suoi ricordi erano
colmi di essa.
Ogni volta che vi si perdeva
non vedeva altro che luce.
Il sole alla finestra, le
candele nel salone, i riflesso di un raggio sullo
specchio. Non esisteva ombra, nei suoi ricordi, non dove c’era lei.
Ed era… esasperante.
Si sedette, facendo attenzione
a non fare rumore nello spostare la sedia sul pavimento. Osservò apatico sulla
scrivania la carta da lettere e il calamo, allungando la mano verso i primi.
Dopotutto… in quale altro luogo
doveva regnare, la luce?
Nel suo mondo non esisteva più
nulla che portasse quel nome, o che ne fosse degno.
Non più, da quando lei era scomparsa, portandosi via il
sole e i colori.
Il suo era un mondo fatto a
tonalità di grigio. E sfumavano, pian piano, divenendo
più scuri, più…
« Accidenti… » si lasciò
sfuggire quando la sua mano, mossa distrattamente, urtò e rovesciò il calamo.
Dal piccolo contenitore cominciò a colare fuori l’inchiostro, nero come una
notte senza stelle, che prese a correre liscio sul legno
scuro fino ad inglobare i piccoli oggetti posati sul ripiano.
Glen osservò la penna d’oca insozzarsi di nero, le piccole
e morbide setole incollarsi l’una all’altra sotto la viscida sostanza oleosa.
Guardò l’inchiostro insinuarsi sotto il bordo di un libro, correndo più veloce
lungo il sottilissimo spazio fra il frontespizio e il tavolo; arrivò a
macchiare il piccolo bastoncino di ceralacca scarlatta prima di puntare
l’obiettivo più appetitoso: il pacco di carta da lettere.
L’inchiostro vi si diresse,
come affamato, sotto il suo sguardo attento.
Si disse che poteva salvarli,
quei fogli. Era una carta da lettere piuttosto pregiata, ed era già stato
miniaturizzato in calce lo stemma dei Baskerville... sarebbe stato un peccato doverli buttare, dopo tutto quel
lavoro.
Poteva allungare la mano e
afferrare i fogli. Poteva semplicemente spostarli dalla traiettoria. Poteva
premere il suo fazzoletto, quello di seta nella tasca della sua veste scura,
sopra la macchia per fermarne la sua all’apparenza inarrestabile corsa.
Non lo fece.
E osservò assottigliando gli occhi il bianco della carta
assorbire l’inchiostro, dando un esempio visivo di come si era ridotta la sua
vita.
Macchiata di nero.
Il suo monotono, cupo
grigiore, stava lentamente sbiadendo… nel
nero.
Aggrottò la fronte,
improvvisamente disturbato da quella vista. Distraendosi dai suoi pensieri,
poi, si diede mentalmente dello stupido.
Era di mogano, porca miseria,
quella scrivania. E nonostante fosse laccata era
sicuro che avrebbe assorbito l’inchiostro come una spugna.
Sempre in un reverenziale
silenzio si alzò, dirigendosi a passo lento verso la porta e uscendo dal suo
studio. Percorse il corridoio poco illuminato fino all’atrio, fermandosi
davanti all’imponente scalinata che portava ai piani superiori, cercando
qualcuno della sua servitù.
Era inutile chiamarli dallo
studio: la residenza era talmente grande che poteva anche farsi venire mal di
gola dallo sforzo, ma non lo avrebbero comunque
sentito se non con un colpo di fortuna.
Si guardò intorno
qualche istante. « Charlotte » chiamò poi, incrociando per caso una delle sue
servitrici mentre rientrava, probabilmente dal giardino.
C’era neve fra i suoi capelli.
Glen arricciò lievemente il naso per un tempo
talmente breve che Charlotte, voltando il capo al richiamo del padrone, non se ne accorse minimamente.
« Sì, padron Glen? » chiese la ragazza, abbozzando un
cortese inchino davanti a lui.
« Dovresti farmi una cortesia » cominciò lui, probabilmente nella frase più lunga che la ragazza gli avesse mai sentito pronunciare: « cerca un inserviente, e chiedi se è possibile
smacchiare la scrivania nel mio studio. Ho rovesciato il calamo » concluse, aspettando il cenno d’assenso della ragazza
prima di annuire a sua volta.
Non aveva intenzione di
chiedere a Charlotte di fare una cosa simile. Erano altri gli incarichi che la
ragazza doveva portare a termine.
« Ah, padron Glen! » richiamò la ragazza dopo qualche
passo in direzione dei locali inservienti, fermandosi e voltandosi nuovamente
in sua direzione: « il signorino Bezarius
è in giardino. Ho creduto opportuno avvisarvi »
completò, in attesa.
L’espressione di Glen non cambiò di una virgola, ma dentro di sé poté
sentire la sorpresa prendere il posto della monotonia che di solito lo
circondava. Poi, dubbio. Infine rassegnazione.
Sospirò in tal proposito. « Grazie Charlotte » congedò la
ragazza, chiudendo gli occhi come se improvvisamente fosse preda di un’enorme
stanchezza.
Che almeno avesse avvisato, se aveva intenzione di
bighellonare in giro per la tenuta! Possibile che quel ragazzo non avesse la
testa sulle spalle nemmeno per un secondo, nella sua vita?
Voltò il capo in direzione del
portone d’ingresso, come se dovesse guardarvi attraverso. Poteva quasi vederli,
i piccoli fiocchi di neve cadere lentamente oscillando nell’aria.
Non gli piaceva. Aggiungeva
del bianco al suo mondo nero, e tutto si riempiva di nuovo grigio.
Come poteva amare la neve, se
non riusciva a vedere nient’altro che cenere?
Trattenne il fiato,
pensieroso. Poi, sconfitto dalla testardaggine di quella testa di rapa in
giardino, si avviò verso il portone.
Non sarebbe
uscito, no. Si sarebbe limitato a chiamarlo
dalla soglia e ad invitarlo in casa, ecco.
Fu con questa convinzione che
si fece aprire dall’usciere, affacciandosi sul giardino. Fortunatamente, nuvole
di un pallido grigiore impedivano al sole di illuminare il cortile… altrimenti
quel manto bianco, che aveva coperto il grigio verdeggiante delle chiome degli
alberi come una coperta, avrebbe brillato come se fosse composti
di piccoli diamanti. E già così, innocuo e silenzioso,
dava fastidio.
Si fermò appena oltre la
soglia, attento a non fare nemmeno un passo oltre la tettoia. Non avrebbe
consentito alla neve di toccarlo. Non ad una cosa così bianca.
Strinse istintivamente le
spalle al freddo, saggiando controvoglia la temperatura invernale di fine
gennaio. Senza fiatare si guardò poi intorno, alla ricerca del diretto
interessato…
…che non si impegnò
nemmeno, a non farsi trovare.
Ovviamente doveva stare nel
punto del giardino più lontano dalla tettoia! E
scommetteva anche che lo aveva fatto apposta, quel maledetto!
Assottigliò le labbra,
contrariato, mentre osservava lo stretto sentiero - ancora visibile - che
attraversava i giardini.
Sospirò di nuovo poi,
borbottando muto qualcosa di indefinito, fece il
fatidico passo verso l’esterno… e il primo fiocco di neve che gli sfiorò la
guancia, trasformandosi quasi subito in acqua, fu prontamente ignorato come
tutti i seguenti.
Nei suoi occhi, ora, c’era
solo Jack Bezarius; chino sulla neve ad una decina di
metri di distanza, intento a fare chissà cosa.
A ben pensarci, succedeva
sempre così.
Jack aveva l’abilità di
occupare tutti i suoi pensieri dal momento in cui si faceva vedere, o anche
solo annunciare. Quando spuntava in giardino e guardava alla finestra del suo
studio con un sorriso, o quando arrivava da dietro la cornice del passaggio
segreto che portava nelle sue stanze… anche quando solo si incrociavano,
e brevemente il biondo lo salutava, aveva il potere di fargli dimenticare ogni
cosa che non fosse lui.
E il suo mondo tornava, per un breve periodo, dei colori
del sole.
Lui era… luce.
E avrebbe dovuto odiarlo. Così come ogni cosa portasse luce, colore e purezza alla sua vita imbevuta di
tenebra.
Ma non ci riusciva. E ancora non
sapeva perché.
« Jack! » chiamò una volta arrivatogli
vicino, notando subito - numi, come se fosse sua madre! - come le spalle
dell’altro fossero esageratamente scoperte dal
mantello nonostante il freddo, e i lunghi capelli biondi fradici di neve
sciolta.
Da quanto tempo era lì?
« Glen! » lo salutò il biondo in rimando, il tono felice: « hai il naso? » domandò poi,
voltandosi in sua direzione con un sorriso che dire allegro era sminuire la
verità.
Era decisamente
felice… e anche un tantino infantile.
Glen lo osservò per un istante, concedendosi di alzare
appena il sopracciglio destro. « Cosa? » chiese posato, ma istintivamente portò la mano
sinistra a sfiorare il proprio naso.
« Il naso » ripeté
l’altro, seduto a gambe incrociate davanti ad un piccolo pupazzo di neve dallo
sguardo decisamente atroce. « Mister Frost non può stare
senza naso, altrimenti come respira? » domandò,
come se fosse un concetto basilare dell’intero universo.
Glen non ebbe la forza, né la convinzione necessaria, per
commentare quella visione. Se glielo avessero detto e
non lo avesse visto con i suoi occhi, avrebbe sicuramente pensato che fosse uno
scherzo.
Anche se, a
ben pensarci, non avrebbe mai ammesso che Jack non riuscisse a fare una cosa
del genere. Cosa
che, effettivamente, aveva appena dimostrato di riuscire a compiere.
« Jack, è gennaio » lo informò
dunque, nel caso l’altro si fosse perso qualche stagione per strada: « nevica, e questo significa che ci sono
massimo due gradi. Cosa ci fai qua fuori? » gli chiese.
Anche se era sicuro di riuscire a prevederne la risposta.
« Cerco il naso di Mister Frost,
no? » ribatté quello.
…e infatti.
Il moro chiuse gli occhi,
pregando silenziosamente la sua pazienza di non abbandonarlo dopo tutti quegli
anni di reciproca collaborazione.
Non stava comunque
per ribattere, quando la risata di Jack si librò nell’aria. Era come un
tintinnare di cristalli, nel silenzio della nevicata.
Osservandolo, non poté fare a
meno di lasciarsi sfuggire un lieve sorriso.
Eccola. Era questa la magia di Jack.
« Ah, hai sorriso » notò l’altro,
guardandolo fisso negli occhi.
Glen trasfigurò quell’invisibile sorrisetto in un ghigno
appena accennato, limitandosi a negare con il capo.
« Bugiardo, ti ho visto »
aggiunse Jack, sorridendo sbieco. Riportò poi l’attenzione alla sua opera
d’arte, aggrottando le sopracciglia. « Non sembra
molto un pupazzo di neve, vero? » osservò poi, incerto.
Glen si chinò sulle ginocchia, facendo attenzione a non
toccare la neve con nient’altro che la suola delle scarpe.
« Diciamo che hai più capacità per i carillon » commentò, sarcastico nonostante non fosse affatto un
tono offensivo. Osservò attentamente il pupazzo, facendo del suo meglio per
ignorare la neve che ancora scendeva.
« Perché ha due braccia a
destra? » chiese, il tono perplesso nonostante il suo volto non
lo dimostrasse.
« Perché il ramo era storto » si lamentò Jack: « possibile
che con un giardino come questo non ci sia un ramo dritto? Dico,
l’ho girato tutto! » continuò, incrociando le braccia
al petto ed esprimendosi in un perfetto broncio da bambino piccolo.
Glen lo osservò in silenzio, sentendosi quasi… sollevato.
In un qualche modo, per qualche strana alchimia, accanto a Jack sembrava che il
buio non riuscisse a raggiungerlo. Era come se il biondo emanasse una costante
luce che abbracciava chiunque si trovasse accanto a
lui, proteggendolo dalle tenebre.
Ma era, se ne
era reso conto molto presto, una luce fievole. Come la fiammella di una
candela, bastava una folata troppo violenta di vento a farla vacillare, forse a
spegnerla.
Ascoltò solo per pochi istanti
le sue scherzose lamentele, prima di troncare il discorso.
« Jack, cosa ci fai qui? »
domandò dunque, rimettendosi diritto e guardandolo dall’alto in basso.
L’altro
sorrise all’istante. Glen chiuse gli occhi.
« Ancora? » domandò
dunque, già consapevole del motivo per cui era lì
dall’istante in cui aveva percepito la reazione alla sua domanda.
Chissà perché, quando si
chiedeva qualcosa a cui Jack Bezarius non desiderava
rispondere, la prima cosa che faceva il biondo era sorridere. Subito. All’istante.
Come se quel sorriso fosse una
maschera che repentinamente ricopriva il suo volto, sembrando che dovesse
proteggersi dalla voce dell’interlocutore.
Come se fosse sicuro che le
parole pronunciate lo avrebbero ferito.
Jack non gli rispose, ma
continuò a sorridere. Fissò il pupazzo di neve e sorrise ad
oltranza.
Glen non insistette oltre. Non sarebbe stato altro che
controproducente.
Mai come in quei momenti vedeva la sua luce così fioca…
« Vieni, entriamo » esordì fermamente, camminando in direzione dell’entrata.
Non fu necessario girarsi a
controllare se Jack lo seguiva; la lieve stretta sulla sua mano fu sufficiente
a rivelare la presenza dell’altro al suo fianco.
La scrivania sarebbe rimasta
macchiata. Notò l’alone nerastro sul legno pochi secondi dopo essere entrato.
Il caminetto era stato acceso
e un calore diffuso intiepidiva la stanza, rischiarata dalla luminosità
tremolante delle fiamme e dai pochi residui di luce rimasti all’esterno.
Il sole sarebbe calato presto,
però. E, guardando Jack accomodarsi in una delle
poltroncine davanti al camino - quella di destra, sempre la sua preferita -
capì che non avrebbe fatto ritorno alla tenuta Bezarius,
quella notte.
Sospirò per l’ennesima volta
in meno di due ore.
Se non aveva nulla di cui preoccuparsi, ci pensava Jack Bezarius a trovargli qualche grattacapo. Gli bastava
presentarsi a casa sua, sorridere ed eludere le domande: la ricetta era facile
per fargli venire quel filo di ansia adatto a
rovinargli ulteriormente la giornata.
Lo osservò da lontano, dando
distrattamente ordini al servo che li aveva seguiti fino allo studio. I suoi
capelli erano fradici, così come la giacca, che nonostante la protezione del mantello
si era bagnata comunque. Tremava, e non fu difficile
notare che avesse freddo, dalla posizione rannicchiata
che aveva assunto.
Chiuso a riccio, così che il
mondo non avesse potuto fargli troppo male.
« …e preparate il bagno, ben
caldo » terminò di elencare al servo, che con un lieve inchino
del capo si richiuse la porta alle spalle e sparì lungo il corridoio.
Una volta
sicuro di essere soli, Glen si diresse verso le poltroncine dove era già
accomodato Jack. Passando a fianco del divanetto - appena oltre il pianoforte -
raccattò con la mano una coperta di lana e la posò malamente
sulla testa bionda di Jack, senza però mancare di delicatezza nonostante il
gesto decisamente informale.
Quello ringraziò in un
mormorio, spiegando la coperta e avvolgendosi in essa.
Il capofamiglia dei Baskerville si sistemò sulla poltrona dell’altro lato del
camino, quella in penombra, poggiando i gomiti sui braccioli e unendo le mani
sul ventre. Elegantemente, come se dovesse intrattenersi per un colloquio
d’affari, accavallò le gambe.
La singolare eleganza con cui
si muoveva era talmente radicata nel suo carattere e nelle sue abitudini, che
anche se era solo o con conoscenti fidati non riusciva a fare a meno di
sfoggiarla.
Un’abitudine bizzarra.
Attese. Era conscio del fatto
che Jack non amava i lunghi silenzi, anche se si doveva parlare di qualcosa che
a lui non piaceva. Non era una persona adatta ad ascoltare il silenzio, o a
trovare in esso un ottimo amico.
Il silenzio non giudica.
Non ci volle molto, in
effetti, perché l’altro prendesse parola…
« Dovrei esserci abituato »
cominciò, le ginocchia al petto e il volto nascosto fra le braccia incrociate: « Lui torna a casa e mi saluta. Così, normalmente.
Niente di strano o di fuori luogo… » la voce
arrivava attutita a causa della posizione, ma comunque
comprensibile: « …tranne il fatto, e
tu lo sai, che quel saluto sarà
l’unica parola che ti rivolgerà per tutto il resto della sua permanenza a casa » disse, il tono di chi ripete quel discorso per
l’ennesima volta, ancora e ancora.
Incontrando un pacato silenzio come unica risposta, continuò: « con i miei fratelli parla, ovviamente. Ma loro sono i prossimi successori, il successivo
capofamiglia e la sua fedele spalla, e alla luce di questi titoli la cosa
cambia » si lamentò, una nota lieve di risentimento sulle
ultime parole pronunciate. « Io sono un terzogenito. Non sarò
niente, per i Bezarius. Ho ricevuto la stessa
educazione dei mie fratelli solo per la testardaggine
di mia madre, ma non le stesse prospettive; mio padre era così preoccupato del
mio futuro da lasciarmi fare quello che mi pareva… » continuò, aggiungendo l’ironia.
Glen sapeva come si sarebbe concluso
il monologo. Ne era sicuro quasi quanto lo era sul
sorgere del sole la mattina successiva.
Non si sbagliò neanche questa
volta.
« Io… li detesto tutti » asserì
Jack, stringendo di più a sé le gambe.
« La tua solitudine li detesta, non tu » ribatté questa volta Glen,
puntando gli occhi scuri sull’altro anche se non incrociò i
suoi color giada.
« Lo dici sempre! » accusò Jack.
« E ho sempre ragione »
ribatté pacato. « Sai bene
quanto me che domani mattina, svegliandoti, ti farai
prendere dai sensi di colpa per ciò che hai detto » aggiunse poi, la voce tranquilla e senza particolari
flessioni.
Jack prese aria per ribattere,
ma rinunciò. Rimase in silenzio per molto, alcuni minuti forse, che passarono
senza che nessuno dei due aprisse bocca.
Cosa che fece, di nuovo, Jack.
« Scusami… devo essere una seccatura, quando comincio a
lamentarmi. Sembro un moccioso… » se ne uscì, la voce ridotta ad un
mormorio malinconico.
Glen non distolse lo sguardo dal camino. « Non particolarmente. E’ una cosa normale, avere degli
attimi di debolezza » lo giustificò, apparentemente
disinteressato.
Ma Jack era perfettamente conscio che lo sfrontato
disinteresse di Glen era falso quanto una menzogna.
Lui non ignorava mai nulla; e mai avrebbe risposto, se veramente non avesse
prestato attenzione.
Sorrise debolmente. « E’ da deboli… » sussurrò.
« E’ da umani » lo corresse Glen.
Il terzogenito dei Bezarius si accigliò, riportando i piedi a terra e
sedendosi normalmente. Aggrottò poi la fronte, osservando l’altro senza
riuscire ad incrociarne lo sguardo.
« Di solito dici che gli esseri umani non ti piacciono… » esordì, lasciando cadere il discorso nell’ovvietà.
Ma Glen
aveva già la risposta pronta e non mancò di esporla
rapidamente: « ogni regola ha la sua eccezione » decretò.
Con la coda dell’occhio, vide
Jack sorridere. Scostò dunque lo sguardo su di lui, incontrando finalmente le
sue iridi color giada.
Notò la fiamma della candela smettere di tremolare,
sentì la tempesta che l’aveva minacciata affievolirsi e poi sparire.
Sorrise a sua volta.
Passarono altri istanti di
silenzio, in cui entrambi si persero a guardare le
lingue di fuoco danzare nel caminetto. Poi, come se si fosse deciso a dar voce
ad un pensiero a lungo trattenuto, Jack fece nuovamente udire per primo la sua
voce.
« Glen, tu… non ti lamenti mai
» disse. E non suonava affatto
come una domanda.
Nell’apatica pacatezza del suo
sguardo, il moro non rispose subito. Poi, come se spinto da
qualcosa che non sapeva nominare, gli rispose: « Non cambia mai niente ».
Jack conosceva il significato
recondito di quella frase, perché era a conoscenza dei suoi pensieri a
proposito della vita.
Se non cambiava mai niente
voleva dire che tutto era rimasto immutato talmente a lungo, che anche
lamentandosi non si sarebbe comunque risolto nulla.
Era morta persino la speranza.
Il circolo avrebbe
continuato a girare nell’inutile ricerca della sua fine in eterno, finchè
qualche mutamento nel corso del tempo non lo avesse fermato con la
forza.
Ma quel mutamento non giungeva mai, e Glen
aveva cominciato a considerare che non sarebbe mai giunto.
Per quello aveva deciso di
causare da solo il cambiamento.
Se il destino
gli era avverso, avrebbe sfidato il fato. Si sarebbe ripreso indietro il
tempo perso e tutto quello che gli era stato tolto.
Si sarebbe ripreso la luce, i colori e la felicità
perduta.
« Glen! » lo chiamò Jack d’improvviso, interrompendo i suoi
pensieri con l’ombra di preoccupazione che scorse nella sua voce.
Rilassando il volto nella
sorpresa, si accorse di avere aggrottato le sopracciglia.
« Perdonami » si scusò
dunque: « mi sono distratto » si
giustificò.
Probabilmente la sua
espressione non fu delle più sincere, o forse Jack
aveva acquisito pian piano la capacità di intuire con un nonnulla ciò che
pensava o su cui ragionava.
Fatto sta che sorrise,
guardandolo gentilmente. Il sorriso di un amico… il sorriso di una persona cara
per cui provi affetto e da cui ne ricevi.
Calore e… luce. Di nuovo.
Quella flebile fiamma che tornava a brillare, a dare un accenno di colore al
mondo.
« Il tuo mondo è diventato più scuro? » mormorò poi, sorridendo senza allegria.
Ghignò, Glen,
colpito come al solito da quelle parole.
Sempre più precise, sempre più
a fondo. La capacità con cui Jack leggeva le sue espressioni, per quanto
apatiche potessero essere, riusciva ancora a stupirlo dopo anni.
« Non potrebbe essere altrimenti… » sussurrò, tornando a fissare le lingue danzanti del
fuoco.
Improvviso quanto un acquazzone estivo, e
per questo dannatamente inatteso.
D’un tratto, tutta
la luce era scomparsa.
Non avvertivo più il calore del suo corpo
accanto al mio, o della sua mano nella mia.
Solo vuoto. Solo freddo. Solo silenzio.
Solo buio.
Un’oscurità così opprimente da rigettare
ogni singola particella di luce.
Così profonda che non riuscivo a vedere
nemmeno le mie mani, facendo dei miei pensieri l’unica prova tangibile che
dimostrasse la mia esistenza, il fatto che fossi ancora vivo.
Una vita dipinta in eterne sfumature di
nero.
Era ormai notte quando si
ritirarono nelle proprie stanze, e solo la luce di un candelabro illuminava la
sua camera, dal comodino di fianco al letto.
Era sufficiente per vedere,
sulla libreria di fronte al baldacchino, fra il caminetto e la finestra, i
titoli incisi sui frontespizi dei libri che la riempivano completamente da cima
a fondo.
Glen, davanti ad essi, li
osservava con attenzione.
Non ricordava da quando aveva
preso l’abitudine di leggere prima di dormire. Molti medici gli avevano
consigliato più volte di farlo durante le ore del giorno - la fioca luce delle
candele non faceva bene alla sua vista - e, altresì, gli avevano fatto notare
che dormiva troppo poco per ammettere di essere completamente riposato. Ma non riusciva a farne a meno.
Le pagine dei libri erano per
lui come una ninna nanna, o una filastrocca. In esse tutto si poteva, tutto era
concesso, e non c’era illusione migliore da cui essere cullati durante il
sonno.
Quella sera non aveva
desiderio di leggere qualcosa in particolare, così prese il primo libro che gli
capitò sotto mano. La sua libreria conteneva moltissimi classici dalle storie
d’amore tragiche, e quando si ritrovò davanti Otello di Shakespeare seppe che la sua
fortuna non esisteva per evitare le tragedie.
Tuttavia non si liberò del libro, dirigendosi anzi verso il
letto e coprendosi fino al busto.
Non lo iniziò da capo. Aveva
preso fra le mani quel volume talmente tante volte che conosceva a memoria i
primi atti, ed era lungi da lui - nonostante il talento di cui sicuramente era
dotato Shakespeare - ritenerli almeno un po’ coinvolgenti
o interessanti.
Arrivò invece al cuore
dell’opera, ovvero alla parte in cui Iago tesse la sua
tela di inganni per far sembrare che Desdemona avesse tradito Otello.
Prese a leggere, ma alla terza
strofa dovette staccare gli occhi dalle pagine.
Un cigolare aveva attirato la
sua attenzione sul muro di fianco al caminetto, in cui sapeva esserci nascosta
la porta del passaggio segreto. E solo una persona oltre lui
lo conosceva, ovvero la stessa che poteva decidere improvvisamente di
piombargli in camera a quell’ora di notte.
Quando dal passaggio vide spuntare un’arruffata chioma
bionda, non ebbe dubbi.
« Problemi a prendere sonno? » chiese dunque, il tono di voce basso e il libro aperto
appoggiato in grembo, sopra le coperte.
« Non proprio » gongolò Jack,
fermandosi in piedi appena oltre il passaggio, che subito si richiuse. Doveva
avere un’abitudine masochistica al freddo, considerò Glen,
dato che si era presentato in camicia da notte, scalzo
e senza vestaglia.
« Rischi un malanno » osservò infatti, squadrandolo per fargli capire che parlava del suo
abbigliamento.
« Naaaaaah! Sono un osso duro!
» obiettò scherzosamente l’altro: « ma se proprio ci tieni, sarebbe un motivo in più per
permettermi di dormire con te… » azzardò, incrociando le braccia dietro alla schiena nella pallida
imitazione di una svenevole damigella.
Glen lo guardò con rassegnazione, scostando con la destra il lembo della
coperta al suo fianco. Ridacchiando, Jack vi si fiondò con
qualche veloce balzo, facendo sobbalzare sgraziatamente il materasso.
«
Hai la grazia di un elefante » notò il moro, salvando il volume dall’agitazione
del compagno.
Per
tutta risposta, il biondo gli fece una linguaccia. « Cosa
leggi? » domandò subito dopo, accoccolandosi a lui e poggiando la testa
sulla sua spalla.
D’istinto
- o per abitudine - Glen gli cinse la vita con il
braccio.
«
Prova a capirlo da solo » lo sfidò poi, scostando il libricino verso di lui con
la mano libera.
« Perché mesto così? Scuotiti. Ah mostra, che Otello
alfin tu sei (*) » lesse ad alta voce, abbozzando
un tono da opera teatrale. « L’ Otello… » commentò poi, storcendo il naso: « certo che hai il gusto
del sadico… leggi di tradimenti prima di andare a dormire » aggiunse,
allungando una mano fuori dalle coperte per sfilargli il testo dalle mani.
«
Era il primo che avevo sotto mano… che stai facendo? » domandò, lasciando che
l’altro si stendesse sul suo stomaco per appoggiare il libro sul comodino.
Ovviamente non senza dolore, dato che gli piantò il
gomito nello stomaco; ma si riservò di farlo notare se non con una lieve
smorfia.
«
Sbaglio o ti hanno detto che non devi leggere a lume
di candela? » obiettò lui: « vuoi diventare cieco prima del tempo? » ironizzò
appena, spostando poi l’attenzione sull’orologio da taschino ai piedi del
candelabro, afferrandolo.
Glen non ribatté, non del tutto interessato a parlare della sua salute. Non
gli importava molto dei pareri dei medici - o presunti tali - se era a rischio
una sua abitudine.
Era
sempre stato restio a rinunciare all’ordinario, e non avrebbe
cominciato.
Tornando
in posizione, Jack osservò il piccolo orologio saggiandone l’incisione del
coperchietto con il pollice. Cliccò poi il pulsante, aprendolo e facendo partire il carillon al suo
interno.
Nel
silenzio di quell’ala della casa - le stanze di Glen
erano separate dal resto - le note di Lacie si
dispersero, riempiendo la stanza.
Rimasero
in silenzio ad ascoltare il carillon, ancora e ancora, finchè il motivetto non si interruppe e ricominciò da capo. Il fascino di Glen per quella melodia andava oltre la normalità -
sfociava nella vera e propria ossessione - e Jack era consapevole del fatto
che, oltre a suonarla ripetutamente con il pianoforte, il padrone di casa
sarebbe rimasto ad ascoltarla all’infinito.
Per
quello non chiuse l’orologio finchè non fu l’altro a
farlo, sfiorandogli le dita con le proprie e spingendole delicatamente verso il
basso per chiudere il coperchietto, così da fermare la melodia.
Jack
però non si mosse, e Glen non ritirò la mano. Rimase
semplicemente in silenzio, osservando il riflesso dorato dell’orologio alla
luce delle candele.
«
Ti manca? » sentì poi dire a Jack, in un sussurro che aveva un retrogusto
amaro.
In
un fruscio di cotone, voltò appena il capo verso di lui.
« Lacie… » precisò l’altro, senza guardarlo ma percependo
sicuramente il movimento: « ti manca? » chiese di nuovo, attendendo cupamente
silenzioso.
Attese
una risposta che non arrivò. Glen riportò diritta la
testa e lo sguardo oltre i piedi del baldacchino, a perdersi nel buio soffuso
della camera oltre l’alone luminoso del candelabro.
Ma Jack non demorse: voleva una risposta. « Glen…
»
«
Jack » lo interruppe però l’altro, risoluto: « non farmi domande di cui ti
pentiresti » disse, troncando di netto la discussione che sicuramente - se lo
sentiva - era in procinto di nascere.
Voleva
evitare di ferire Jack con i suoi assensi, perché altro non poteva essere. A
lui Lacie mancava come l’aria, e l’altro sapeva che
il suo non era mondo, se non c’era lei.
Ma,
al contempo, anche Jack aveva la sua importanza. E in
una casa in cui spesso e volentieri si sentiva trascurato, voleva evitare che
con le sole due lettere del suo “sì” il biondo si sentisse evitato anche da
lui.
Jack
era l’unica cosa preziosa che gli era rimasta… perderla in
modo così stupido non gli era consentito.
Anche il solo pensiero di vederlo sparire per sempre - come Lacie, del resto; come la sua luce - non era neanche
lontanamente concepibile.
Serrò
le labbra, cercando di non far risuonare la sua voce troppo dura nel dire
“dormiamo”; ma sembrò comunque un ordine, a cui il
biondo non ribatté.
Glen si sollevò con il busto, sfilando delicatamente di mano l’orologio a
Jack per posarlo nuovamente sul comodino, sopra al copertina
dell’Otello. Afferrò poi lo smorzacandele, premendolo
su ognuna delle tre fiammelle e spegnendole.
La
stanza piombò gradualmente nel fitto buio invernale.
Con
un lieve sospiro, si distese sotto le pesanti coperte. Lo scaldino aveva reso
le lenzuola in fondo al letto calde e confortevoli, così che i piedi non risentissero del freddo che immancabilmente, in una casa
così grande, regnava nonostante la presenza del camino. Tuttavia, il calore che
più avrebbe voluto sentire in quel momento era scomparso.
Come
prevedibile, Jack si era voltato e spostato sull’altra metà del letto.
Sul
fianco, girato verso l’interno, Glen chiuse gli
occhi. « Ehi… » sussurrò, lasciandosi andare ad un linguaggio molto più spigliato di quello che usava abitualmente: «
vieni qui » aggiunse, rendendo dolce il tono prima brusco.
Non
ci fu nessuna reazione, all’inizio; nemmeno un fruscio. Poi, senza dover
aspettare troppo, Jack si girò nuovamente verso di lui, avvicinandosi fino a
che non sentì il suo respiro sul proprio volto.
«
Scusa, ti ho fatto arrabbiare… » bisbigliò poi.
«
Non sono arrabbiato » rispose lui, rendendo ovvia una mezza verità.
«
Tu… non mi dici mai niente » si giustificò subito, come se fosse un botta e
risposta.
«
Non ce n’è bisogno, tu capisci sempre tutto » ribatté
di nuovo.
«
Non è una scusante ».
« Ma è innegabile ».
Jack
si ritrovò spiazzato, incapace di rispondere a quelle parole. Tacque, per
qualche istante, finchè il dubbio che Glen tanto temeva
non scavò la via per uscire, ottenendo di essere pronunciato ad alta voce: « ti
confidi con altri? » domandò, solo apparentemente sicuro di sé e di ciò che
pronunciava.
Glen portò la mano a sfiorare la gota dell’altro, coprendo in un semplice
gesto la distanza che li divideva. « Io non ho rimasto
nessun altro… » sussurrò sulle sue labbra, unendole solo dopo quelle poche
parole.
Le
saggiò, assaporandole con le proprie prima che Jack
rispondesse al contatto, dischiudendole per approfondire il bacio, sfiorandogli
la lingua con la propria. Un bacio dolce e delicato, dal
sapore di parole non dette ma colmo d’affetto.
Tra
loro era sempre stato così. C’erano cose che Glen non
diceva, e che Jack doveva per forza intuire da quel
poco che riusciva a scorgere in quell’atteggiamento di austera eleganza che
circondava il moro come un’aura.
Ma
la complicità che gli univa era qualcosa di speciale, che entrambi sembravano ritenere più effetto di una qualche sorta di
incantesimo che volere del destino.
Non
ci volle molto prima che Glen facesse scivolare la
mano verso il collo, e poi sulla schiena. Passò le dita sulla spina dorsale
sopra la stoffa, carezzandola in tutta la sua lunghezza. Sentì i muscoli
dell’altro irrigidirsi al suo passaggio, e utilizzò il mugugno basso di Jack
come pretesto per non fermarsi.
«
Approfittatore… » lo apostrofò Jack
senza troppa convinzione, facendo apparire scherzoso il commento.
«
Sei venuto qui a tuo rischio e pericolo » rispose Glen, riservandosi il piacere di baciare adagio la pelle
del collo.
Voleva
saggiare ogni centimetro di quella pelle, per l’ennesima volta. Voleva
percepire il calore tramite le sue labbra, rubarlo, per non dimenticarsi più la
sensazione che si provava ad avere qualcuno vicino.
Voleva
rubare la sua luce per poter vedere di nuovo i colori, anche se solo una
pallida imitazione di come usavano essere in precedenza.
Perché Jack, nonostante fosse la tremolante luce di una candela, era l’unica
fonte luminosa presente nel suo mondo.
E
lui, impossibilitato a spegnerla, si era ritrovato a volerla proteggere. La
custodiva gelosamente e, se avesse potuto intrappolare la fiamma, l’avrebbe costretta in una prigione per non perderla.
Era il suo unico contatto
con lo spettro del mondo che una volta vedeva.
In
preda a questi pensieri, la presa sulla schiena del biondo si fece più salda,
forte, quasi violenta. Strinse nel pugno la morbida stoffa della veste da
notte, stringendo a sé quel corpo in modo possessivo.
Ma
Jack non si lamentò; nemmeno quando furono i denti a sostituire le labbra sulla
pelle sottile del collo, lasciando sicuramente un segno rosso nel punto in cui
lo morse.
« Glen… » sussurrò solamente: « cosa c’è? » domandò.
«
Tu non mi tradirai, vero Jack? » chiese: « tu non te ne andrai
» aggiunse, e sembrava più un’affermazione.
Lo
strinse a sé ancora di più.
«
No » gli rispose l’altro, abbracciandolo a sua volta: « io sono qui ».
Nel mio mondo
che sfuma nel nero, solo una lieve fiammella mi protegge dalla disperazione.
La tengo fra
le mani, proteggendola dal vento.
Custodisco il
suo calore, pallida imitazione del sole, perché oltre il suo tremolante lucore
c’è solo l’abisso.
La guardo, la
amo, e cerco di non pensare.
Ai ricordi.
Al grigio che
sfuma in nero.
A Lacie.
E a cosa farò quando la
candela si sarà consumata.
~ Owari.
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(*) Otello, atto
secondo.
Smorzacandele:
è un oggetto, solitamente d’ottone, dalla forma conica fatto per spegnere la
fiamma della candela senza far fuoriuscire il fumo, il cui odore è fastidioso.
Scaldino: una sorta di braciere di rame al cui
interno venivano messe delle braci; ha l’aspetto di
una pentola e veniva messo sotto le coperte per scaldare le lenzuola.