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Autore: Anonimadelirante    11/06/2022    0 recensioni
[The Politician]
«Dimmi una cosa. Ti sei ucciso per colpa mia?»
«Non sono Giulietta, Payton. E non mi sono ucciso a causa tua. Il mondo non gira attorno a te, sai?»

[Netflix] [Payton Hobart/River Buckley] [post 1x01]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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(just a ghost) 
you walk right through

 

 

I made my baby cry.
He tried hard to help me,
He put me at ease.

He loved me so naughty,
made me weak in the knees.
Oh I wish I had a river I could skate away on.
I'm so hard to handle,
I'm selfish and I'm sad.
Now I've gone and lost the best baby
that I've ever had.

(Joni Mitchell, River)

 

 

«Dimmi una cosa» mormora Payton, con la voce impastata dal sonno. «Ti sei ucciso per colpa mia?»
River sorride, nella luce dorata della stanza. Ha le guance rosse e i capelli spettinati e Payton non ha mai visto in vita sua nulla di più bello – non c’è altro modo per descriverlo, River. Bello, bellissimo, in una maniera quasi ingiusta, irreale. Dopo il sesso, ancora di più. Socchiude le palpebre, lentamente, e si gira a guardarlo: «Come?»
«Sì» Payton si tira a sedere di scatto, le labbra secche, la gola strettissima, il cuore che tutto d’un tratto gli batte all’impazzata: «Ti sei sparato per me?»
River sbatte le palpebre, ed ha il coraggio di sembrare stordito: «Ma se ho detto a tutta la scuola che avevo già tentato di--»
«Lo so. Lo so, okay? Ma non riesco a togliermi dalla testa che tu volessi che ti vedessi, che tu volessi che io fossi . Perché altrimenti l’avresti fatto dopo che me ne fossi andato o prima che arrivassi o in qualsiasi altro momento della giornata o--»
River lo guarda, da sotto in su, con un sorriso minuscolo ad increspargli le labbra – Payton lo conosce, quel sorriso: è quello che ha quando è divertito da un suo comportamento o, peggio, quando ne è intenerito: «Che c’è» ringhia, quindi, interrompendosi. River non lo ha mai interrotto. Mai una volta in tutta l’estate. In tutto l’anno scolastico. In tutti i mesi che sono preceduti alla sua morte. Avrebbe potuto. River aveva questo potere, su di lui – faceva questa cosa, con le sue emozioni, gliele tirava fuori a forza, come se fosse stato una calamita o un eccesso di alcool: si sentiva sempre come avesse dovuto vomitargliele addosso non appena lo vedeva, tutte, subito; qualunque sentimento avesse mai provato nella sua intera esistenza, River lo rendeva autentico ed attuale, gli cacciava due dita in gola e scavava fino a fargli rigettare ogni briciola di vulnerabilità ovunque, sul pavimento, fra loro, su di lui. Non lo interrompeva mai. Avrebbe potuto. Alice lo fa spesso, quando comincia ad iperventilare e ad andare nel panico e descrivere ogni possibile scenario apocalittico per colpa del quale la sua (loro) carriera politica potrebbe arenarsi e schiantarsi contro le rocce delle avversità – gli prende il viso fra le mani, lo costringe a voltarsi, gli preme la bocca contro le proprie labbra. Non sono veri e propri baci, sono più bavagli, silenzi imposti per dargli il tempo di tornare a respirare. River avrebbe potuto farlo – aveva un certo talento nel mozzargli il fiato – ma ha sempre lasciato si scaricasse da solo, esaurisse tutto ciò che aveva da dire. È un metodo come un altro, suppone.
Così, Payton si interrompe da solo, con River, come sempre: «Che c’è?» ripete, un po’ più alto, un po’ più isterico, e per buona misura gli tira anche un calcio da sotto le lenzuola.
«Niente» replica River, ma ha il naso arricciato e le labbra premute contro i denti e gli occhi che brillano di quando si sta disperatamente trattenendo dal ridere. Fino a quando non ce la fa più e scoppia davvero, così alto e genuinamente allegro che per un attimo Payton accarezza l’idea che per una volta potrebbe non essere l’unico a sentirlo. «È solo che--» soffia River respirando appena contro il cuscino. «Come puoi pensare che possa essere stata colpa tua?» allunga una mano per dargli un buffetto sul naso. «Sei così egocentrico» lo rimprovera bonariamente.
«Che cosa c’entra questo. Non ti sto dicendo che ti sei ammazzato perché non potevi stare con me, ovvio che non la penso così, non siamo in una tragedia shakespiriana, sto solo dicendo che il fatto che fossi presente è strano perché-- non lo so. È per questo che te lo sto chiedendo. Perché, River? Perché?»
«Magari è così. Magari sono Giulietta» River sta ancora sorridendo, da sdraiato, i capelli scuri contro il bianco accecante della federa, lo sguardo che è miele che cola sul suo stomaco, un fremito, sulle guance, che sa di presa in giro. «Magari mi sono ucciso perché non avresti mai lasciato Alice per me.»
«Tu non hai neanche pensato di lasciare Astrid per me!» scatta Payton, ritirandosi nella sua parte di letto, quella fredda, lontana dal centro e dal corpo bollente di River. Non sa se la supposizione lo abbia precisamente ferito – non riesce mai a processare le emozioni che River gli costringe fuori dal petto, non prima di rovesciargliele addosso come melma – ma il cuore gli si stringe in una morsa dolorosa, all’idea. È solo gelosia, comunque. Possesso. Niente di più.
«No, è vero» ammette River candidamente, senza traccia di rimorso nella voce. «Ma è vero anche che a volte pensavo di volerti molto più di quanto tu volessi me.»
«Questo è-- questo è stupido, perché io non riuscivo… non riuscivo mai a pensare lucidamente, non pensavo affatto quanto ero con te e tu--»
«Tu hai James. E Alice e McAfee e il tuo sogno. Sei sempre così occupato
Payton sbatte le palpebre, le ciglia pesanti di lacrime che non sa quando ha cominciato a versare: «E tu volevi solo morire» completa per lui.
«Non è vero» sbuffa River, con nulla più che vago fastidio, a venargli le parole. «E tu lo sai. Non puoi ridurmi ad un cartonato con manie suicide solo perché sono una proiezione nella tua testa. Mi sembrava fossi tu ad aver detto che non bisogna chiudere le persone nelle scatole.»
«E allora perché l’hai fatto? Se non è stato per me e se non è stato per mancanza di un’assistenza psicologica competente, cosa che per inciso è fra i primi punti della mia campagna elettorale» respira, respira, respira «Perché mi hai lasciato solo?»
«Non sei mai solo, Payton» mormora lui in risposta. E poi ripete: «Hai Alice, hai McAfee, James, adesso hai anche Infinity e--»
«Sai cosa intendo.»
River sorride di nuovo, questa volta un po’ più piccolo, un po’ più mesto, quasi affranto. Si tira su con un braccio, si tiene in bilico su un fianco con l’avambraccio, e con l’altra mano gli accarezza il viso. Sembra una statua neoclassica infusa di vita da un incanto di icore divina. Payton, a volte, si chiedeva se lo amasse così tanto solo perché ama le cose belle. Per puro edonismo, un senso estetico allenato in anni di mostre ed aste di antiquariato. Quando era vivo. Quand’era estate. Quando le elezioni e la presidenza e la scuola erano miraggi lontani, nello spazio e nel tempo, nulla più che sogni sfocati. Quando erano entrambi vivi e ansanti, pucciati nella calura del suo giardino, nascosti dai cespugli di rose di sua madre. Quando sembrava così semplice non ricordare affatto che consistenza avessero le labbra di Alice, se ogni pomeriggio aveva il sapore della pelle di lui. Adesso, sa che non è così. Adesso che River è morto e lui l’ha visto con la testa scoppiata, capelli e sangue e cervella sul pavimento, a mala pena ricorda com’era credere di amarlo solo per il gusto di provare il piacere di guardarlo immerso nella calda luce di agosto. Adesso sa che lo ama per come si sentiva riflesso nei suoi occhi – non potente, non quello giusto, non abbastanza, ma bellissimo e fragile e vulnerabile e senza paura.
«Non sono Giulietta, Payton» lo sta rassicurando a voce bassissima. «E non mi sono ucciso a causa tua. Il mondo non gira attorno a te, sai?»
Potrebbe dirlo in milioni di modi diversi, nessuno dei quali dovrebbe suonare come una consolazione, ma è River, per cui non può che esserlo.
«Ti amo così tanto» singhiozza Payton. «Non… non so spiegarlo, non so dire perché e non so dirti come, ma ti amo-- ti amavo… ti amo così tanto» ed improvvisamente non può più smettere di piangere. Non può. Si stringe le gambe al petto e preme il volto contro le ginocchia e singhiozza senza fiato. Ha sempre odiato piangere: è una faccenda disordinata e scomoda, e non risolve quasi mai nulla, a meno che non serva a muovere a compassione qualche idiota particolarmente sentimentale. Ma con River non gli è mai riuscito di non farlo. A volte gli sembra di non aver fatto altro da quel loro primo incontro nel gazebo vicino alla piscina, con sua madre a pochi metri, e l’odore del cloro e dei fiori e delle tempere e River che sorride – imperituro nel ricordo cristallizzato nel tempo – e chiede Dov’è il bagno? in due lingue diverse. Gli sembra che sia da allora che trema e piange senza smettere mai, un pianto lungo una vita, sommesso, isterico, senza fine, dolcissimo.
«Non credo dovresti vergognarti di piangere, Payton» gli aveva detto una volta, quand’erano appollaiati sul davanzale della sua camera e lui si sforzava di non versare lacrime giustificate solo dal trovarsi accanto a lui. «Il mondo pretende che gli uomini non piangano mai, ma non capisco perché debba essere permesso alle donne e a noi no… voglio dire, io ho emozioni, tu hai-- io mi sento scoppiare continuamente dalla tristezza, dal dolore. A volte, dalla felicità. Perché non dovrei dimostrarlo?»
«Perché le donne non hanno avuto diritto di votare solo a metà del secolo scorso?» aveva tentato Payton, ridendo fra le lacrime. «Sai, par condicio anche nella mancanza dei diritti-»
«Non lo so» aveva riso anche River. «Ma sembra sensato» e lo aveva baciato. E baciato e baciato e baciato. Sulle labbra e sul collo e sulle guance bagnate e sulle palpebre.
Se River fosse qui, adesso, se fosse vivo, se fosse vero, lo bacerebbe. O qualcosa del genere. Questo River, invece, si agita un po’ sulla sua parte del letto: «Payton» tenta, ma Payton lo blocca: «No! No, tu devi spiegarmelo, perché-- perché io… perché sono giorni non riesco a dormire e non riesco a capire e continuo vederti-- a vederti morto e io… voglio sapere perché l’hai fatto-- perché me l’hai fatto. Dammi una buona spiegazione o continuerò a pensare che sia stato a causa mia.»
River sbuffa – sbuffa davvero, come se la loro conversazione prevedesse lo sbuffare come reazione umana: «Smettila» gli mormora sui capelli, nulla più che un respiro contro la testa. Gli preme le labbra contro la fronte, gli accarezza il viso. Ora è così vicino che potrebbe baciarlo lui stesso. Non lo fa. Chiude gli occhi, invece, e si lascia cullare dal sonno – è quello che fa quando non riesce a dormire: giacere immobile con gli occhi serrati fino a quando non dorme davvero. Finge col suo stesso cervello di essere in dormiveglia. A volte funziona.
«Non puoi semplicemente rispondermi? Perché volevi che fossi lì?» si sente biascicare, ma da lontanissimo, come se stesse precipitando in fondo ad un tunnel.
«Non tutti fanno tutto per un motivo, Payton» potrebbe replicare River. Che decisamente non è una risposta.


Quando si sveglia, è sera. Dalla finestra aperta scivola un freddo strisciante, umidiccio, che gli pizzica la pelle fino a quando non è del tutto cosciente. Poi, lo è d’improvviso. Apre gli occhi con uno scatto, un sussulto nel petto.
«Un incubo?» domanda River, da qualche parte alla sua destra.
Payton non risponde. Ingoia a vuoto una due tre volte e non dice Sempre lo stesso, perché sarebbe inutile. Gli sembrano inutili molte cose, ultimamente. Sbatte le palpebre, invece, si stropiccia il viso che pizzica di lacrime asciugate contro il cuscino, sbadiglia.
Non serve a nulla, però: quando si volta, River è ancora lì. C’è qualcosa di dolcissimo, in lui, nel modo in cui è abbandonato senza difese contro la testiera del letto, in quello in cui le lenzuola gli si drappeggiano addosso, facendo un lavoro migliore nel lasciarlo scoperto che a coprirlo, con la stessa grazia, la stessa mancanza di pudicizia di una Maddalena di Artemisia, in quello in cui i suoi occhi azzurri brillano nella penombra della stanza, la luna che si riflette in loro. Per un unico, tragico, glorioso istante Payton lo odia – lo ha odiato così tante volte, per lo stesso motivo per cui ha temuto d’essersi innamorato di lui. Si sbagliava. Ora sa perché lo amava. E ora sa perché lo odiava: non perché era perfetto, e bellissimo e francamente incredibile – così intelligente, e buono e splendido – no, perché era irraggiungibile. Molto più che una presidenza, comunque – gli elettori si possono convincere, comprare, sedurre. River poteva solo ammirarlo, da lontano, invidiarlo, accarezzarlo, baciarlo, tenerlo in bocca, pesante e duro e un po’ salato, caldissimo, contro la lingua, fino a strozzarcisi, o dentro di sé, ma null’altro: non ha mai potuto intrecciare le dita alle sue ed essere sincero.
«Mi dispiace» dice River.
«Smettila» sbuffa Payton, studiando il soffitto, improvvisamente travolto da un moto di nausea, da tutta la rabbia incandescente che non è riuscito a provare mentre tornava a casa sporco di sangue o durante la funzione funebre. «Non vuoi dirmi perché hai deciso di ucciderti davanti a me? Benissimo. Ma stai zitto. Vattene.»
Come ha osato farlo? Come si è permesso di dirgli quello che gli ha detto e poi spararsi? Come ha potuto insegnargli ad amare e poi spezzargli il cuore? Non ha pensato al sapore ferroso del sangue nella sua bocca, all’odore amaro delle cervella bruciato per sempre nelle sue narici, alla t-shirt a righe bianche e blu irrimediabilmente rovinata, ma chiara per sempre da quella giornata da incubo? Ingoia a vuoto, di nuovo, e si alza per chiudere la finestra.
«Non cambierebbe nulla» mormora River, sempre alle sue spalle, sempre ad un passo da lui, nell’angolo dell’occhio, sempre appena ad un respiro di troppo. «Non sono davvero qui. Non saprai mai qual è il vero motivo. Non te l’ho detto, prima di spararmi» suona ridicolmente ragionevole, per essere un fantasma della sua mente straziata dalla privazione del sonno. Singolarmente realistico.
Payton sente la rabbia dentro di lui montare come un’onda durante l’alta marea: «È questo il punto! Perché non l’hai fatto?» e come un’onda ritrarsi altrettanto repentinamente. Sospira. Appoggia la fronte al vetro appannato, chiude gli occhi: «Lascia stare.»
«Sono stato egoista» sussurra River e Payton quasi alza gli occhi al cielo. È un idiota. 
«Piantala.»
«È la verità. Sono stato egoista.»
«Non sei capace di essere egoista, River» sbuffa, esausto, voltandosi – finalmente: River è ad un passo da lui. Ha una maglietta, adesso, una t-shirt bianca semplicemente ingiusta, che gli accarezza i muscoli come i drappi della Nike di Samotracia le modellano le forme.
«Invece sì» sospira lui, e alla penombra nella stanza sembrerebbe quasi imbarazzato se non fosse che è River – e River non è stato programmato dalla divinità che l’ha assemblato a sua immagine e somiglianza per provare vergogna dei propri sentimenti, non nell’esperienza di Payton, almeno. E questo River è totalmente frutto dell’esperienza di Payton. Quindi. È solo un po’ strano, ecco tutto. «Non volevo… per tutta la vita mi sono sentito così solo, Payton. Avevo Astrid e avevo i miei genitori, eppure… non riuscivo a non sentirmi solo. E poi sei arrivato tu. E non è che non mi sentissi più solo, ma-- quando ero con te non lo ero, non… non nello stesso modo di quando lo ero con gli altri. Era come se…» si blocca. Respirano appena, entrambi, occhi negli occhi, a meno d’un sospiro da un bacio, e: «Tu capisci la mia solitudine, Payton, l’hai sempre fatto» soffia River, tristissimo, dolcissimo, struggente come solo l’eco di un ricordo può essere. «Ed essere soli in due è un po’ meno doloroso. Non volevo morire solo. Tutto qua. So che a scuola ho detto che era inevitabile, ma… Mi dispiace di averti amato al punto di desiderare… Non avrei mai voluto ferirti» chiude gli occhi. Payton lo fissa, ansante. Guarda il suo volto illuminato dalla luna e ascolta il proprio respiro uscire sputacchiato a scatti dai polmoni strizzati. «Ho letto da qualche parte che amare significa distruggere ed essere amati essere distrutti» bisbiglia alla fine River, voltandosi per dargli le spalle.
Payton ride – la propria risata lo coglie di sorpresa, lo fa sobbalzare: è strana e deformata dalla gola stretta in nodo gordiano, ed è troppo alta, acuta, falsa persino alle sue orecchie. «Sì, su un patetico young adult comprato al supermercato» sibila.
River sta zitto per un lungo momento. Si siede di nuovo sul letto, alza gli occhi – azzurri d’un azzurro che lo affoga – e ripete, solo: «Scusami. Non avrei mai voluto ferirti.»
Payton lo segue come un automa, s’ infila sotto le coperte, torna a fissare il soffitto: «Non ti perdonerò mai per le tue letture scadenti» decreta alla fine, anche se River non si stava scusando per questo. River non si è mai vergognato dei propri sentimenti e non gli ha mai nascosto i propri guilty pleasure – e non è mai stato al gioco, non quando Payton tentava di plasmare a parole i loro discorsi per sviare strane conversazioni a cuore aperto. È sempre stato così frustante. Neanche questa volta lo fa, ovviamente – Payton non è bravo in molte cose, ma soprattutto non è bravo a concedersi un po’ di sollievo: «E potrai mai perdonarmi per averti fatto questo? Per averti costretto ad assistere alla mia morte?»
Si prende il suo tempo, per rispondere, ma quando lo fa è sincero: «Non lo so. Forse. Credo di-- credi di sì. Alla fine. Non credo che potrò mai perdonarti di essere morto, però.»
River ci pensa su per qualche istante: «È giusto» ammette alla fine, disarmante come ogni volta che apre bocca, sdraiato accanto a lui, su un fianco, l’avambraccio piegato sotto la testa per sorreggersela. «Me lo merito.»
«Sì» borbotta lui per tutta risposta, costringendosi a chiudere gli occhi, fare respiri profondi, non piangere, uno due tre. «Sei un vero stronzo.»
La risata a labbra strette di River gli si riversa contro il collo, lungo la spina dorsale, lo costringe a cercare di nuovo il suo sguardo. Quando la punta del suo naso sfiora quello di River, River gli sorride con gli occhi: «Come mai ti interessa così tanto?» lo pungola, come lo stronzo che effettivamente sa essere. Non diventi il più popolare del liceo solo essendo amabile. Non è così che funziona.
È una domanda così stupida e lo è per così tante ragioni diverse che Payton si sente il viso in fiamme per la rabbia e qualcos’altro che non riesce – non vuole – ad identificare: «Astrid» sputa alla fine. Non è del tutto vero. Si conosce. Anche senza Astrid se lo sarebbe chiesto comunque, alla fine. È una domanda intelligente. Di più: è una domanda legittima. E ancora: è una domanda che gli faranno – magari domani, magari fra tre giorni, un anno o dieci, sul suo account twitter moderato da McAfee o durante un’intervista o un dibattuto elettorale o quando parlerà col suo ghostwriter per il libro di memorie che pubblicherà dopo il suo secondo mandato, ma qualcuno, prima o poi, gliela porrà. E lui dovrà essere preparato a rispondere. Chi era River per te, perché eri lì? Non perché lui era andato a casa sua – a questo ha già risposto alla polizia, il mandarino, ovviamente, e le elezioni – no: perché lui l’ha fatto mentre eri lì. Chi eri tu, per River? Vita e menzogne di Payton Hobart, in esclusiva! Payton non si illude che non accadrà. Quindi: non è stata esattamente Astrid, ma Astrid è stata la prima. Non a chiederglielo, ma a fornirgli una risposta, questo sì: «Lei dice-- crede sia stata colpa mia» ammette, schiarendosi la voce.
«E tu le credi?» sbuffa River, accarezzandogli piano il viso.
«Non lo so» replica con voce così bassa che a mala pena riesce a sentirsela. «Non lo so davvero.»
River respira pianissimo, lieve come l’incresparsi del mare in una baia: «Astrid è una stronza. Ovviamente l’ha detto per farti sentire in colpa.»
«Tu la amavi!» sibila Payton, e non ha idea del perché ci tenga tanto a specificarlo, ma che importa? È la verità. Il vero River non direbbe--
«Amare una persona non significa non vederla per quello che è. Significa accettarla, per quello che è.»
«Allora forse io non ti amavo» tira su col naso lui, e non sa se lo dica più per ferire River o per ferire sé stesso.
«Va bene» gli mormora in risposta. «Non sei mai stato costretto a ricambiare i miei sentimenti.»
«Non ti dirò che non puoi amare sia me che Astrid allo stesso modo e nello stesso momento, perché sono un uomo civilizzato cresciuto per la maggior parte nel ventunesimo secolo e il poliamore è una cosa, ma» prende fiato «non puoi dire di amarmi.»
«E perché no?»
«Perché non vale, se a dirlo è un idiota morto» e se la voce gli si incrina appena, né lui né River accennano al fatto. «Perché non sei lui» soffia in un singulto doloroso del petto.
«D’accordo. Ma non sono io a dirlo. È stato-- Sono stato io. Quand’ero vivo.»
«Le persone mentono, River.»
«Non sempre.»
«Neanche tu eri sempre sincero! Quanto tempo ci hai messo, a dire ad Astrid di noi due?»
Sa che è un colpo basso. Lui non ha mai detto ad Alice di loro. Di più. Lui era stato furioso e ferito e terrorizzato, quando River l’aveva detto ad Astrid.
Adesso, River potrebbe rinfacciargli ognuna di queste cose e molte altre, ma si si limita a lanciargli un’occhiata vagamente contrariata. È sempre così buono, con lui: «Con te. Con te sono sempre stato sincero. Ero sincero. Ti amo. Ti ho amato così tanto--»
«Sta’ zitto» lo interrompe Payton e sta di nuovo strizzando gli occhi per impedirsi di piangere.
«D’accordo» sussurra River in un sospiro di vento. Payton si alza di nuovo. Apre la finestra. La richiude. Questa volta si assicura di averlo fatto per bene.
Quando torna a letto, si gira dall’altra parte, gli dà le spalle, e combatte la sensazione di essere solo sotto la coperta. L’emicrania che corteggia da tutto il giorno, il motivo principale per cui si è chiuso in camera di primo pomeriggio a masturbasi come un qualsiasi adolescente in crisi ormonale, torna ad aggredirlo alla nuca, rosicchiandogli via le ultime briciole di sonno.
«Dormi?» mormora dopo quelli che sembrano secoli. Sa che è una domanda stupida, ma vuole sentirlo parlare. È abbastanza patetico, ma non deve concentrarsi per forza su questo fatto. (Lo fa. Non ha alcun tipo di talento, per l’autoindulgenza. James una volta gli ha detto, non si ricorda in quale contesto, Cristo, Payton, prenditi una pausa. River cercava sempre di spiegargli quanto fosse importante essere gentili con sé stessi. Un po’ ipocrita, da parte di uno che si è sparato, ma immagina sia vero il detto: chi predica bene, razzola male.)
«E tu?» sussurra lui in risposta, perché è ovvio che non dorma. È morto. Di più – non esiste, se non in funzione dei suoi incubi e dei suoi sogni e dei suoi pomeriggi più solitari e depressivi, ai suoi episodi di dissociazione più preoccupanti.
«Non posso
Le mani di River sono sulle sue spalle e sulla sua pelle e non lo colgono di sorpresa solo perché l’ha immaginato e vissuto milioni volte. «Possiamo rimediare?» gli sorride sulle labbra.
Non puoi rimediare all’esserti ucciso, rimbalza nella testa di Payton, ma poi sente le dita di River scivolargli sul ventre e tutto quello che riesce ad articolare mentre si spinge nella propria mano è un: «Non credo» davvero poco credibile persino alle proprie orecchie.
River gli ride contro il collo e poi lo bacia. Non ha il sapore ferroso del sangue, in bocca. (Non ce l’ha non ce l’ha non ce l’ha. In questo è molto bravo, invece: a mentire. A sé stesso, prima ancora che agli altri.) Ha il sapore di certi pomeriggi estivi passati a baciarsi mollemente petto contro petto, sussurrandosi sulle labbra parole in mandarino. Ha il sapore delle lacrime. Ha il sapore di cloro e tempere e sole, in qualche modo che non può essere del tutto corrispondente alla realtà, ma non importa. Sa solo di sé stesso – di River: la sua saliva ed il suo odore, il suo sudore sulla pelle. Payton si accorge vagamente di starsi masturbando con un’urgenza che appartiene al proprio corpo, ma non alla sua testa, e di star iperventilando appena e di non essere sicuro del perché – se ne accorge lui, ma prima, ovviamente, se n’è accorto River: River che lo accarezza lentamente, contrastando le sue spinte, e mormora: «Shh, Payton, sei qui con me?» sul suo petto.
«Sei tu a non essere qui» gli ringhia contro la bocca, intrufolando la lingua oltre la chiostra dei suoi denti bianchissimi, ficcandogliela in gola con rabbia, nessuna sensualità, solo per mozzargli il respiro, soffocargli le parole in cola, lasciarlo stanco e stordito e senza ragione come si sente lui.
«Ma sono qui.»
«Non è--» tenta di spiegare, ma si strozza con il suo stesso fiato mozzato, e colpisce un punto, sul suo pene, una vena in rilevo, con l’angolo smussato dell’unghia del pollice. Per qualche motivo – la sorpresa o il lieve dolore o l’ombra d’un ricordo più sensoriale che fattuale – lo fa contrarre, perdere completamente la concentrazione su quello che stava cercando di comunicargli. Non che importi. Si volta nelle lenzuola pulite, invadendo apposta il lato che ha riservato all’illusione di River per tutto il pomeriggio. E morde un gemito contro il cuscino.
In qualche modo che la sua mente non trova la forza di cercare di giustificare con un movimento fisicamente sensato, River è ancora lì, però – sempre lì. Di fronte a lui, questa volta, in piedi e vestito di tutto punto, polo verde e pantaloni d’un beige così chiaro da sembrare bianco, le mani appoggiate alle colonne in legno laccato del letto a baldacchino, che lo scruta con un affetto soverchiante, impossibile, quasi incuriosito. Payton chiude gli occhi e singhiozza – dal piacere, dal dolore, dal bisogno. Finge di non vederlo. Finge che non ci sia, anche se c’è.
(Non c’è, ovviamente, ma per qualche ragione non riesce ad impedirsi di--)
«Cosa stai facendo, esattamente?» gli domanda dopo un istante di contemplazione, perché è River, ed è un idiota e gli piace porgli domande che gli scavano nel cervello per giorni, poi, cercando risposte più profonde di quelle che sembrano appropriate ad un qualsiasi contesto.
«Cosa sembra che stia facendo?» sbotta lui, quasi querulo. «Hai bisogno di un libro con le figure illustrate? O--»
River alza gli occhi al cielo, con quel suo sguardo benevolo ed esasperato ad un tempo che soleva rivolgergli quando Payton travisava di proposito le sue parole. Circumnaviga il materasso, gli si siede accanto per accarezzargli la fronte sudata – per qualche motivo su cui non è in grado di concentrarsi, la tenerezza del gesto in assoluto contrasto con l’urgenza con cui si sta toccando lo spinge oltre il limite, lo costringe a mordersi forte la lingua per non dire niente di stupido, mentre si lascia travolgere impotente dall’ondata di piacere che gli strappa il fiato.
River gli culla il viso, mentre Payton prende boccate d’aria in risucchi rumorosi, un po’ troppo simili a singhiozzi per i suoi gusti. E poi, gli passa un pollice sul sopracciglio destro, là dove gli martella incessantemente l’emicrania da questa mattina, e sorride, piccolo, di sguincio, come un segreto che rimarrà fra loro: «Non è tardi, sai. Saranno a malapena le dieci. Dormi un po’, domani starai meglio.»
Payton respira e respira e respira, seguendo il su e giù e su del petto ridicolmente largo e scolpito di River, e poi scuote la testa, ma debolmente, le ciglia che sfarfallano: «Devo--» comincia, cercando di districarsi dalle lenzuola sudate e sporche, passandosi la mano sulla coscia per pulirsi, la pelle in fiamme, ancora iper-sensibile. «Devo--»
«Domani» stabilisce River, con un’assertività che non gli è mai appartenuta in vita.
E una volta James gli ha detto Cristo, Payton – e McAfee ha alzato gli occhi al cielo ed Alice ha sbuffato esasperata, e sono sembrate entrambe d’accordo con lui – prenditi una pausa.
E River gli premeva sempre la bocca contro le sue labbra serrate, e poi sul naso, e sulle palpebre, piano, dolcemente, schiocchi che li facevano ridacchiare come gli sciocchi ragazzini innamorati che non avevano ancora realizzato di essere in effetti. Devi imparare ad essere più gentile con te stesso. Senti, in mandarino c’è quest’espressione che suona più o meno--
Così Payton sospira ed annuisce chiude gli occhi e s’addormenta con la sensazione di un bacio fantasma sulla fronte, ed una voce di cui, per quanto si sforzi, non riesce a riprodurre del tutto  ogni sfumatura d’impossibile dolcezza: Dormi un po’, domani starai meglio.

 



 

 

 

N/A: ((so che sembrano infinite, ma le note davvero importanti sono all’inizio e sono brevi, i promise)) — questa OS si colloca tipo prima de L’omicidio di Payton Hobart pt 2..? Forse anche prima de L’omicidio di Payton Hobart pt 1. Direi, più o meno, fra la seconda e la terza puntata…? Non che importi molto, basta che sia prima della scena che sapete voi, abbracciarti è come abbracciare una cassa da spedizioni >>> best complimento evah.
— L’ho scritta tipo nel 2019 e poi me ne sono dimenticata, perché è più o meno così che faccio sempre. Oggi, completamente a caso, senza alcun input individuabile, me ne sono ricordata e siccome la procrastinazione è la mia miglior virtù, ho deciso di pubblicarla invece di studiare. Yaz. È per questo che sono una persona di tale successo.
— Title @Sufjan Stevens, all of me wants all of you con le parentesi a cazzo, come mio solito.
((Scrivo note sulla OS, perché poi ne seguono una quantità esagerata ed esagerate entusiasta sulla serie in sé.)) ((Sbrodolo di sentimenti di cui sentivo il bisogno dopo che ho finito la prima stagione e che, apparentemente, sento ancora il bisogno, dopo tre anni e la seconda stagione, di convivere col prossimo. Vbb.))
Credo sia importante, o almeno lo è per me, sottolineare la differenza fra la domanda che pone Payton a River in questa fanfiction: perché ti sei ammazzato davanti a me?, e quella che gli pone davvero nello show – perché ti sei ammazzato? Le parti che ho amato di più, anche se mi riesce difficile indicare una parte che mi sia piaciuta di meno, sono quelle in cui Payton prova emozioni e non se ne rende conto, salvo poi esplodere. Quelle che rendono evidente la lentezza con cui scopre la sua parte emotiva e l’automatismo con cui razionalizza tutto ciò che prova. Per cui mi pare plausibile che, ipoteticamente, prima si chieda cosa c’entri lui – l’abituale egocentrismo di cui è affetto durante l’intera durata della serie, a parte in qualche momento durante il finale, che va di pari passo con (e non può esistere senza) la sua ambizione – e solo in seguito quello che davvero conta, ovvero perché River si sia tolto la vita. Spero di non essermi fatta troppi film mentali (pppfffff, chi voglio prendere in giro, è ovvio che me li sia fatti), ma mi sembra che anche nella sceneggiatura avvenga un’evoluzione simile: nei primi episodi Payton è la parodia di un futuro presidente, solo un personaggio pubblico non ancora pubblico – una sagoma di cartone su cui appuntare una spilla – ma pian piano matura una sfera emotiva e personale, ha reazioni e relazioni, e conseguentemente, con lui, anche tutti gli altri personaggi.

((Seguono le note inutili alla fanfiction in sé di cui parlavo prima, non odiatemi, ho bisogno sfogarmi))

Ordunque. È un secolo che non scrivo qualcosa dall’inizio alla fine. È un secolo che non pubblico qualcosa. È un secolo che qualcosa non mi fagocita a tal punto – The politicians mi ha fatto impazzire. Sono partita più che prevenuta: Ryan Murphy, non abbiatecela con me, non è proprio nelle mie corde: trovo che abbia grandi idee, visivamente deliziose, ma poco soddisfacenti dal punto di vista degli snodi di trama, un po’ caotiche, ma di un caos appiattente, come se la logorrea di cui soffrono le sue sceneggiature sortisse su di me l’effetto opposto a quello desiderato: non mi importa di tredici mostri, ne voglio due e voglio averne davvero paura, non so se mi spiego ogni riferimento ad AHS è puramente casuale – e il trailer… il trailer mi prometteva grandi cose, ma grandi cose alla gossip girl: un po’ trash, un po’ pecorecce, un po’ semplicemente random. Per cui: mi aspettavo di divertirmi, tutt’al più. Di godermi il gusto estetico di Ryan, di skippare le parti più noiose, le sue scene più leeeente, di arrivare alle fine come arrivo alla fine dei suoi prodotti solitamente: non sempre, a spizzichi e balzi, con le idee non molto chiare sull’essermeli più goduti o averli più odiati. E non è che di scene infinitamente prolungate nel tempo non ce ne siano. Ma le ho amate disperatamente. Non mi sono annoiata per niente. L’ho visto almeno tre volte dall’inizio alla fine, senza soluzione di continuità. Gwyneth Palthiw è infinitamente dolce e apatica e bellissima, tutto assieme; McAfee e James ed Alice ed Astrid e Skye ed Infinity sono a due dimensioni, sì, ma The politicians è ambientato a flatlandia; Payton è… tutto. È… sono innamoratissima, d’accordo? Si scopre a mano a mano mentre lo scopre lo spettatore, è delizioso, scritto alla grande, recitato meglio, ogni volta che canta mi si spezza il cuore e ha dubbi come ogni buon antieroe dovrebbe avere – la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, i cattivi sono gli eroi delle proprie storie, non devi essere buono, ma devi fare cose buone, e ancora: è importante capire la differenza fra provare e simulare un’emozione, se il risultato è lo stesso?
Ho amato lo show e ho amato che si prendesse il suo tempo per dire le cose e mi è piaciuto moltissimo l’impianto teatrale, le inquadrature alla Wes Anderson che estraniano le spettatore, gli sbattono in faccia la finzione tanto quanto i dialoghi, che sfondano la quarta parte, spiegano la psicologia spicciola dei personaggi senza giri di parole e la fanno spiegare ai personaggi stessi, ho adorato i vestiti, la colonna sonora colora la mia vita da giorni (EDIT: anni. Anni) senza sosta, Jessica Lange ha l’ennesima parte squallida e spettacolare e patetica e perfettamente riuscita. Unica pecca: Flavio Aquilone che doppia Ricardo? Davvero? Davvero davvero? REALLY??? Una voce così affasciante, per un personaggio del genere? WHY? Vbb. 
Grazie di aver letto fin qui, siete degli eroi.

 

 

  
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