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Autore: muffin12    02/07/2022    5 recensioni
"Al bar non sapevo cosa prendere e mi sono presa una cotta."
(BarbyeTurica, Twitter)
CaféAU
Pairing: principale OsaSuna - secondaria SakuAtsu
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Osamu Miya, Rintarō Suna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutti!
 
Questa storia è la prima parte di una serie scritta a due mani da me e LorasWeasley!
 
La serie si chiama Coffee Break ed è una caféAU e comprenderà:
 
 
Buona lettura!
 


 
Mocaccino bollente e caramello salato

 
C’erano momenti nella vita che si ricordavano con estrema chiarezza.
 
Si viveva tranquillamente giorno dopo giorno, ignari, finché BUM! Finalmente si aprivano gli occhi.
 
Il cervello si attivava. I pensieri scorrevano, le immagini si facevano più vivide e, anche se ti sforzavi, non ricordavi nulla del giorno prima, vuoto totale, tabula rasa.
 
Era come il vero primo giorno della propria vita.
 
Iniziava tutto da quell’attimo preciso ed avrebbe segnato il principio. Nel bene e nel male.
 
Per Osamu, non era stato un bel momento.
 
Se metteva in moto la memoria, ritornava indietro, bypassava tutti gli anni a venire e si concentrava su quell’unico veloce istante, ricordava un dolore lancinante sulla fronte ed un urlo da vitello sgozzato proveniente dalla propria ugola sapientemente allenata. Subito dopo, seguiva un secondo urlo da vitello sgozzato proveniente da un’altra ugola parimenti allenata, estremamente decisa a battere la sua per intensità e teatralità, ovviamente senza riuscirci. La sua, in fondo, era sofferenza vera.
 
Sua madre raccontava quella storia ogni volta che lui e Atsumu combinavano qualcosa, di solito nello stesso momento e con un livello di gravità in continua competizione, commentando esausta “Anche a tre anni rompevate le palle per chi riusciva a fare più danni, a ventitré non è ora di finirla?
 
Il suo primo traumatico ricordo era stata colpa di Atsumu. Ovviamente, non c’era neanche bisogno di specificarlo.
 
Un bellissimo giorno, Atsumu si era arrabbiato e gli aveva lanciato il trenino di legno in testa, per poi mettersi a frignare per non essere sgridato. Osamu aveva rimediato un bernoccolo spaccato che aveva fatto un male d’inferno e che ci aveva messo settimane per guarire. Atsumu era stato coccolato perché “Poverino, non l’ha fatto apposta, vedi com’è dispiaciuto?
 
Non era vero. L’aveva fatto apposta. E non era dispiaciuto manco per il cazzo, semplicemente voleva quel fottuto treno perché il suo l’aveva lanciato fuori dalla finestra senza alcun motivo logico, pentendosi a posteriori.
 
Quindi, ricapitolando, c’erano momenti nella vita che si ricordavano con estrema chiarezza. E ti segnavano in maniera indelebile.
 
Quell’episodio aveva insegnato ad Osamu che suo fratello era un bugiardo. Che bastava una faccina accartocciata e qualche lacrima facile per averla vinta.
 
E che non poteva fidarsi di Atsumu.
 
Nonostante ciò, nonostante tutta questa premessa introspettiva che lo metteva davanti al suo primo ricordo, al primo dolore, all’inevitabile considerazione del livello di credibilità di suo fratello, una persona sana di mente si sarebbe chiesta perché, allora, si trovasse in quel momento nella macchina di Atsumu, ascoltandolo maciullare Niki Minaj in un falsetto rap poco credibile e guardandolo scrutare la strada alla ricerca di parcheggi.
 
Perché era un debole. Ed era anche decisamente fatto.
 
No, non fatto in quel senso. Magari.
 
Aveva passato tutta la notte, insieme alle due precedenti, a buttare giù una bozza di relazione per quella dannata lezione di Gestione Aziendale che gli dava gli incubi anche ad occhi aperti, ed era arrivato la mattina dopo senza capire che razza di ore fossero e perché fuori la luce fosse accesa.
 
Per fuori intendeva fuori dall’appartamento. La luce accesa, scoprì, era il sole.
 
Quindi uscì dalla sua camera barcollando come fosse ubriaco, con raggi infami che entravano in casa con il solo scopo di ferirgli gli occhi e i movimenti e i ragionamenti rallentati.
 
Atsumu lo aveva guardato per un lungo minuto cercare di accarezzare la piantana per chissà quale motivo. Decise velocemente che gli piaceva ciò che stava vedendo, mise su un ghigno talmente grande da tagliargli in due la faccia e gli disse “Samu, vieni con me, ti offro un caffè!”
 
Osamu ricambiò lo sguardo con gli occhi appannati. Dopodiché, scrutandolo con le palpebre mezze chiuse, sussurrò appena “’Azzo sei?”, cosa che avrebbe dovuto preoccupare più del previsto.
 
Non era assolutamente nel pieno della sua forma. Primo perché non riconosceva la sua fotocopia più stronza (e più brutta), secondo perché era convinto ci fosse un fottuto gatto sul mobile (doveva decisamente monitorare dove Atsumu attaccasse gli occhietti adesivi, era già la terza volta che succedeva), terzo perché Atsumu non offriva nulla di propria iniziativa, men che meno caffè.
 
Atsumu che si prodigava con apparente disinteresse ad acquistare qualcosa per lui, stava a significare che stava covando qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa di così infimo che doveva stare attento alle parole che sarebbero uscite dalla propria bocca, perché sarebbero state sicuramente utilizzate contro la propria indifesa persona. E non era decisamente nelle condizioni di prendere decisioni, in quel momento.
 
Tuttavia, non era neanche nelle condizioni di produrre un pensiero coerente e Atsumu lo aveva ben capito, quindi lo prese sottobraccio ed uscirono di casa.
 
Fu così che si ritrovò spiaccicato sul sedile anteriore come la marmellata su un toast, a cercare uno stracazzo di posto libero in cui sistemare quella scatola che Atsumu continuava a chiamare bolide, sentendolo steccare una volta di troppo.
 
“Non potevi darmi un caffè prima di uscire di casa?” Gli domandò Osamu seccato. Dopo aver fatto il pieno di vitamina D si sentiva decisamente più umano e si stava velocemente pentendo di tutto.
 
“Guarda, sei ancora in pigiama, io mi preoccuperei più di quello.”
 
Osamu abbassò lo sguardo e sì, effettivamente era ancora in pigiama. Alzò le spalle e ricominciò a guardare fuori dal finestrino, incurante. Non era la prima volta che succedeva e, inoltre, aveva fatto decisamente di peggio. “Abbiamo la macchina del caffè. Perché devi venire in una caffetteria?”
 
“Perché è più buono.”
 
“Ne abbiamo venti sotto casa.”
 
“Qua la crema di latte è paradisiaca.” Mormorò Atsumu, stringendo le palpebre per valutare le azioni di un aspirante suicida che tentava di uscire da un parcheggio. “E il caffè è così amaro e concentrato che risveglia anche i morti.”
 
“Tsumu, non ti piace la roba amara.” Si lamentò Osamu stropicciandosi un occhio. “Stavi per buttare il cioccolato col 99% di cacao.”
 
“Questo mi piace.” E sottolineò il tutto ruotando il volante a destra, ficcandosi nel posto libero come un invasato e facendo schiantare Osamu contro il finestrino. La cacofonia di clacson che scoppiò nell’aria, tutti intenti ad augurare a suo fratello di andare a passeggiare per prati, venne prontamente ignorata da un Atsumu sorridente, troppo occupato a mettere il freno a mano e a sistemarsi i capelli nello specchietto retrovisore per curarsi della moltitudine di incidenti che aveva sfiorato col suo fare da pilota tossicomane.
 
Osamu lo guardò malissimo, staccandosi dallo sportello con la fronte che pulsava per la botta contro il vetro. Sembrava un déjà-vu decisamente spiacevole, intento ad avvertirlo di qualcosa di orrendo ma aveva ancora i sensi intontiti dal poco sonno, offuscati dalla testata al finestrino, per dare ai segni del destino la giusta considerazione.  
 
“Cosa stai facendo?” Sibilò, massaggiandosi la tempia e guardando suo fratello mettere la lingua tra i denti, nel pieno della concentrazione per la sistemazione di un ciuffo ribelle.
 
“Niente.” La risposta squillante fu accompagnata dal controllo laterale della sua faccia da culo e un’ultima sistemata al covo di paglia finta sulla sua testa. Dopodiché, Atsumu aprì lo sportello velocemente. “Vuoi sbrigarti? Quanto ti ci vuole per scendere?”
 
Osamu chiuse le palpebre e prese un respiro pieno e lento.
 
Era per il caffè, si disse lentamente ricordando con una parte del cervello l’aroma tostato e profondo che sembrava già svegliarlo un po’. Riusciva quasi a sentirlo nelle narici, ricco e caratteristico, con l’odore caldo  e familiare della schiuma di latte e quello speziato della punta di cannella, il cacao al suo interno che rendeva il tutto solo più intrigante.
 
Lo faceva solo ed esclusivamente per il caffè. E per tre chili di dolci, perché se li meritava.
 
Uscì dall’auto scuotendo la testa. “Spero che sia davvero buono come dici.” Mormorò rassegnato, sistemandosi meglio al collo la sciarpa che aveva trovato nel sedile posteriore.
 
“Oh, lo è.” Promise Atsumu con un’espressione lasciva che fece squillare più di qualche campanello d’allarme nella sua testa, chiudendo la macchina e cominciando a camminare rapido verso una vetrina piena di adesivi. “Muoviti, c’è fila.”
 
Osamu guardò Atsumu darsi un’ultima sistemata con cipiglio concentrato, specchiandosi al riflesso della vetrina del negozio precedente alla caffetteria. Mise su quel sorriso laterale odioso, che lui assicurava fosse da tombeur des femmes ma che invece sembrava solo invocare pugni sui denti, e spalancò la porta a vetri, annunciandosi con uno scampanellio trillante.
 
Osamu lo seguì stropicciandosi gli occhi, guardandosi pigramente attorno una volta varcata la soglia.
 
Era un bel locale, doveva concederlo. Legno chiaro, ardesia e ghisa quasi nascosta, inserti appena accennati. Soffitti alti e lampadari appesi, sedute dall’aspetto comodo accostate a tavolini abbastanza grandi da poter accogliere anche persone delle loro dimensioni e colazioni più che ricche.
 
Aveva un aspetto caldo, nell’insieme. Le pareti erano di un grigio indefinito, con una punta di marrone nella tintura che smorzava la freddezza del colore principale, donando e mantenendo senza sforzi un’aura rilassante e tranquilla, piacevolmente pacifica.
 
Pacifica finché lo sguardo non cadde sul bancone dritto all’ingresso, dove un tizio con una mascherina sulla faccia e un grembiule verde pisello guardava suo fratello come se, sforzandosi, potesse riuscire ad ammazzarlo con la sola forza del pensiero. Era molto pallido e aveva capelli nerissimi, due nei sul sopracciglio e, dalla faccia ammiccante e lasciva di suo fratello, Osamu capì improvvisamente da dove venisse tutta quell’uscita sulla crema di latte e sul caffè amaro.
 
La fila non c’era, quindi Atsumu si era rivelato il solito bugiardo. Un’altra occhiata veloce alla sala e notò menù ad ogni tavolo e un paio di grembiuli verdi passare tra i clienti come api operaie. Il servizio era al tavolo, quindi.
 
Sospirò ancora.
 
“Fai schifo.” Informò suo fratello con tono stanco, stropicciandosi la faccia con una mano.
 
Atsumu balzò leggermente sul posto, girandosi verso di lui con gli occhi larghissimi. Sembrava avesse dimenticato la sua intera persona. “Cos-Cosa?” Balbettò e Osamu sbuffò, già stufo.
 
“Vado a sedermi a un tavolo.” Borbottò brusco, cominciando ad occhieggiare qualche posto libero. “Voglio un mocaccino grande quanto la mia testa, tanto zucchero da sentirmi male, qualsiasi diavoleria vogliano metterci dentro e una fetta di ogni torta presente.”
 
“Ti sono cresciuti altri due stomaci stanotte?” Ma Osamu stava già andando via, lasciandolo a scambiarsi sguardi concupiscenti con il barista omicida. “Prendi il tavolo all’angolo!”
 
Sinceramente, quando era stato rapito quella strana mattina, non pensava di doversi sorbire suo fratello e i suoi tentativi infruttuosi di accoppiamento. Non sapeva bene cosa dovesse aspettarsi, in tutta onestà, perché, ancora, Atsumu che decideva di offrirgli la colazione era una situazione che stava tra l’impossibile e le allucinazioni spinte, un po’ come se un unicorno si presentasse un bel giorno di ottobre e decidesse di cominciare con le pulizie di primavera.
 
Sapeva che ci doveva essere qualcosa sotto. Ne era stato praticamente certo.
 
Tuttavia, doveva ammetterlo, non gli interessava nemmeno più di tanto. Si trattava di abbondante colazione gratis e, anche se veniva accompagnata da un Atsumu nel pieno del suo rituale di corteggiamento, doveva solo guardare da un’altra parte e lasciarlo al suo destino infame. Oppure godersi la scena e commentandola con considerazioni mirate e spietate.
 
Raggiunse il tavolo all’angolo, perché non era nulla se non un fratello premuroso (e quel tavolo aveva una vista fantastica del bancone, avrebbe sfruttato qualunque situazione pur di prendere in giro Atsumu).
 
Vedeva suo fratello benissimo, chiaro come il sole e nel pieno della sua tronfia sicurezza, appoggiarsi al bancone con un gomito e parlare al barista con un sorriso storto, ricevendo in cambio un’occhiata al vetriolo e qualunque cosa venisse ribattuta da sotto la mascherina, risposta che suo malgrado non riusciva a sentire ma che, piano piano, stava smontando la facciata compiaciuta di suo fratello.
 
Sogghignò, godendo di quella visione accomodandosi meglio sulla sedia, cominciando ad avvertire le palpebre farsi un po’ più pesanti ogni secondo che passava.
 
Forse poteva fare un pisolino, pensò sentendo tutta la stanchezza farsi viva in quell’istante. Risposare gli occhi. In fin dei conti, Atsumu era abbastanza impegnato con qualunque cosa gli fosse sfuggita dalla bocca, a giudicare da come stava annaspando nel suo tentativo di spiegare qualcosa al barista incazzato.
 
Non dormiva da tre giorni, non sarebbe successo nulla se si fosse fermato due minuti.
 
Un minuto, si promise cominciando ad avere la vista leggermente sfocata.
 
Magari trenta secondi …
 

 
“Però, è proprio un bel pigiama quello.”
 
La voce estranea gli entrò nelle orecchie attraversandogli il cervello, risvegliandolo dal suo stato di dormiveglia imposta e costringendolo ad aprire le palpebre. Sentiva gli occhi in fiamme e, davvero, non era stata una bellissima idea sonnecchiare in quel momento. Avrebbe fatto meglio ad aspettare quella sera e farsi almeno tredici ore di sonno filato. O diciotto.
 
Alzò lo sguardo, corrucciando le sopracciglia per la luce tenue che sembrava concentrarsi su di lui come un faro malefico.
 
Non conosceva la persona che gli stava davanti, che lo scrutava con degli occhi così verdi da sembrare quasi trasparenti. Erano naturalmente stretti, allungati, giudicanti e saputi come se conoscessero le risposte a tutte le domande esistenti nel mondo. E il viso che li circondava, beh, quello era proprio un pianeta a parte.
 
“Dico a te, bell’addormentato. Sei venuto qua per dormire o ti decidi a ordinare?”
 
“Sto meditando.” Mormorò Osamu, inclinando la testa e appurando che il resto del corpo del tizio si abbinava alla faccia in modo spettacolare. Aveva un grembiule verde pisello, lo stesso del barista di Tsumu, quindi la domanda che gli aveva posto era più che legittima.
 
Lo sconosciuto sogghignò, buttando un block notes con penna annessa sul tavolo e sistemandosi sulla sedia accanto a lui, come se fosse stato invitato e non fosse il suo orario di lavoro. “Vedo.” Mormorò sofficemente sistemando le spalle contro lo schienale.
 
Osamu lo guardò accasciarsi con una postura illegale, allungando le gambe (lunghe, sinuose, fantastiche) sulla seduta più vicina neanche fosse a casa sua. “E vedo anche che Atsumu è stato scaricato un’altra volta.” Quello spinse Osamu a girarsi verso il bancone, curioso.
 
Effettivamente suo fratello si stava avvicinando a loro, ma la baldanza euforica con cui camminava non sembrava proprio tradursi in un due di picche. “Sunarin, levati dalle scatole.” Intimò allo sconosciuto a voce alta.
 
Osamu fece una smorfia. Sunarin.
 
Che cazzo di nome era Sunarin?
 
“Andata male?” Domandò quel Sunarin senza muoversi di un millimetro, allargando il suo ghigno in maniera molto malefica.
 
“Mi ama.” Rispose Atsumu con un sorriso enorme, rubando la sedia da un tavolo vuoto vicino e sedendosi a guardare il barista con sguardo innamorato. “Oggi non ha nemmeno tentato di mettermi il sale nel caffè.”
 
“Wow.” Osamu guardò le stelline uscire dagli occhi di suo fratello, cercando di scorgere la sua preda intenta a preparare le ordinazioni. Le labbra si arricciarono autonomamente di disgusto. “Che diavolo gli hai fatto di male? A parte esistere, certo.” Ma quello era un problema comune, il barista avrebbe dovuto mettersi in fila.
 
“Non mi hai detto che avevi un fratello.” Si intromise Sunarin, dondolando i piedi con fare pigro.
 
“Avrei dovuto?” Videro Atsumu scattare appena scorse un ciuffo di ricci uscire da una porta laterale, la faccia schifata e l’arrabbiatura un po’ più pronunciata. Si alzò meglio sulla sedia per scrutare qualunque cosa facesse il barista, allungando il collo per avere una visione più completa. “Non è minimamente bello e simpatico come me.”
 
“Ringrazio tutti gli dèi per questo piccolo favore.” Sbuffò Osamu cominciando a giocherellare con la zuccheriera, già annoiato da quella dimostrazione di pura umiliazione.
 
Il ghigno di Sunarin si allargò solo di più. “Hai anche un nome diverso dal suo?” Domandò girandosi verso Osamu. “Perché chiamarti ‘il fratello che sembra quello intelligente tra i due’ è troppo lungo.”
 
“Non sai se è intelligente!” Sbottò Atsumu colpito nel vivo, l’espressione tradita.
 
“Anche perché potrebbero essercene altri, ci vuole poco a non essere stupidi come lui.” Borbottò Osamu con un mezzo sorriso. Poi allungò la mano e quel Sunarin la prese da quella posizione un po’ storta. “Miya Osamu, la linea di sangue decente.”
 
“Questo è tutto da vedere.” Ringhiò Atsumu.
 
“Suna Rintarou.” Si presentò quello e sì, molto meglio di Sunarin. “Se vuoi ho dei video di tuo fratello che si rende ridicolo con Sakusa, quello incazzato laggiù.”
 
“Lo vedo ogni secondo dentro casa ma sì, questo è materiale nuovo.”
 
“Siete due stronzi.” Bofonchiò Atsumu alzandosi. “Vado a vedere a che punto sta Omi con gli ordini.”
 
Guardarono la sua schiena allontanarsi e il passo assumere una baldanza maliziosa. Se Osamu sospirò, Suna sbuffò una risata. “Vuole morire giovane.” Commentò mettendosi più comodo, quasi completamente sdraiato sulla sedia.
 
“Non voglio sapere come è iniziata e se devo coprire qualche denuncia, vero?”
 
“No.” Ridacchiò Suna salutando con una mano il barista, lo sguardo di fuoco che gli venne lanciato completamente inutile. “Ho ancora cinque minuti prima che Sakusa venga a rompere, raccontami un po’ di te. Quante volte hai tentato di diventare figlio unico?”
 
 
*
 
 
Se Osamu avesse dovuto ringraziare Atsumu per qualcosa, qualsiasi cosa, non l’avrebbe fatto.
 
Anche perché Atsumu non aveva mai fatto nulla per cui essere ringraziato.
 
Se poteva fare un favore si guardava bene dal compierlo, annunciando, davanti la faccia allibita del malcapitato di turno, che se aveva un problema doveva risolverselo da solo, perché la vita era una stronza e Atsumu era solo il povero santo che lo stava iniziando ai dispiaceri che avrebbe inevitabilmente incontrato nel suo percorso.
 
Se aveva deciso di organizzare feste dentro casa, non avrebbe avvertito il suo coinquilino – ossia il suo cazzo di fratello gemello -, né si sarebbe premurato di controllare che detto coinquilino - ovvero il suo cazzo di fratello gemello – fosse disponibile per un festino improvvisato, fregandosene altamente dell’imminente esame che aleggiava sulla testa del sopraccitato coinquilino – vabbé, si era capito – e accusandolo, invece, di rovinare sempre tutto, perché lui gli esami li aveva finiti e doveva darsi alla pazza gioia, come era giusto che fosse.
 
C’era da dire che Osamu gli aveva reso presto pan per focaccia e si era goduto un Atsumu piangente e disperato raccattare fogli, libri, matite e quaderni e correre fuori di casa, accampandosi nel primo posto libero, disponibile e silenzioso per potersi concentrare e studiare tutta la notte. Il tutto mentre Osamu sorseggiava una birra fresca godendo delle prime ore di libertà dalla conclusione della sessione.
 
Osamu scoprì, il giorno dopo, che il luogo scelto da suo fratello si era rivelata la panchina di un parco a tre isolati da casa loro posta sotto un lampione mal funzionante e, ad un determinato punto della notte, circondata da cani randagi.
 
Atsumu era sopravvissuto, quindi nessuna pena inutile. La mamma non l’avrebbe mai scoperto.
 
Tuttavia, malgrado i suoi teneri pensieri nei confronti della sua metà più brutta e cafona, l’idea di ringraziarlo aveva sfiorato la sua mente ogni singola volta poggiava piede nel café che gli aveva fatto scoprire.
 
Ovviamente non l’avrebbe mai fatto. Aveva una reputazione solida da mantenere.
 
Ma la consapevolezza che esistesse un posto diverso da casa sua in cui potesse trovarsi a suo agio, comodo e in compagnia piacevole era rilassante.
 
Soprattutto per la compagnia. Perché Atsumu non era piacevole.
 
Il tavolo all’angolo, scoprì presto, era l’ideale per avere visione di tutto il locale, non solo del bancone. Era una posizione appartata ma focale, che permetteva di poter controllare contemporaneamente la porta d’entrata, la zona bar posta subito dopo e i tavoli più o meno pieni tra cui si diramavano i dipendenti, schivando sedie troppo sporgenti nei loro grembiuli verdi e sibilando improperi tra i denti per macchioline di caffè sulla camicia bianca appena sotto, ottenute magari per qualche rapida disattenzione loro o di clienti sbadati.
 
Osamu aveva scoperto che nessuno aveva un ruolo preciso in quel locale, tranne i due nella zona cucina.
 
Hinata e Kageyama erano due bombe di farina pronte ad esplodere per qualsiasi parola, sfidandosi costantemente e costringendo gli altri ad inventarsi giornate particolari, come il “cookie day”, frutto dell’ultima competizione zuccherina, organizzato con la speranza di smaltire i biscotti in eccesso.
 
“Ecco il tuo carico di glicemia.” Suna gli poggiò davanti un bicchiere grande colmo di mocaccino, panna montata sulla cima e stratificazione di cioccolato e caffè ben visibile attraverso il vetro, cercando di non toccare i fogli randagi su cui stava scrivendo freneticamente calcoli disperati.
 
Lo vide scrutare la sua grafia a zampe di gallina e assumere un’espressione annoiata che racchiudeva esattamente tutta la passione di Osamu per quella materia bastarda.
 
Suna si guardò attorno cauto cercando di capire se fosse controllo, poi si sedette con calma vicino a lui, prendendo un foglio accartocciato e spiegandolo con dita sicure, leggendo chissà che cosa tra numeri sbavati e formule astruse.
 
Osamu lo guardò pensoso, vedendo quel naso affilato arricciarsi leggermente verso qualsiasi cosa avesse poggiato gli occhi, i capelli che schermavano leggermente parte del suo viso non consentendogli una visione completa.
 
Suna era stato … qualcosa che non si aspettava di trovare.
 
Osamu, per sua sfortuna, aveva a che fare con Atsumu. Ed era una scusante di tutto rispetto.
 
Tutte le iniziative di Atsumu, prima o poi, si sarebbero rivelate fregature del livello più infimo, quindi aveva imparato a non avere aspettative quando suo fratello proponeva qualcosa. Soprattutto se lo faceva con il grado di interesse con cui lo aveva trascinato in quel posto con l’inganno.
 
Suna era stato l’eccezione di tutte le sue convinzioni.
 
Aveva preso come scopo della sua vita documentare tutti i tentativi di avvicinamento di Atsumu a Sakusa, sin da quando si era presentato al café la prima volta, producendo un lavoro così sopraffino che Osamu pianse più volte quando vide i frutti sudati di quell’impegno.
 
Quando capì che Osamu avrebbe mangiato qualunque cosa, dalla torta meno invitante del loro repertorio, risultato di una faida interna in cucina che portò i macarons a fare una fine orrenda, ai biscotti che cadevano per terra, facendo valere fieramente la regola dei cinque secondi, lo nominò d’ufficio ‘assaggiatore ufficiale’. O cestino dell’immondizia, ma ad Osamu faceva più piacere il primo nome.
 
Ogni volta che sperimentavano nuove ricette o miscele diverse, facevano tutti affidamento a lui per consigli e pareri disinteressati, consapevoli del suo stomaco d’acciaio che avrebbe resistito anche agli esperimenti più pericolosi. In cambio non pagava alcun conto.
 
Atsumu era all’oscuro di ciò, quindi Suna si premurava di presentargli sempre un saldo raddoppiato per il solo gusto di una presa in giro silenziosa. A volte gli regalava delle caramelle per sbeffeggiarlo ulteriormente.
 
Osamu spostò lo sguardo dalla matita spuntata con cui tentava di scrivere alla bevanda, scrutando la stratificazione di caffè e cioccolato con occhio maniacale. “Cosa c’è di diverso dall’ultimo?” Domandò buttando la matita nell’astuccio e cercandone un’altra, arricciando il naso ogni volta che ne afferrava una dalla punta sofferente. “Mi sembra uguale.”
 
“Akaashi ha messo caffè assoluto in mezzo.” Spiegò Suna con tono annoiato, prendendo una penna e cominciando a scrivere qualcosa sul foglio accartocciato. “Non so quale, non ci capisco niente. Qua hai sbagliato il calcolo.” E gli passò tutto facendogli vedere l’errore, una somma al posto di una sottrazione.
 
Osamu gemette stropicciandosi gli occhi. “Sto diventando stupido.” Borbottò con tono lamentoso, strofinando forte la faccia. “Non passerò mai.”
 
 
“Sono quattro ore che sei qua a fonderti il cervello, fai una pausa.” Gli tolse l’astuccio dalle mani e le riempì con il bicchiere. Osamu strinse di riflesso le dita attorno al vetro caldo ed inspirò l’aroma forte del caffè, attenuato da quello del cacao e un pizzico di qualcosa di fruttato che non riuscì a capire in un primo momento, che sembrava uscire, leggero e intrigante, dal ciuffo di panna in cima. “Mirtillo?” Domandò cauto e Suna alzò un angolo di labbra, soddisfatto. “Non è più un mocaccino se ci metti il mirtillo.”
 
“Bevi e basta, scroccone. Akaashi aspetta un parere.”
 
Osamu avvicinò il bordo alla bocca e prese un sorso sperimentale, la panna che si poggiava sul labbro superiore e l’aroma di mirtillo che si accompagnava al cacao e al caffè adagiandosi sul palato sofficemente, rivestendolo senza invaderlo. “Non è sciroppo.” Mormorò piano, rilassandosi per la prima volta da troppo tempo. Il mirtillo non era dolce, era un accenno appena ma ebbe il potere di tranquillizzarlo, sentendolo tenue sul palato molle come una presenza impalpabile e secondaria. “Non è nemmeno fresco. È polvere?”
 
“Mi deve mille yen.” Gongolò Suna toccando velocemente il cellulare. “Pensava non ci saresti arrivato. Gli mando questa conversazione, ok?”
 
“Mi hai registrato?” Domandò Osamu, più divertito che scocciato. Leccò la panna sul lato della bocca e un fiocco cadde sul foglio pieno di calcoli. Velocemente lo prese con il dito e lo portò alla bocca, lasciando una macchia di grasso umido tra quadretti e inchiostro.
 
“Non mi va di alzarmi.” Si limitò a spiegare Suna, incrociando le braccia sul tavolo e poggiando la guancia sull’avambraccio, gli occhi socchiusi ma luminosi. “Sono stanco.”
 
“Hai seguito due tavoli.” Lo prese in giro Osamu, leccando il bordo del vetro sporco di cacao. “Uno è il mio.”
 
“Sei un lavoro a tempo pieno.” Sorrise, quando lo disse. Era affettuoso, più di quello a cui era abituato di solito e non se lo aspettava.
 
Osamu prese un sorso enorme di mocaccino, bruciandosi il palato e cominciando a lacrimare. “Non farti male.” Lo avvertì inutilmente Suna, un piccolo ghigno soffocato dal cotone della camicia. “Hinata ha dovuto buttare la cassetta del pronto soccorso, dobbiamo ancora ricomprarla.”
 
“Tutta?” Gracchiò cercando di prendere aria. “Che ha fatto?”
 
“Gli è caduta nella glassa  e ha sporcato ogni cosa, l’aveva chiusa male.”
 
Era una cosa così da Hinata che si ritrovò ad annuire comprensivo. Poteva solo immaginare gli insulti ripetitivi di Kageyama e il tono lamentoso con cui dovette spiegare l’accaduto. Sperò per lui che non ci fosse Sakusa al servizio.
 
“C’era Sakusa.” Ridacchiò malefico Suna e Osamu pregò per ciò che rimaneva dell’anima di Hinata.
 
“Com’è che è ancora vivo?” Domandò oziosamente gustando un po’ di panna fresca con il cucchiaino.
 
“Atsumu.” Fu la semplice risposta e Osamu sospirò con l’energia dei martiri più provati per quell’informazione non voluta. “È meno pesante quando c’è lui.”
 
“Gli fa incanalare l’energia diversamente.” Mormorò sconfitto, riuscendo a capire solo in quel momento perché suo fratello sorrideva nel suo modo schifoso più del solito. “Potresti farlo smettere? È insopportabile a casa.”
 
“Sei pazzo? Quando c’è lui riesco a prendermi una pausa.” E a continuare il lavoro di documentario che aveva iniziato, almeno a giudicare dal diario di viaggio con cui lo aggiornava minuto per minuto.
 
Erano stati veloci a scambiarsi il numero di telefono: era bastata un’occhiata raggelante di Sakusa e Atsumu che cominciava ad incartarsi con qualunque cosa stesse dicendo, terminando quella dimostrazione di savoir faire con un invito vagamente allusivo a cui Sakusa non rispose nemmeno, le orecchie rosso luminoso e un’aura omicida che lo circondava.
 
Osamu e Suna si guardarono con un’espressione di comune sofferenza ed iniziarono quella fruttuosa collaborazione.
 
Osamu poggiò il bicchiere vuoto sul tavolo, leccando le tracce di panna e caffè a cui riusciva ad arrivare con la lingua, cercando di aiutarsi con il cucchiaino. “Di’ ad Akaashi che è buonissimo.” Lo informò, sporcandosi il naso con il cacao. Lo sentiva umido e secco insieme sulla punta e ci passò una mano per togliere le tracce. “Dovrebbe metterci qualcosa in mezzo da far scrocchiare tra i denti, noccioline o cioccolata non lo so, e dovrebbe cambiargli nome, ma è perfetto per il suo ‘rischio del giorno’.”
 
Il “rischio del giorno” era stata una di quelle scoperte dolorose e intriganti insieme, che capitavano per pura stupidità e che ti colpivano come un treno in corsa, in maniera positiva e negativa allo stesso tempo. Veniva preceduto da un modulo da firmare per il rilascio delle responsabilità e un discorso apatico riguardo la presenza di allergeni, quindi era una cosa che poteva fare veramente male.
 
Ad Osamu ricordava i bei momenti in cui cadeva dalla bicicletta e si sbucciava entrambe le ginocchia, o quando si picchiava fortissimo con Atsumu e ne prendevano il doppio dalla mamma perché avevano litigato e, soprattutto, avevano sporcato i vestiti, arrivando a fine serata con molti più lividi rispetto la mattina e qualche taglio non preventivato.
 
La crosta che si veniva a formare era qualcosa di schifoso ma curioso al tempo stesso e Osamu poteva passare ore a tentare di giocare con quel lavoro di piastrine, alzandola dalla pelle con concentrazione e facendosi un male di inferno nei punti in cui non si era cicatrizzata abbastanza ricominciando inevitabilmente a sanguinare, godendo tantissimo quando invece veniva via facilmente senza alcun tipo di dolore e costrizione.
 
Ecco, il “rischio del giorno” era così. Un male ricercato e, quando meno te lo aspettavi, piacevolmente sorprendente. Una di quelle esperienze che si volevano provare ancora e ancora e ancora perché c’era sempre qualcosa di nuovo da scoprire. Se fosse anche buono era tutto da vedere.
 
Osamu era stato iniziato con una creazione di Bokuto Koutarou.
 
Un fierissimo Bokuto Koutarou.
 
Era la prima volta che si incontravano. Avevano fatto amicizia davanti una tazza enorme di cappuccino condito con i Pringles aromatizzati alla cipolla – “Per la croccantezza!” si era giustificato Bokuto, che evidentemente guardava troppo Masterchef -, gustando frollini alla maionese. Dolci.
 
Superato il primo momento di shock, Osamu dovette ammettere che erano buoni.
 
Non li avrebbe mai presi di propria iniziativa, ma non era così al di fuori della rosa dei cibi commestibili come aveva immaginato inizialmente.
 
Bokuto si illuminò come una lampadina quando glielo disse, sprizzando gioia e esaltazione da tutti i pori. Fu una giornata proficua per il suo stomaco, che venne coccolato come una giovane signorina d’altri tempi. Bokuto si prodigò di riempirlo di brioches fragranti e strani stuzzichini al pomodoro piacevolmente sapidi, l’aroma caldo di rosmarino lo aveva avvolto come una coperta calda e lo aveva accompagnato fino a casa.
 
Suna aveva passato la totalità di quella giornata a prenderlo in giro, ma il sorriso enorme di Bokuto e la sua premura non richiesta erano un ottimo motivo per brindare gratuitamente davanti la sua bella faccia derisoria.
 
Il “rischio del giorno” consisteva in un’invenzione dei dipendenti di un’accoppiata bevanda/cibo.
 
In modo del tutto casuale, attraverso una app che veniva fortunatamente controllata dal proprietario del café, ognuno di loro doveva inventarsi qualcosa di diverso per il giorno a cui erano destinati, con risultati più o meno commestibili.
 
Quindi, mentre Bokuto tentava di accoppiare cibi che non avrebbero dovuto nemmeno guardarsi da lontano, Akaashi Keiji la prendeva come una sfida personale e si impegnava sicuramente più di tutti per offrire ai clienti qualcosa di buono.
 
Akaashi Keiji era quello che dava il cambio a Sakusa in termini di persona responsabile. Osamu, non li aveva mai incontrati nello stesso turno contemporaneamente, ma li aveva visti spesso bofonchiare tra loro durante la rotazione per aggiornarsi a proposito della situazione del locale, informando l’altro riguardo l’andamento della giornata e, più importante, del livello di concentrazione dei loro colleghi.
 
Erano molto organizzati e precisi, per il dispiacere di Suna.
 
“Dovresti dargli la mancia.” Sogghignò Suna da sopra le braccia.
 
“Mettila sul conto di Atsumu.” Osamu riprese la matita più sana del proprio repertorio e ricominciò a scarabocchiare formule, ritornando nel suo status di attenzione dopo un ottimo rifornimento di zuccheri.
 
Suna lo stava guardando studiare i numeri a testa bassa, le sopracciglia corrucciate e la mano libera che teneva la fronte, passando le dita tra i capelli in cerca di un conforto inconscio. Osamu sentiva il suo sguardo addosso ma era piacevole, comodo.
 
Sapeva che poteva vedere liberamente la mano sporca di grafite, le occhiaie sotto i suoi occhi e trucioli di gomma da cancellare attaccati alla manica del suo maglione, spiccando bianchi su uno sfondo verde scuro. Sapeva in che stato si trovasse, ma sapeva anche che a Suna non interessava.
 
Non era al massimo della sua forma e ne era consapevole: si stava avvicinando un esame che gli aveva reso le cose difficili già dai primi giorni, gli ultimi erano soltanto un susseguirsi di lamenti e momenti di sconforto, esercizi maledetti e ripetizioni ad alta voce, fatti ingoiando lacrime e soffiando il naso tra un capitolo e un altro.
 
L’unica consolazione era che Atsumu era messo peggio di lui.
 
“Cosa guardi?” Domandò ridacchiando, scrutando Suna con la matita poggiata sulla bocca.
 
Quello ricambiò lo sguardo serio.
 
Lo sentì inspirare un po’ più forte del normale e affondare le labbra nella manica della camicia. I suoi occhi erano più stretti, le ciglia quasi ad incastrarsi tra di loro lasciando una sola striscia visibile e Osamu batté le palpebre, confuso. “Ho qualcosa in faccia?”

Suna rimase zitto ancora per qualche secondo, poi si alzò, sospirando. “No.” La voce era bassa e un po’ seccata e Osamu non capiva benissimo cosa avesse combinato. “Vado a vedere se hanno bisogno di qualcosa.”
 
“Akaashi-kun non ti ha ancora richiamato.” Mormorò stranito, guardando il bancone per vedere Akaashi intento a preparare un ordine. “Puoi rimanere un altro po’.”
 
“Ti lascio studiare.” Lo vide camminare all’indietro, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e il grembiule verde pisello leggermente sgualcito. Aveva un sorriso troppo leggero. “Torno più tardi.” Girò su sé stesso e andrò dritto nella zona cucina, scambiandosi qualche parola rapida con Akaashi.
 
Osamu rimase qualche secondo a fissare la porta chiusa della cucina, poi decise di ributtarsi su quegli esercizi che gli stavano togliendo la vita.
 
Avrebbe capito cosa fosse successo quando fosse stato un minimo più lucido.
 
 
 
   
 
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