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Autore: summers001    22/07/2022    5 recensioni
Oscar&Andrè | AU giorni nostri | Spero non troppo OOC | Fazzoletti e gelati alla mano
Stava seguendo l’ambulanza correndo in auto con Alain sistemato sul sedile del passeggero. Oscar s’era ricordata della sua presenza solo quando la frenata brusca davanti al pronto soccorso l’aveva proiettato nel parabrezza. Lo lasciò a parcheggiare l’auto, catapultandosi all’esterno del veicolo per seguire Andrè. Non perdeva d’occhio la barella su cui era caricato, facendosi strada fra il tumulto di persone in attesa davanti all’edificio. Lui era circondato da medici ed infermieri che piano piano accorrevano, mentre un altoparlante annunciava il codice rosso.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alain de Soisson, André Grandier, Hans Axel von Fersen, Oscar François de Jarjayes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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2015
 
Drin-drin.
La didascalia sul cellulare recitava Papà. Si agitò sulla dura panchina d’ospedale. Non aveva voglia di rispondere, ma doveva rassicurarlo che stava bene. “Pronto?” disse, continuando a fisare la porta del compartimento di sale operatorie, in particolare le lettere bianche bordate di rosso, su di uno sfondo verde in un cartello, che dicevano “Vietato l’ingresso ai non autorizzati”. L’unica finestra in vetro era stata oscurata e l’unico contatto con l’interno erano i passi dei medici che facevano su e giù dall’altro lato.
 
“Oscar? Oscar?” chiamava suo padre, mentre un bip-bip la avvisava che la batteria del suo cellulare era al dieci percento.
 
“Sì, sì,” si riscosse, portandosi la mano sulla fronte “sono qui.” Il cervello  le scoppiava. Il cellulare era caldo contro il suo orecchio, la voce del generale le rimbombava nella testa. “Sto bene.” Cercò di aggiungere, sperando di accorciare quanto più potesse quella telefonata. “Solo qualche graffio.”
 
“Dove ti trovi?”
 
Un’infermiera le passò davanti. Oscar si sporse in avanti, abbassò il telefono e la cercò, sperando che dovesse superare quella porta. Avrebbe potuto chiederle informazioni, supplicare di farla entrare o sbirciare il codice che avrebbe digitato di lì a poco sul tastierino elettrico. La donna invece imboccò le scale saltellando sui suoi sandali di gomma.
“In ospedale.” Rispose, ritornando alla telefonata. Sentì lo sbuffo contrariato di suo padre, che preannunciava una ramanzina o uno speciale consiglio di vita. “La batteria si sta scaricando ed il cellulare di Andrè è dentro con lui.” Si mise allora a dire “Dì alla nonna che la contatto io in qualche modo quando esce.”
 
“Dovresti tornare anche tu.”
 
Cominciò a piangere. Forse era l’idea di allontanarsi da quella porta, da quel cartello, da quel corridoio, dalle sale. Da Andrè. Fece cenno di sì tra le lacrime, a nessuno perché non c’era nessuno a  guardarla. Faceva sì a sé stessa, che ancora una volta si era ritrovata non capita da suo padre, persino nella tragedia. “Ci penserò.” Disse invece soffocando il pianto “A dopo.”
Chiuse la chiamata e spense il cellulare. Lo allontanò abbandonandolo sulla panchina su cui era seduta. Lo fissò solo per qualche secondo, prima di rivolgere il suo sguardo di nuovo al cartello ed alla porta. Si morse le labbra per fare silenzio, per ascoltare qualunque suono che venisse da dentro.
 
***
 
2019
 
Stava seguendo l’ambulanza correndo in auto con Alain sistemato sul sedile del passeggero. Oscar s’era ricordata della sua presenza solo quando la frenata brusca davanti al pronto soccorso l’aveva proiettato nel parabrezza. Lo lasciò a parcheggiare l’auto, catapultandosi all’esterno del veicolo per seguire Andrè. Non perdeva d’occhio la barella su cui era caricato, facendosi strada fra il tumulto di persone in attesa davanti all’edificio. Lui era circondato da medici ed infermieri che piano piano accorrevano, mentre un altoparlante annunciava il codice rosso.
 
Rosso.
Si da nei casi più gravi? In quelli urgenti? Perché così tante persone scalpitavano per prendersi cura di lui? Oscar si domandava tutte queste cose mentre continuava a correre, fino a quando le fu sbarrata la strada da una porta automatizzata, così bianca da fare male agli occhi. Se li chiudeva continuava a vedere le luci rosse e blu lampeggianti dell’ambulanza impresse nella retina.
Cominciò a battere i palmi delle mani lungo la porta. Sentiva la sua voce urlare, ma non s’era resa conto di aver cominciato a farlo. Le persone le passavano attorno avanti e dietro come fossero mosche. Nessuno però entrava né usciva.
Se fosse riuscita a far silenzio, si sarebbe resa conto che dall’interno della sala proveniva il bip regolare e frenetico del suo cuore. Se ci fosse riuscita, quel rumore l’avrebbe tranquillizzata, le avrebbe comunicato prima di chiunque altro che Andrè era ancora vivo. Invece scalpitava. Non rimaneva ferma nemmeno per pochi secondi, camminava avanti ed urlava davanti alla porta prima ancora  di sapere se fosse o meno necessario.  
 
Neanche quando finalmente qualcuno venne fuori, Oscar si accorse del bip tranquillizzante che continuava a suonare, disegnando strane curve su uno schermo.
Oscar non si aspettava nessuno così presto, che era successo? Guardò l’orologio sul polso, ma era impossibile definire un lasso di tempo. Non sapeva neanche a che ora era successo tutto. Cronometrò a mente che non poteva esser passata più di un quarto d’ora per non vedere ancora Alain correrle appresso.
 
Era un brutto segno, vedere già lì qualcuno a parlarle, giusto? O buono? Significava che non c’era niente da fare perché stava troppo male o perché non si era fatto niente? Era stata una operazione semplice? Si era fatta impressionare dalla paura di perderlo?
 
“Lo portiamo in terapia intensiva.” Le disse un uomo vestito in maniera disordinata di blu e celeste, forse un infermiere.
 
“Dove?” si fece indicare lei.
 
Quello le indicò un corridoio e delle strisce colorate di giallo a terra, che disegnavano un percorso da seguire.
 
Senza neanche chiedere informazioni o fare domande del tipo “ce la farà?”, lasciò quel posto e corse lungo la via gialla. Non le importava neanche di sapere. Come sarebbe andata a finire l’avrebbe scoperto. Le importava solo stargli accanto, fargli sapere che non era solo, che lei c’era e sarebbe rimasta per tutto il tempo necessario.
 
***
 
 
2015
 
“Ti ho portato un caffè.” Disse Fersen, o il conte, come lo chiava Andrè. Hans, come avrebbe dovuto chiamarlo lei, ma il suo cognome gli era rimasto incollato addosso quando si erano conosciuti. Si sedette accanto a lei e le passò un bicchiere di cartone pieno.
 
“Grazie.” Rispose Oscar, bevendone un sorso. Il caffè caldo le scese in gola. Era amaro, le si appiccicava ai denti ed il cattivo sapore le si incollò sul retro della lingua. Scosse il capo, come se questo potesse cancellarlo.
 
“Il tuo Andrè è ancora dentro?” disse il conte, cercando con la voce di diversificare il tono delle parole per metterne in luce una soltanto. Accennò un sorriso divertito, prendendola in giro, forse per la prima volta da quando lo conosceva.
 
Oscar lo guardò. Suonava ancora strana quella frase, sia pronunciata con la sua voce sia pronunciata con quella di Fersen. “Sì.” Rispose. Gli occhi le si imperlarono di lacrime, che scacciò velocemente col dorso della mano.
 
“Tranquilla” le disse, mettendole la mano sulla schiena in una carezza imbarazzata. “Andrà tutto bene. Sta bene.” Le ricordò.  
 
“H-hm.” Mugugnò lei. “Grazie.” Disse poi. Ripensò a quando avrebbe voluto con tutto il cuore le sue attenzioni, a quando lo guardava in attesa di un suo sorriso, a quando si sentiva piccola accanto ad un uomo imponente ed allo stesso tempo gentile come lui. Lo considerava quasi intoccabile. Perfetto nei modi e maniere, nel carattere, nell’aspetto.
 
“Dovresti farti medicare quella mano.”
 
Oscar si guardò la mano destra. Il palmo era rosso e viola, scorticato. Il sangue le si era di nuovo appiccicato sulla pelle, tra le dita. Se le passò l’una contro l’altra per eliminare la sporcizia. “Dopo.”
Tamburellò col piede a terra, mentre non riusciva a fare altro che guardare le linee nere tra le mattonelle. Fersen continuò a sorseggiare a gambe incrociante
 
Finalmente uscì qualcuno dalla porta. Oscar aveva dimenticato di tendere l’orecchio per ascoltare le persone nelle sale. Era un medico, indossava quei camici monouso verdi, macchiato di sangue. Era di Andrè quel sangue? Il dottore si strappò di dosso quel coso, rimanendo in divisa verde anch’essa, linda e pulita. Si tolse la cuffietta e si preparò per parlare con la famiglia.
 
“Resta.” Le disse Fersen, fermandola con un gesto della mano. “Vado io.”
Si sentì protetta. Stava perdendo il controllo, ma qualcuno stava finalmente prendendo le redini di quello che le succedeva attorno. La Oscar di una volta si emozionò per tutte quelle attenzioni riservatele da Fersen, il suo primo amore.
“Salve, può dirci qualcosa?” chiese Fersen con garbo, con tutto il corpo in posizione d’ascolto: il capo piegato di lato, le mani nelle tasche e le gambe angolate tra il medico ed Oscar, come se la stesse invitando a raggiungerlo
 
“Siete parenti?” chiese il dottore.
 
“Sì,” rispose Fersen per entrambi “siamo amici di famiglia.”
 
Oscar pensò all’assurdità di quello che Fersen stava dicendo. Non era solo un’amica di famiglia. Era stata sua sorella mentre crescevano, la sua migliore amica durante l’adolescenza, la donna che amava da quel punto in poi. Era stata la famiglia che lui aveva perso, la donna che lo aveva respinto e poi di nuovo accolto come se fosse parte di sé, come se fosse un braccio o una gamba. Ma nulla di più. Non c’era un’unica parola o un vincolo legale che potesse contenerli. E per quanto riguardava Fersen invece, Andrè non lo sopportava. Non erano mai stati amici. Andrè non sopportava quelli come lui. L’aveva invidiato per tanto tempo, ne era stato geloso, ma aveva sempre ritenuto fosse falso, costretto, poco spontaneo. Non il genere di persone che meritavano la sua attenzione. Oscar lo guardò con gli occhi di Andrè per un attimo. Quei modi accorati sembravano nascondere uno spirito malato e ferito.
 
Oscar li raggiunse, incrociò le braccia ed attese la risposta del chirurgo. “Se la caverà.” Disse lui “Il signor Grandier è fuori pericolo.” Oh, meno male! Sorrise lei. Il suo Andrè era fuori pericolo. “Lo portiamo in reparto tra qualche minuto, non appena si sveglia dall’anestesia. Chirurgia d’urgenza.” Specificò quello.
 
“Devo andare.” Disse subito lei. Raccolse le sue cose: la borsa, il cellulare scarico, il cappotto e gli effetti personali di Andrè che lui aveva lasciato in auto quando l’ambulanza l’aveva portato via.
 
Hans ringraziò il dottore e la raggiunse. “Ti lascio.” Le disse mettendole una mano sul braccio ad attirare la sua attenzione “Manda un saluto al caro Andrè da parte mia.”
 
“D’accordo.” Rispose lei meccanicamente. Si guardò attorno a cercare un tabellone dove fossero indicate le posizioni dei reparti. La chirurgia d’urgenza era al terzo piano. Fece mente locale di dove si trovava e si avviò salendo lungo le scale.
 
“Oscar.” La richiamò il conte con fare teatrale, facendola girare. Sorrideva mentre cercava le parole giuste, le più misurate e prudenti che riuscisse a trovare. Aveva un’espressione indecifrabile, come se per la prima volta volesse dire qualcosa ma non sapeva bene cosa. “Sono felice per te.” Arrangiò alla fine.
 
“Per la mano?” chiese lei, lasciando andare un sorriso. Eludendo quello che Fersen le cercava di dire, ma allo stesso tempo piena di voglia di continuare a parlarne ancora ed ancora.
 
“No,” fece lui con semplicità “l’altra cosa.”
 
***
 
2019
 
Oscar si era trovata davanti ad una dottoressa che non faceva altro che elencarle cose che erano attaccate al corpo di André: le vene sulle braccia e sulle gambe erano deboli, non riuscivano a prenderle, avevano dovuto inserire un grande ago in una grande vena del suo collo; l’ossigeno lo raggiungeva a grandi flussi dal muro fino al naso; aveva un catetere nella vescica e la sacca era vuota. “I reni non funzionano bene.” Le spiegò “E neanche i polmoni, per non parlare del cuore…”
 
“Dottoressa!” Chiamò un’altra persona. Finalmente Alain l’aveva raggiunta. Era alto, imponente, quasi terrificante, un vero e proprio energumeno. Già il suo tono di voce, quasi fosse un sfogo, faceva intuire il suo animo irrequieto. Prese aria e si mise le mani sui fianchi in posa arrogante, come se fosse pronto a scattare, a fare a pezzi tutto. Non aveva paura di fare la domanda che Oscar stava evitando. Anzi, qualora non gli fosse piaciuta la risposta avrebbe reagito.  
 
Ad Oscar però non andava di farsi tirar via quel diritto. Tirò fuori il coraggio allora prima di lui. Lo mise da parte e domandò “Ce la farà?” chiese con tutto il coraggio che aveva.
 
L’altra, la dottoressa, li guardò fisso. Non sapeva cosa dire, come rispondere. Vide la donna pendere dalle sue labbra, sgranare gli occhi in attesa, con la gola che faceva su e giù per ingoiare lacrime, saliva ed ansia. Ci voleva coraggio per dire che una persona così giovane stava morendo. I dottori si inventano tante parole come “prognosi riservata”, “condizioni scadute” o “insufficienza multiorgano” per non rispondere a domande come quelle. Scrollò le spalle. “Non lo sappiamo.” Disse alla fine.
 
“Che significa che non lo sapete?” domandò Oscar stupita e delusa dalla risposta, arrabbiata anche. Aveva racimolato da poco il coraggio di ascoltare ed a sorpresa non esisteva una risposta. Mille pensieri disordinati cominciarono ad affollarle la testa: non aveva un piano, non sapeva cosa fare, non era pronta a qualunque cosa l’attendesse ed Andrè era da solo in una stanza fredda d’ospedale, con tanti tubi che gli entravano nel corpo e lo martoriavano.
 
“Non dipende da noi. Gli antibiotici e gli altri farm…”
 
“Possibile che non ci sia une medicina che funzioni sicuramente?” urlò Alain “Il progresso, il progresso,” cominciò a blaterare “a che cazzo vi servono tutti i soldi per le ricerche?”. Si mise una mano sulla bocca per fermare qualunque altra porcheria gli stesse uscendo. Le mani gli tremavano, ma erano occupate. Erano i piedi che non riuscì a fermare dal prendere a calci le panchine e le sedie in quel bugigattolo.
 
Il trambusto non spaventò Oscar, né la fece avvicinare ad Alain per fermarlo. Non le diede fastidio, anzi risvegliò una parte di lei ribelle che scalpitava per uscire. Assorbì la rabbia di Alain e la fece sua, mischiandola alla tristezza ed alla disperazione che stava provando. “Dategliene di più.” Sentì uscire perentoria dalla sua bocca.
 
“Signora, non possiamo.” Cercò di giustificarsi l’altra e li guardò entrambi con quegli occhi che esprimevano pena per il dolore che stavano provando loro e per la sorte che era destinata al suo giovane paziente “Lo uccideranno le medicine così.”
 
“Che cazzo.” Fece Alain a voce alta perché quella lo sentisse.
 
“Avete detto che sta morendo.” Riprese Oscar a voce bassa e sguardo truce, imperante. “Dategliene di più o muore davvero.”
 
L’altra donna sospirò. “Capisco la frustrazione, ma non possiamo fare altro.” Ripeté scandendo le parole e li lasciò.
 
Oscar urlò e, come prima Alain, cominciò a prendere a calci tutto quello che trovava, con le mani impegnate a tener ferma la testa, confusa di pensieri, che quasi esplodeva. Urlò con tutto il fiato che le era rimasto. Urlò con voce roca, che già ormai s’era esaurita. Pianse più che poteva, come se sforzarsi di soffrire di più l’avrebbe aiutato in qualche modo.
 
Fu Alain a fermarla. L’afferrò da dietro e sollevò da terra. Lei continuava ad agitarsi ed a prenderlo a pugni. Doveva fare di più, di più. Ma Alain non la mollava e non diceva niente. Voleva che la ferisse, voleva che la schiaffeggiasse, che cominciasse a litigare con lei per farle uscire quella confusione violenta dalla sua testa.
“Smettila, non deve vederti così.” Gli bisbigliò invece lui.
 
Fu solo allora che si calmò, all’improvviso. Cessarono le urla, gli strepitii, tutto quanto. Oscar si girò verso la stanza in cui l’avevano portato. Piegò il viso di lato, come intenerita e dispiaciuta, colpevole di aver perduto tempo in gesti inutili, lasciandosi andare ai sentimenti come una qualunque. Cominciò a camminare per raggiungerlo.
 
***
 
2015
 
“Andrè?” lo chiamò Oscar entrando nella stanza. Era nascosto dietro a delle tendine celesti, tirate fino al centro della stanza. Occupava il letto dal cuscino fino ai bordi del materasso. Le lenzuola bianche di cotone grezzo erano tirate come a tendina dai suoi piedi. Teneva le mani sulla pancia. Un apparecchio a pinza grigio lo teneva attaccato attraverso un dito della mano ad un monitor, che emetteva un suono a ritmo del suo cuore. Una sola flebo gli stava facendo fluire medicine nelle vene.
Aveva i capelli spettinati da un lato, una benda che gli copriva metà capo dall’altro. Odorava di disinfettante ed acqua ossigenata. Aveva l’odore delle sbucciature sulle ginocchia che si facevano da bambini. Ad Oscar le sembrò di rivederlo bambino. “Ciao.” Lo salutò non appena lui aprì gli occhi. Le sembrava di salutarlo per la prima volta o forse era più appropriato dire che lo stava salutando con occhi nuovi.
 
“Ciao.” Rispose lui con voce stanca.
 
“Come stai?”
 
Andrè strinse gli occhi, si concentrò su quello che sentiva, ma non sentiva niente. Né il dolore, né le mani, né le gambe, il torace o le costole rotte. Provò a muovere le dita delle mani e dei piedi. Sembrava tutto apposto. Si girò ed indicò l’apparecchio appeso accanto al letto che gli faceva scendere l’anestetico nelle vene. “Strafatto” biascicò.
 
Oscar sorrise.
Era bello quel sorriso. Era strano, era diverso. Era per lui, l’aveva fatta ridere. Era suo. Forse era solo troppo stonato per capire.
“Mi hai fatto prendere un bello spavento.”
 
Andrè rimase colpito. Batté le palpebre come se stesse uscendo dalla nebbia di morfina, dove tutto pareva un sogno. Ogni suono, ogni battito, ogni frase che usciva dalla sua bocca sembrava come ovattato. Persino in quella nuvola però, il pensiero che lei si fosse spaventata, la sua preoccupazione, lo fece tremare. Quasi balbettare quando parlò di nuovo. “E..e…e t-tu stai bene?”
 
“Solo graffi.” Rispose lei sorridendo e mostrandogli la mano.
 
Andrè cercò di afferrarla per fermarla da quell’oscillare lento che erano però solo sue percezioni. Era come stare su una nave in burrasca. La prese e cominciò a battergli forte il cuore. Il monitor accanto al suo letto segnalò l’anomalia. Il simbolo lampeggiante a forma di cuore cominciò a prendere la corsa. Oscar lo sentì, ma non si girò a guardarlo. Sorrise ad Andrè. Se ne avesse avuto uno anche lei, avrebbe emesso lo stesso suono impazzito. Rimase a guardarlo, senza che i sentimenti di lui le dessero fastidio o le facessero pena come una volta. Andrè la studiò, quasi fosse strana per lui quella reazione.
 
I farmaci avevano sciolto le redini con cui tratteneva sempre le sue azioni. Aveva cominciato a carezzarle la mano e stava saggiando per la prima volta come fosse fatta sotto le dita: il palmo morbido, le nocche spigolose, le vene turgide che disegnavano un arco sul dorso. Quando arrivò ai graffi profondi che le correvano sul polso, sull’arco del pollice ed il dorso delle dita, come se avesse usato i pugni chiusi a scudo per difendersi, istintivamente lei se la ritirò e fece una smorfia per il bruciore provato.
 
“Meno male.” le disse lui, sull’ormai rotta magia. Meno male che sono solo questi graffi, avrebbe voluto finire la frase. “Come sei arrivata qui?” chiese poi Andrè, ripensando a quello che era successo, ricostruendo la scena dell’incidente. Oscar non si era fatta niente. Le avevano guardato le mani, le avevano detto che erano solo graffi dall’asfalto. L’avevano pulita mentre caricavano invece lui sulla barella. Era solo in ambulanza. Lei non era salita. L’aveva vista accanto all’auto danneggiata, sollevandosi a sbirciare, provocandosi un dolore che gli trafisse il torace e gli tolse il respiro.
 
Il sorriso morì. “Fersen.” Si vide costretta ad ammettere lei, sapendo che il uso nome avrebbe rabbuiato il volto di Andrè.
 
Lui girò il viso e si nascose nel cuscino. Attento Andrè, gli diceva la sua parte più coscienziosa, così le farai capire che la ami. Romperai quel legame di amicizia che avevate a fatica recuperato. E tu ci tieni alla sua amicizia, vero? Come all’acqua che bevi o all’aria che respiri.
 
“Rimango qui con te.” Gli annunciò lei.
 
“Cosa? No, vai a casa.” Si lamentò lui. C’era una parte di Andrè che si preoccupava per Oscar, per la sua schiena addormentata su una sedia, per il suo lavoro che l’avrebbe svegliata di primo mattino, per i suoi graffi e lo spavento che poteva aver provato. Per tutte quelle cose che reclamavano il riposo nel letto di casa sua, dove conosceva ogni forma, rumore ed odore. C’era poi un’altra parte di lui che non voleva che lei se ne andasse. Che gli rimanesse accanto per guardarla dormire, da vicino eppure da lontano. Una parte che voleva tutta l’intimità che lei era disposta a dargli. Aspettò la sua risposta come si aspetta il bus alla fermata in una calda giornata d’estate.
 
“Tua nonna mi ucciderebbe se tornassi.” Si giustificò lei.
 
Ad Andrè sembrava tutto un sogno o un’allucinazione frutto degli anestetici. La nonna la adorava, anche più di quanto volesse bene a lui. Non le avrebbe mai detto niente se fosse tornata. Anzi sentiva la sua voce rimproverarla di aver perso tempo con suo nipote. La guardò recuperare una sedia dall’angolo della stanza, avvicinarla al suo letto e mettersi comoda pretendendo che fosse la seduta più morbida del mondo. Andrè sorrise: lei era premurosa e divertente. Le fece spazio sul bordo del letto, dove lei incrociò le braccia e vi poggiò il capo. Solo dopo qualche minuto Andrè prese il coraggio di giocare coi suoi capelli e si addormentò con una ciocca di biondo grano profumato tra le dita.  
 
***
 
2019
 
“Ciao.” Salutò Oscar.
Si era asciugata meccanicamente gli occhi prima di entrare. L’aspetto avrebbe potuto quasi ingannare, ma la voce tremolante ed insicura non potevano ingannare Andrè ed Oscar lo sapeva. Aveva paura che avrebbe capito, che ne avrebbe avuta anche lui di morire in quei momenti, che potevano essere gli ultimi. Il pensiero le fece riempire di nuovo gli occhi di lacrime. Impostò una posa composta per nasconderlo, come faceva con suo padre da bambina.
 
“Ciao.” Rispose Andrè sorridendo. Allungò una mano per farsela afferrare da lei, che lo raggiunse quasi correndo e mettendoglisi al capezzale. Oscar accompagnò la mano di lui sul suo viso perché potesse accarezzarla e sentirla vicina.
 
“Come stai?” gli domandò stupidamente lei. Cosa si dice in queste occasioni? Come si dà coraggio e forza a qualcuno quando non se ne ha neanche un goccio.
 
“Ho avuto giorni migliori.” Rispose lui con voce impastata “Guardami.” Le disse mentre lei nascondeva il capo tra le lenzuola, con ancora la sua mano sulla guancia. La costrinse a tirare su il viso e le asciugò il rivolo di lacrime che le stava solcando la guancia. “Non me ne vado.” Le disse per tranquillizzarla.
 
Oscar lo fissò, stupita ed ancor più innamorata: era Andrè che stava consolando lei. Quanto era straordinario quell’uomo? Come aveva fatto a non notarlo prima? Come aveva potuto non innamorarsi di lui sin da subito, sin da quando da bambino le aveva retto il gioco sulla sua identità. “No, non te ne vai.” Ripetè tra le lacrime. Quanto tempo perso? Quanto tempo non sfruttato? Quanto amore non donato? Pensò a quella che era la loro casa, che li aspettava. A tutti i mobili, al letto di fronte alla finestra, alla cucina illuminata dal sole alle otto del mattino, alla macchinetta del caffè in un angolo, che lui le lasciava accesa ogni mattina perché lei la trovasse pronta. Ripensò al cassetto del comodino in cui aveva trovato un oggetto. All’emozione forte che aveva sentito quando aveva sfiorato la scatola di velluto con le dita. A come l’aveva nascosto di nuovo, perché fosse lui a porgerglielo in dono come aveva progettato. Ancora altro tempo sprecato. “Andrè.” Lo chiamò perché di tempo non se ne perdesse più. “Ho trovato l’anello nel tuo comodino. Non sai nascondere le cose. Fin da bambini, ti ricordi? Trovavo sempre i tuoi regali di natale.”
 
“Non ho mai voluto nasconderli.” Rispose lui sorridendo, ripensando a tutti i natali.
 
“Sì.” Fece di slancio lei per attirare la sua attenzione “Sì. Sì, comunque. Ci sposeremo. Mio padre mi accompagnerà all’altare e ti stringerà la mano. Tua nonna dirà che la torta è troppo dolce. Balleremo e mi sopporterai dire mille volte che non sopporto quel vestito.”
 
“Sarai bellissima con quel vestito.” Rispose Andrè trasognato. La voce era persa come se stesse per addormentarsi. Gli occhi aperti guardavano in alto al soffitto. Persi, vuoti. Ad ogni secondo sembrava perdere una parte di sé, che si staccava dal suo corpo, dalla sua anima, e se ne andava in cielo. “Riesco a vedere tutta la scena.” Fece.
 
Voleva allungare una mano per afferrare quel momento. Era là davanti ai suoi occhi. Non si trovava più in ospedale, ma era in un giardino fiorito. Era primavera ed era nervoso. Sbuffava per controllare l’ansia ed il cuore che batteva all’impazzata. Guardava ovunque ma non lungo quella navata improvvisata. I suoi amici, Alain e Rosalie soprattutto, cercavano di tranquillizzarlo. “Vedrai che verrà.” Gli dicevano. E lui ci credeva. Sì, lo sapeva. E poi eccola là. Bella, bellissima. Con la gonna lunga ed il corsetto bianco che le stringeva la vita ed i seni. Indossava il suo sorriso più radioso. Le guance erano rosse, emozionate. I capelli mossi e spettinati lungo le spalle, dietro la schiena. Era una ninfa fatata e bianca. Le prendeva le mani e la baciava prima del sì, prima di tutto, perché non poteva aspettare. Avrebbe fatto l’amore con lei lì, davanti a tutti. Poi avrebbe dormito con lei, le avrebbe detto stremato…
“Oscar, ho tanto sonno.” Le pronunciò per davvero ad alta voce.
 
“No, no. Per favore, no.” Lo agitò lei per fargli aprire gli occhi, mentre un’altra parte di lui se ne andava. “Ti prego.”
 
“Sono sveglio, sono sveglio.” La rassicurò aprendo gli occhi in un breve momento di lucidità. Poi tornò di nuovo a quel giardino, in quella primavera. Persino là faceva caldo. Sentiva la camicia stringergli addosso, la pelle sudare e la gola secca “Puoi… puoi portarmi dell’acqua? Per favore.” Le chiese.
 
“Acqua? Acqua, certo. Acqua.”
Oscar corse fuori e cercò una fontana o un distributore. Vide un boccaccione pieno a metà, con la fontanella di plastica in cui riempire i bicchieri. Si guardò attorno e l’unica cosa che riuscì a procurarsi, prima di doversi arrangiare con le mani, era un barattolino basso col tappo rosso, che poteva servire nell’ospedale a raccogliere qualche campione. Si augurò che fosse pulito, lo riempì e corse di nuovo verso la stanza di Andrè.
 
Ma la porta era chiusa ed Alain stava davanti a bloccarle il passaggio. “Non entrare.” Le disse solo.
 
Oscar guardò di nuovo il suo bicchiere improvvisato e l’acqua che si agitava come se ci fosse il terremoto. Alzò gli occhi e si guardò attorno. Medici ed infermieri correvano all’unisono verso la stanza. Dentro si muovevano come un’unica macchina attorno al corpo di Andrè. Uno di loro alzò le piastre e tutti si allontanarono. Un suono assordante annunciò che il defibrillatore si stava caricando. Un altro premette il pulsante. Il corpo di Andrè saltò. La linea sul monitor che era ancora agitata fino ad un attimo prima, diventò piatta. Una dottoressa ordinò qualcosa all’infermiere. Iniettarono farmaci e poi cominciarono a premere ritmicamente sul suo petto. Un altro sgonfiò di ossigeno un palloncino contro la sua bocca. Oscar non capiva cosa stessero facendo. Si guardava dall’esterno a guardare tutta la scena, incapace di muovere un muscolo, incapace di realizzare cosa era successo.
 
Se Oscar avesse ascoltato bene anche questa volta, avrebbe notato una nota stonata, qualcosa mancante. Quel bip che avrebbe potuto rassicurarla all’inizio si era spento.
 
Crollò a terra, incapace di muoversi, incapace di piangere, incapace di vivere.
 
***
 
2015
 
“Non c’è bisogno di portarmi a letto.” Sbiascicò Andrè. Si rese conto troppo tardi di come le era uscita quella frase. Gli antidolorifici gli facevano sempre uno strano effetto disinibente: pensava una cosa e la diceva ad alta voce. Cominciò a ridere da solo, rifiutandosi di guardare Oscar, la sua cara, carissima amica in faccia. Lasciò andare la spalla che lei gli aveva offerto come supporto e si accasciò sul divano di casa sua ancora al buio.
 
“Hanno detto che non devi fare sforzi.” Oscar disse, nascondendosi dietro le parole di medici ed infermieri. Ci nascose dietro i suoi sentimenti e la voglia di stare ancora con lui per quella sera.
 
Andrè riprese contegno, la guardò e capì che c’è qualcosa di storto in quella conversazione. Smise di ridere e cercò i suoi occhi. Non faceva altro che nascondersi e quando credeva che non la guardasse, sollevava gli occhi per spiarlo. Purtroppo buona parte delle volte era stata sorpresa a fissarlo. Non si era mai comportata così, era strano. Faceva sentire lui strano, con un sentimento addosso misto tra l’esaltazione e l’imbarazzo.
 
“Beh, allora vado.”
 
“No, resta. Non si era detto niente sforzi?” domandò tentando di simulare una voce supplicante. Oscar fece un cenno col capo, poi lo invitò ad alzarsi di nuovo per raggiungere la camera da letto, dove il suo cuscino e le sue coperte lo aspettavano. La fece contenta ed a piccoli passi cominciò a camminarle accanto. “Fersen sta bene?” chiese poi, una volta raggiunta la stanza, sperando di poter attirare la sua attenzione e trattenerla lì ancora per qualche secondo. Andava bene tutto, avrebbe parlato di tutto pur di farla rimanere lì.
 
“Sì, sta bene.”
 
“Ne sono felice.”
 
Era sempre stato facile parlare con lui. Avrebbe potuto intavolare anche in quel momento una discussione sulla politica, o sull’aumento del caro vita, sulla fame nel mondo o sulla monarchia inglese, e Andrè avrebbe sempre risposto e detto la sua. E lei gli avrebbe risposto ed avrebbero parlato e parlato ancora. In quel momento invece tutti gli argomenti sembravano essersi esauriti. Riusciva solo a  guardarlo di sottecchi, spiarlo sotto alle ciglia, scrutare la figura lunga, le spalle larghe, le pieghe della camicia e dei pantaloni. Si imbarazzò di quello che stava facendo, di quelli che erano  diventati in una sola notte i suoi pensieri. Doveva negare, negare fino alla morte.
 
“Voglio bere.” Esordì lui all’improvviso. Voleva perdere il lume definitivamente, l’ultima briciola di ragione che si sarebbe tramutata in coraggio. L’avrebbe presa, baciata, rigirata su quel divano ed avrebbe… Che pensiero sciocco. No, stupido Andrè. Avevi promesso che non ci avresti mai più pensato. Stupido, stupido. A questo gli serviva l’alcol, a dimenticare anche l’ultima promessa.
 
“Sei appena stato investito.” Gli rispose Oscar, nascondendo lo stupore dietro il suo senso pratico. Poi si alzò, andò in cucina, stette via qualche secondo. Tornò con un bicchiere d’acqua e glielo porse.
 
Andrè sorrise. “Grazie.” Le disse e bevve tutto d’un sorso, concludendo con un verso soddisfatto.
 
“Buona notte.” Gli bisbigliò poi Oscar. Si alzò e si avviò verso la porta. Aveva un passo titubante. Si voltò una o due volte, indecisa se andarsene davvero o raggiungerlo di nuovo per lasciargli una carezza o un bacio timido sulla guancia. Lasciò perdere e lo accarezzò con lo sguardo, immaginandosi la sensazione della guancia ispida sotto le dita.
 
“Buona notte.” Rispose lui e si addormentò, ancora assalito dal dubbio che si trattasse tutto di un sogno.
 
***
 
2019
 
Tornò a casa da sola. Casa di Andrè. Casa loro.
Aprì la porta e lasciò cadere le chiavi nella ceneriera sulla credenza. Il suono riempì il silenzio. Qualunque rumore sembrava assordante in quel posto vuoto.
 
I ricordi si confondevano con la realtà. Quasi riusciva a vedere Andrè venirle incontro per salutarla con un bacio sulla guancia, una padella in una mano ed un cucchiaio in un altro per farle assaggiare l’ennesimo tentativo di cena bruciata. Oscar guardò verso la cucina. C’erano ancora due bicchieri sul tavolo ed i piatti sporchi nel lavandino. Piatti in cui avevano mangiato non più di cinque ore prima.
 
Credeva di aver già perso la capacità di provare rabbia. La tristezza l’aveva annullata. Meccanicamente si diresse verso la camera da letto. Voleva solo dormire. Dormire e non svegliarsi mai. Dormire per non sapere che viveva in un mondo che non condivideva più con Andrè, in cui lui non c’era più.
 
Affondò sul materasso, dal lato su cui lei dormiva sempre. Il letto era ancora sfatto. Trovò il suo pigiama avvolto nelle coperte. Lo sfiorò cercando il calore e l’odore che aveva la sua pelle. Lo annusò, sentendosi disperata e rassicurata insieme. Lo abbracciò e posò il capo sul cuscino. Cominciò a piangere. Quando ebbe finito le lacrime ancora un’altra volta, aprì gli occhi. Le cadde lo sguardo sul comodino, dove era custodito l’anello. Non volle avvicinarsi per prenderlo. Non voleva rovinargli il momento, la sua proposta. Voleva che fosse lui a darglielo, pensò, dimenticandosi completamente che Andrè non poteva più farlo. Gli dirò anche che potevo prenderlo ma non l’ho fatto, pensava. Gli dirò di come mi sta facendo male, di come mi sento.
Glielo dirò, glielo dirò.
 
Strinse il tessuto più forte e più forte ancora. Voleva distruggerlo. Perché gli faceva questo? Perché? Lo lanciò via con rabbia, al centro della stanza. L’indumento era troppo leggero per quel gesto arrabbiato e non le diede neanche la soddisfazione di volare lontano. Avrebbe voluto urlare, ma non aveva più voce per farlo.
 
Quando si calmò aprì il cassetto e prese l’anello. Lo scatolino in velluto custodiva una pietra azzurra, avvolta da rami d’oro bianco sui lati, che la tenevano incastonata ad una banda sottile. La pietra aveva il colore del cielo in estate. La nonna una volta aveva detto che bisogna scegliere la pietra del colore degli occhi della persona a cui lo vuoi regalare. La toccò con le dita. Ne assaporò i margini spigolosi, come se qualunque sensazione nuova potesse distrarla. Lo indossò e si guardò la mano.
 
L’avrebbe sposato, avrebbe detto di sì.
Lei si sarebbe emozionata e lui le avrebbe stretto un po’ di più la mano, impaziente, mentre il prete completava l’omelia. Lui sarebbe irrequieto fino alla fine. L’avrebbe cercata più e più volte e le avrebbe sorriso, fino al “sì” finale, fino al “lo voglio”. E allora l’avrebbe baciata e ci sarebbero stati applausi e lanci di riso. Avrebbe trovato rifugio sulla sua spalla, mentre lui per entrambi stendeva il braccio quasi ci avesse messo su uno scudo. Poi l’avrebbe portata in braccio a casa. L’avrebbe chiamata “moglie” e si sarebbe addormentata sullo stesso letto, nel suo abbraccio.
 
Oscar nascose la testa nel cuscino e prese un respiro profondo che sapeva di lui. Si addormentò inebriata, sperando di continuare a sognare.  



 


Angolo dell'autrice
Era un po' che mi frullava qualcosa in mente, ma non era molto chiaro. Così ho aperto word e messo giù le scene che riuscivo a figurarmi. Vedevo Oscar in sala d'attesa in un ospedale, Andrè collegato al monitor che sognando immagina il suo matrimonio... Mentre scrivevo ho avuto l'idea di questa storia. 
Dovete sapere che ho una passione sfrenata per le storie AU, che trovo di una difficoltà enorme perché il rischio di OOC è dietro l'angolo. Ho aggiunto comunque l'avvertimento. Sono sicura che in qualche cosa c'è. Mi è piaciuto comunque in sole dieci pagine giocare coi personaggi: ho cercato di fare in modo che Oscar in questo caso, fosse influenzata per esempio da chi aveva attorno. Per esempio "assorbendo la rabbia di Alain" o "facendosi proteggere da Fersen", rispecchiando un po' il ruolo diverso che hanno avuto nella sua vita. 
E insomma! Spero che la storia vi sia piaciuta tanto quanto è piaciuto a me scriverla. La prossima la faccio NC17, promesso XD così almeno non si piange! Fatemi sapere cosa ne pensate, se posso spingermi con qualche altra AU.
Un caro saluto a tutti,
Summers

 
  
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