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Autore: Child_of_the_Moon    09/06/2022    4 recensioni
Si era accorto di amarla, ma…
Si era anche accorto della presenza di pesanti catene avvolte attorno ai suoi arti, che non gli permettevano in alcun modo di avvicinarsi a lei, tenendolo ancorato ad una realtà troppo angusta, dolorosa, troppo ingiusta.
Amarsi, viversi.
Una realtà quotidiana in cui regna il grigio assoluto.
Una presenza misteriosa e oscura che osserva da lontano, sempre.
Amarsi e viversi, amarsi è viversi.
[Questa storia partecipa al contest "Questione di omonimia" indetto da Earth e Goldenfish sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ghostbusters



Quella presenza andava ora dissolvendosi, miscelandosi e fondendosi assieme alle forme enigmatiche e incomprensibili prodotte dal fumo che si innalzava torpidamente dalla tazza colma di cioccolata calda, in cui erano immersi morbidi marshmallow alla fragola. I suoi preferiti.

Sperava di riuscire a dimenticarla, anche solo per un istante.


Era sempre stato un tipo razionale, lui. Sapeva perfettamente discernere la realtà dalla fantasia, la suggestione dalla disillusione. Eppure in quell’ufficio dalle pareti bianche e asettiche che lo schermavano dalla frenesia quotidiana e dal tumulto urbano, su quella scrivania disorganizzata che lo aveva ospitato in tante notti insonni, seduto su quella poltrona ormai consunta; la percepiva. Gravava sulle sue spalle incombente, un infausto flagello dalle forme intelligibili, puro ectoplasma, nelle cui forme astratte e incomprensibili poteva forse scorgere una figura incappucciata, un boia, pronto a giustiziarlo e ad esporre a braccio teso la sua testa al pubblico, contratta in un’espressione mostruosa. Gli capitava spesso di scorgerla alle sue spalle, intenta a fissarlo e in quei momenti la sua testa era preda di fortissime emicranie che usavano comprimergli il capo con una violenza tale da percepire i propri bulbi oculari fuori dalle orbite; i suoi arti erano scossi da brividi e tremori che fluivano nel suo corpo come fibre di pura elettricità, mentre quella figura, sempre presente, lo guardava quasi alitandogli sul collo, immobile, ma discreta. Nonostante provasse un grande amore per l’ironia e il sarcasmo, quando la sentiva, ridere gli pareva quasi più doloroso. Annaspava, cercava disperatamente di rimanere a galla e non farsi trascinare giù dalle sue stesse sinapsi, tentando di affogare il suo animo ansioso, nella cioccolata calda con i suoi amati marhmallow alla fragola.

Li adorava. Adorava l’aroma dolciastro della fragola, adorava la sensazione di morbidezza tra i denti che lentamente si serravano attorno ad essi e adorava quanto lo riportassero alla sua infanzia, quando ne divorava confezioni intere durante le proiezioni al cinema a cui andava ad assistere assieme al suo papà.

Concentrandosi sul sapore di cioccolato che si mescolava a quello della fragola, la sua mente ora aveva preso a viaggiare, cercando di attenuare il peso dello sguardo della presenza, che andava via via disgregandosi, lasciando spazio a suoni, immagini che gremivano la mente dell’uomo, il quale finalmente poteva lasciarsi andare a un sospiro di sollievo, mentre le sue orecchie udivano indistintamente un lontano pianoforte a coda; le fibre della sua concretezza materiale si lasciavano andare, reclinandosi all’indietro, assaporando la propria rigidità sciogliersi e le sue mani, tacitamente, desideravano unirsi a quelle di lei.

Lei.

Forse l’unica illusione che osava concedersi. Anche se in circostanze usuali tendeva a respingere la sua presenza, in quei momenti sentiva di necessitare disperatamente il suo contatto.

Con flebile fiato, aveva lasciato che quella mera proiezione lo consolasse, carezzandogli dolcemente i capelli.

Era sempre stata un tipo indipendente, lei. Gli attimi della sua esistenza erano scanditi dal ticchettio dell’orologio da polso che indossava sempre e che rimaneva perennemente sotto il suo sguardo vigile e attento. La descrivevano come una donna che faceva del suo acume il diamante più brillante da sfoggiare in ogni occasione, mentre rifletteva i colori dell’iride, plasmando suggestioni di luce che la facevano risplendere. Ma questo fulgido bagliore le permetteva anche di proiettare un’ombra ed era l’ombra di una persona che pareva irraggiungibile, talvolta fin troppo arroccata e rigida circa le sue convinzioni e fortemente categorica nell’affermare che la vita privata non dovesse in alcun modo mescolarsi a quella lavorativa.

Era in gran parte così, erano colleghi da così tanti anni e conosceva ormai perfettamente il modo in cui era solita pensare, aveva appreso molto di lei durante tutti i momenti in cui avevano lavorato fianco a fianco ed era perfettamente conscio di quanto non fosse sua consuetudine scucire scorci di vita privata, mettendosi a nudo lasciando che gli altri posassero il loro sguardo sulla sua identità più intima, dipinta ad olio sulla sua pelle, concedendo agli estranei di esplorarla, sottraendole la propria interiorità.

Si era sentito quasi privilegiato quel giorno di qualche tempo prima, durante una delle loro nottate in ufficio per terminare di revisionare il proprio lavoro, quando per la prima volta e soprattutto senza che lui si fosse posto in maniera indiscreta, lei gli aveva confessato il suo profondo amore per le meduse, lasciando che l’ombra che proiettava, data l’esposizione al luminoso schermo del suo portatile, venisse flebilmente assorbita, permettendogli di scorgere una lei più sognatrice e quasi infantile. Riusciva a disegnare nella sua mente, con la punta sottile di una matita, la sua espressione un po’ da bambina, mentre con il volto pigiato contro il vetro di un incantevole acquario, osservava ammaliata con i suoi grandi e scuri occhi, le meduse nuotare nell’acqua, lucenti di riflessi argentei mentre aggraziate guizzavano pulsando placidamente e i tentacoli fluivano intersecandosi, evanescenti, con moto torpido, magnetico, ipnotico.

Soffermandosi ad osservare quella manifestazione eternamente eterea all’interno della sua immaginazione lui aveva sorriso, mentre sentiva qualcosa emergere dall’orlo della sua percezione, una sensazione di tenue calore che aveva irradiato i suoi tessuti: era durata solo una frazione di secondo, poi era fuggita silenziosa, lasciandolo in uno stato di sfumata confusione, velata incoscienza, mentre si interrogava sulla vera natura di quell’energia sconosciuta e quasi atavica che lo aveva sopraffatto per una breve pulsazione del suo cuore.

Il tempo scorreva perpetuo, permeato da quella incessante monotonia priva di sfumature e lui iniziava a rendersi conto di non riuscire a cancellare l’immagine di quella piccola e tenera bambina ammaliata dalle impalpabili meduse al di là della lastra di vetro: le linee che aveva tracciato con cura su quel consunto blocco da disegno si erano incise tra le fibre della carta, impregnandosi del profumo di lei. Si era accorto di quanto si trovasse sempre più spesso a guardarla, facendo scorrere il suo sguardo tra le morbide insenature formate dalle pieghe della sua camicia e in quei brevi attimi, riusciva a smarrirsi in quei colori, quei sapori, quel labirinto di sentori nei cui sentieri riecheggiava la melodia, il canto delle balene; le sue meduse che levitavano danzando nell’aere e lui che voleva unirsi a loro le seguiva, tendendo un braccio verso di loro che gli davano il benvenuto con solenne indulgenza, invitandolo ad armonizzarsi alla loro danza rituale. Tra le vie del labirinto, poi, scorgeva lei ad aspettarlo con trepidazione, portando un anemone tra i lunghi capelli scuri. Lui le andava incontro sfiorandole con delicatezza la mano ed era lì che, avvolti dalla miriade di meduse, prendevano a fluttuare, volteggiando congiunti l’uno all’altra, amalgamandosi ad esse e percependo insieme a loro la profondità dell’universo.

Tuttavia al culmine di quel ballo il sogno prendeva le fattezze di un orribile incubo, quando quella presenza si faceva scorgere ai margini delle alte e rigogliose siepi che costituivano il labirinto. Non osava avvicinarsi, rimaneva lì, immobile e lo fissava. Tutto allora diveniva confuso, contorto, tutto affogava nel nero liquefacendosi e disgregandosi in masse informi, dalle sagome amorfe, mostruosamente deturpate e dall’odore fetido e rivoltante, così tremendamente caratteristico di quell’apparizione diabolica. La testa dell’uomo era dilaniata da dolori inenarrabili, mentre ogni elemento attorno a lui perdeva identità. Anche lei era svanita, trasfigurata in una sostanza nera che nulla aveva più di suo. Tra le grida di disperazione aveva cercato di raccogliere con le mani quel fluido viscoso, che ora gli colava dalle dita, come per tentare di stabilire un inutile e vano contatto con quella donna, ma non era servito. Una folata di vento gelido era soffiata, travolgendolo, portandosi via con sé perfino le sue lacrime mentre quella figura, l’ectoplasma, incombeva su di lui, il quale giaceva steso al suolo, immobilizzato da quell’arcano terrore.

Schiudendo lievemente le palpebre aveva realizzato di essere tornato alla realtà, in quella sala dalle pareti bianche, forse più simile ad un ospedale che a un ufficio, dove i colleghi si aggiravano da una stanza all’altra in maniera forsennata, dove tutti gli schermi dei computer mostravano documenti e diagrammi incomprensibili. Il suo sguardo era ancora rivolto su di lei, mentre nel suo ancora si leggeva l’alienazione dalla realtà, una sfumatura rara dei suoi occhi.

Si era accorto di amarla, ma…

Si era anche accorto della presenza di pesanti catene avvolte attorno ai suoi arti, che non gli permettevano in alcun modo di avvicinarsi a lei, tenendolo ancorato ad una realtà troppo angusta, dolorosa, troppo ingiusta.

Aveva tentato di stabilire un contatto talvolta ricercando fugace il suo sguardo, come il battito d’ali di una rondine, talvolta raccontandole dei giorni andati della propria infanzia, talvolta offrendole una spalla su cui piangere, sapendo notare quei piccoli gesti di lei che mostravano apprensione, quelli che nessun altro notava tranne lui, che si sentiva forse un po’ speciale, ma che lei aveva rifiutato. Erano due linee parallele, loro. Erano sinergici al lavoro, ma sapevano anche prendersi in contropiede e battibeccare al momento giusto. Sapevano parlare di tutto, ma tuttavia parlavano di niente. A volte lui si sentiva come una delle meduse di lei, nonostante sapesse che sul fondo della propria coscienza lei gli volesse bene, a dividerli c’era pur sempre il vetro dell’acquario, che non permetteva loro di concretizzare i loro pensieri, i quali si arrestavano sulle loro labbra boccheggianti.

E poi… c’era quella “cosa”. La presenza, l’ectoplasma. Nonostante il dolore e il disagio che essa gli provocava era qualcosa di cui non aveva mai fatto parola con nessuno, un segreto oscuro di cui solo lui era a conoscenza. Non poteva rivelare la sua esistenza, men che meno a lei, che forse si sarebbe spaventata e infine decisa a tagliare del tutto i ponti con lui e lui non voleva perderla. Così aveva deglutito l’amarezza di quella verità, la verità che si portava in fondo al cuore e che come un parassita viveva in simbiosi con lui da tanti, troppi anni ormai. Non avrebbero mai potuto incontrarsi, era stato deciso dall’entità che malediceva ogni notte. Per questi motivi che gli dilaniavano il petto aveva deciso di rimanere con lei, ma prediligendo le retrovie, ma anche se tante volte aveva cercato di cancellare il disegno che aveva realizzato tempo addietro, non era mai riuscito però a strappare il foglio.

Aveva deciso di continuare così, avrebbe cercato di respingerla non appena quella sensazione di calore al petto si fosse ridestata in lui, ma si accorgeva ogni giorno di più di quanto in realtà la desiderasse e di quanto tentare di allontanarla lo stesse sfiancando.


Aveva deglutito anche l’ultimo marshmallow, aprendo gli occhi dopo il suo viaggio astrale, riportato alla tangibilità della materia da due delicati battiti che provenivano dalla sua porta. Era andato ad aprirla e vi aveva trovato lei che, nonostante l’ora ormai tarda, sapeva benissimo di trovarlo rintanato nel suo ufficio. Gli aveva proposto di fermarsi a casa sua per cena e fare due chiacchiere. L’uomo avrebbe voluto rifiutare con tutte le sue forza, sigillare il suo cuore ancora una volta, tornare a casa e riversarsi in lacrime sul suo cuscino, ma prima di realizzarlo stava già scendendo le scale assieme a lei.

La dimora di lei era stranamente accogliente, un piccola coccola di ospitale quotidianità nella realtà di una persona forse fin troppo ancorata al sapore insipido della consuetudine, dell’ordinario. All’interno di quel calendario metodico e sistematico neanche i pasti godevano del proprio gusto, eppure quella notte, i cibi erano esaltati da spezie esotiche che arricchivano e risaltavano le caratteristiche della propria identità, oltrepassando i limiti sensoriali.

Quella notte avevano parlato forse per la prima volta.

L’ansia dell’uomo era andata dissipandosi come nebbia, mentre la donna lentamente e con discrezione aveva scucito con riguardo i lati di sé stessa che i suoi abiti impersonali e asettici non permettevano di scorgere, rivelando riflessi iridescenti che ora irraggiavano l’intero ambiente. Timidamente la sensazione di calore al petto sembrava volersi levare da lui, dapprima abbozzata, poi desiderosa di sorgere all’alba del suo cuore. Per quanto avesse voluto tentare di eclissarla, non ci era riuscito stavolta. Lei aveva sommessamente iniziato a crepare il vetro ormai non così spesso dell’acquario, gli aveva teso una mano, aveva cercato quella di lui, la aveva sfiorata con le punte delle sue dita affusolate, la aveva stretta beandosi del suo calore e aveva ridotto quella distanza; quella fenditura di incomprensione, quegli anfratti di timori e di paura e aveva colmato quel vuoto di mestizia facendosi strada tra i rovi del suo stesso cuore, lasciando aperto il passaggio, in modo che lui potesse proseguire per poi trovarla nel nucleo cardinale della sua essenza, con l’anemone tra i capelli rilucenti, guizzanti di luci prismatiche. Forse era giunto il momento anche per lei, forse era arrivata l’ora di allontanare da sé certe convinzioni che ottenebravano la vera individualità dei suoi pensieri; i suoi sentimenti non potevano rimanere ingabbiati dietro a quelle sbarre, come un canarino sofferente voleva liberarsi da quelle dolenti costrizioni, librandosi nel cielo e fondendosi assieme alla brezza del mattino, solcando le distese dell’Empireo sulla linea di confine tra il materiale e l’immateriale.

Le loro labbra si erano sfiorate, quella sera.

Con delicatezza ed estrema riservatezza, era durato un solo, singolo, infinito, istante.

I secondi fluivano adagio, seguendo il ritmo di una melodia elegante, le dita di un pianista su un pianoforte, i movimenti sinuosi e ipnotici, che andavano a cristallizzarsi sul pentagramma, rimanendo impressi nella memoria come gocce di pioggia attraverso le quali risplendevano i raggi del sole, tramutandole in gemme sfavillanti. I loro sguardi si erano incontrati, mentre un misto di euforia e confusione aleggiava nelle fenditure dei loro occhi, mentre le labbra tacitamente desideravano colmare quella insignificante ma dolorosa distanza che le separava. Chiudendo gli occhi, tutto attorno a loro svaniva.

Ma lei.

Lei era sempre lì.

L’uomo aveva tentato in tutti i modi a lui possibili di scacciarla, di costringerla a indietreggiare, ma vani erano stati suoi sforzi. La presenza era di nuovo lì, alle sue spalle, lo sguardo di implacabile ferocia. Un grido lancinante di sgomento misto a dolore si era levato da lui, mentre nuovamente il suo cranio veniva afferrato dalla possente morsa del boia, che pareva fosse intenzionato a frantumarlo. Impotente, si era lasciato sopraffare, era sprofondato nelle gelide fiamme del dolore, mentre l’emicrania si era imposta con veemenza, prendendo il possesso della sua fragile mente. Il suo intero corpo era scosso da brividi e spasmi indomabili, laddove il demonio che portava in corpo ululava occulte invocazioni all’altezza del suo petto afflitto da fitte inflitte da centinaia di lame, ognuna di loro incideva il proprio simbolo nelle sue carni. In un ultimo disperato atto per la sopravvivenza, l’uomo aveva preso fuori a fatica dalla tasca una confezione di un potentissimo antidolorifico e aveva tentato il tutto per tutto, ingoiando una pasticca, masticandola. Il mostro che albergava dentro di lui, lentamente iniziava a ridimensionarsi, tornando alla propria forma originale, mentre gli occhi impauriti di lei lo fissavano, attoniti. Era terrorizzata e lui se ne era reso conto, ma ora non aveva più senso nascondere quella funesta e dolente verità. Stremato e con la mente ancora offuscata dal dolore, le aveva preso la mano e aveva iniziato a raccontare.

Aveva iniziato ad accorgersi di quella presenza quando era solo un bambino: qualche volta la scorgeva con la coda dell’occhio dietro la lavagna o fuori dalla finestra della propria classe, qualche volta gli sembrava di vederla ai piedi del proprio letto. Le aveva chiesto chi fosse, ma lei non rispondeva mai. Qualche volta aveva provato ad avvicinarsi a lei, nonostante ne fosse intimorito, ingenuità, curiosità o stupidità, ma lei era scomparsa subito, in compenso però, iniziava a percepire i primi mal di testa.
Aveva sempre avuto paura di parlarne con la mamma o col papà: era terrorizzato da lei, tanto che temeva sarebbe successo qualcosa di brutto se lui avesse raccontato loro come si sentiva. Forse avrebbe deciso di vendicarsi, in futuro. Più passavano gli anni, più i sintomi peggioravano. I semplici mal di testa si erano tramutati in vistose emicranie, iniziava a dolergli intensamente il petto, prendeva a tremare, sudare e gli arti si indolenzivano, a tal punto da non riuscire più a sorreggerlo. I suoi genitori a questo punto avevano iniziato a preoccuparsi notevolmente, seppure non avessero mai visto la presenza come lui, avevano riconosciuto quelle anomalie. Si era vergognato tanto quando gli avevano detto di esserne a conoscenza, aveva cercato di glissare sulla cosa, ma alla fine aveva lasciato che lo aiutassero.
Il papà gli aveva detto che anche la nonna vedeva la presenza quando era ancora viva. Lui se ne era dispiaciuto molto: avere a che fare con lei non era certamente piacevole, ma in fondo al suo cuore si era anche sentito meno solo.
Da quel momento era sempre stato un andirivieni dentro e fuori dall’ospedale, per essere monitorato e tenuto sotto controllo dai medici, ma forse per la sua giovane età non ne aveva mai percepito il peso. Una sera però, si era svegliato per andare in bagno e aveva visto di nascosto la mamma e il papà piangere silenziosamente in camera da letto, stretti l’uno all’altra, mentre il suo cuore lentamente iniziava a realizzare.
Gli anni erano passati, era ormai divenuto adolescente e quella presenza opprimente invadeva la sua realtà, annebbiandogli la vista e ottenebrandogli le narici con il suo odore disgustoso. Era così giovane, ma adulto abbastanza da comprendere che forse non avrebbe mai raggiunto l’età per poter vedere i propri figli venire alla luce e assisterli nella germogliazione e maturazione delle loro vite. Forse per questo motivo, amava tanto la fine e sottile ironia dalle risate amare, così come amara era la presenza che gli faceva visita, donandogli un seme di agave. Agave, l’unica pianta che muore dopo aver permesso al suo unico e singolo fiore di nascere. Lui si sentiva forse un po’ come lei.
Aveva comunque continuato a vivere, desiderando sempre più spesso però di farsi portare via da quella presenza, di farsi giustiziare da quel boia dagli occhi colmi di astio, finché non aveva incontrato la donna di cui ora stringeva la mano, la stessa che ora lo guardava con occhi ricolmi di lacrime, pronte a sgorgare da quella sorgente pura e dal profumo di anemone. Lui le aveva asciugato le lacrime con delicatezza, ma le aveva confessato sommessamente che forse non sarebbe stato giusto nei suoi confronti principiare qualcosa che principio non avrebbe mai posseduto. Non avrebbe potuto darle un futuro, forse nemmeno un figlio. Non voleva torturarla in quel modo, sarebbe stata una mossa egoista. Lei, forse mossa da quel sentimento che ormai aveva rivelato a sé stessa, forse mossa dalla follia, non aveva pensato di abbandonarlo, nonostante le sue dolci premure, lei non voleva che quel sentimento sbocciato alla luce del sole tornasse nel luogo privo di raggi d’alba e senza speranza dove era stato rinchiuso fino ad allora. Conosceva i rischi, conosceva le conseguenze. Ma i suoi occhi da bambina avevano visto il canarino spezzare la propria prigione, i suoi occhi da bambina avevano conosciuto per la prima volta quel sentimento che non voleva più lasciare andare alla deriva, in balia del vento gelido di inverno. Desiderava calore. Forse per la prima volta nella sua vita.

La gentile brezza mite del mattino si era ora alzata.

Bisognava tentare di vivere.

L’alba di un nuovo giorno era sbocciata, meravigliosi i suoi petali. Le loro mani ora congiunte si affacciavano al timido sole primaverile, che li salutava con amichevole armonia. Si erano stretti l’uno all’altra e poi avevano preso a camminare verso la luce, tenendosi per mano.

La vita aveva acquisito nuovamente quei colori e quei profumi intensi, sgargianti. Tutto appariva uscito da un quadro impressionista, le pennellate fugaci di un pittore che all’aria aperta dipingeva la sensazione di serena frenesia, le forme abbozzate perché tutto dovesse stare alla fantasia dell’osservatore. I loro sguardi si inseguivano per le strade, giocando a nascondino, mentre le loro dita intrecciate come edere erano il memento della loro unione. I loro sorrisi si contemplavano impazienti di potersi assaporare ancora una volta.

Tutti i loro colleghi ormai erano venuti a conoscenza della loro frequentazione, ammirando increduli, e forse anche con una punta palpabile di invidia, quella donna rigida e inflessibile che ora, avendo compiuto la sua metamorfosi, risplendeva dei colori più caldi e sgargianti.

Non vi era momento in cui non si cercassero con lo sguardo, momento in cui non desiderassero fare ammenda per il tempo perduto, inesorabilmente consumato tra le dune della sabbia nella clessidra di Crono.

Le giornate erano riempite dal loro profumo, la quintessenza dalla concezione alchemica, dal quel sentimento sentito lungo i sentieri dei loro cuori. Sospinti. Sospiro. Alito di vento. Ventura. Amore.

Fulgidi bagliori lungo le strade, il sapore dolce e fresco del gelato, il cinguettio dei passeri sugli alberi e un gatto addormentato all’ombra di una siepe, al riparo da sguardi indiscreti.

Il sapore di quei baci rubati lungo il viale.

Avevano trasceso il tempo, lo spazio, la materia, tanto da non rendersi conto del passare del tempo, che in quel turbinio travolgente di sensazioni avevano forse offuscato la cognizione dei giorni che trascorrevano perpetui e in moto continuo. Settimane. Mesi. Anni.

Lui giaceva sulle ginocchia di lei, nella loro splendida casa dallo stile un po’ antiquato. Lei lo aveva baciato sulla fronte, prima di alzarsi e tornare poco dopo con una tazza di cioccolata calda e un paio di marshmallow, rigorosamente alla fragola.

Quella presenza era tornata a spiarlo di tanto in tanto, ma lui aveva sempre avuto la forza e la lucidità di respingerla, non aveva più osato attaccarlo; ma era circa una settimana che percepiva in sé un pesante intorpidimento, le palpebre gli imploravano di chiudersi per poter riposare, dormire, concedersi un sano e meritato riposo dopo tanti sforzi.

Masticando uno dei suoi marshmallow, con la testa leggermente poggiata sul grembo della sua amata, ora riusciva a scorgerla più nitidamente accanto a sé: pur mantenendo quell’aria solenne, non pareva più così minacciosa ora. La figura del boia lentamente e come d’incanto era ora mutata, assumendo le fattezze di una piccola bambina dai capelli dorati. Gli tendeva la mano, paziente e posata.

Memento mori.

Ma senza rimpianti.

Aveva teso il braccio verso la donna, carezzandole con infinita dolcezza la guancia, con occhi socchiusi e un sorriso infantilmente fanciullesco dipinto su quel volto sul quale era possibile scorgere un paio di rughe. Lei aveva risposto a quel gesto sorreggendogli il polso con presa amorevole, sorridendogli a sua volta amabilmente, mentre una lacrima solcava soave il suo viso: era una bellissima e struggente fotografia la sua espressione, dal fascino di una istantanea, impressa sulla pellicola con tutta la sua umanità.

Le aveva asciugato quel piccolo cristallo brillante che sgorgava dai suoi occhi e lentamente la aveva baciata, mentre prendeva tra le sue mani quelle della bimba, chiudendo pacatamente gli occhi, lasciandosi guidare da lei, sulle note di quel lontano pianoforte a coda.


Quella presenza andava ora dissolvendosi, miscelandosi e fondendosi assieme alle forme enigmatiche e incomprensibili prodotte dal fumo che si innalzava torpidamente dalla tazza colma di cioccolata calda, in cui erano immersi morbidi marshmallow alla fragola. I suoi preferiti.

Quel giorno aveva sentito che l’ectoplasma non faceva più paura.

Era stato felice.
 


Hello! Finalmente pubblico qualcosa di nuovo dopo alcuni mesi. Sono stata particolarmente ispirata dal contest in questione e appena ho trovato qualcosa di particolarmente affine al mio stile mi sono decisa. È stato un lungo viaggio, questa storia. Spero di essere riuscita a trasmettere al meglio ciò che sentivo e spero di trasportarvi su questa mia modesta montagna russa di emozioni.
Sarei felice di ricevere qualche parere, ma ringrazio infinitamente anche solo chi offrirà il suo tempo per leggere.
Enjoy!
Child of the Moon

 

   
 
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