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Autore: Padme Undomiel    22/07/2022    0 recensioni
[Soulmate!AU]
Miyako ha sempre avuto due grandi convinzioni, fin da quando ricorda. La prima: non c’è dono più grande, al mondo, di avere un’anima gemella che ti aspetta da qualche parte, e un modo per riconoscerla. La seconda: se sai come cercarla, dovresti iniziare a farlo senza indugiare.
Chissà perché, allora, la vita si diverte a cercare di disintegrare le sue convinzioni come se non fossero altro che castelli di sabbia.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Miyako Inoue/Yolei
Note: AU, Soulmate!AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Against the rules







 
8.






 
Quando era piccolo, Ken aveva sempre la pelle piena di inchiostro.
Le sue zone predilette erano mani e braccia, destra o sinistra non importava; ma a volte, soprattutto d’estate, col caldo e i pantaloncini corti, arrivava a scriversi anche le gambe, le ginocchia, i piedi e persino gli alluci.
C’era poco che sapesse scrivere per allora: aveva imparato a scrivere il suo nome in ideogrammi, e quel “Ken-chan” sbilenco, storto, tremolante, goffo o anche solo abbozzato era tutto ciò che qualunque adulto potesse leggergli addosso.
A lui bastava.
Agli adulti no.
“Non sono vere Parole”, era costretta a spiegare sua mamma quando veniva convocata, all’asilo, da insegnanti preoccupate e un po’ giudicanti. “Ken-chan gioca. Gli abbiamo detto più volte di non farlo, ma vuole avere le sue Parole.”
“Ma suo figlio ha già quattro anni”, rispondeva di solito l’insegnante. “Come mai non ne ha di vere e proprie?”
Ken guardava sempre sua mamma, quando facevano domande del genere. La mamma non conosceva mai la risposta.
“Non succederà più”, prometteva invece. “Sia comprensiva, sta cercando di emulare suo fratello.”
Bastava dire quel nome perché l’atteggiamento dell’insegnante cambiasse.
“Certo, certo, capisco benissimo … e come sta Osamu-chan? Che bambino sveglio, mai avuto qualcuno con una mente come la sua. Sapeva già leggere e scrivere a cinque anni … d’altronde cosa aspettarsi da un bambino precoce come lui? Se non ricordo male aveva le Parole già a due anni!”
Non riesce mai a ricordarsi cosa la mamma rispondesse di fronte a commenti simili. C’è solo una cosa che ricorda: come gli occhi le brillassero ogni volta che si parlava di Osamu.
Solo quando si parlava di Osamu.
Ken stava zitto, abbassava la testa, si strofinava distrattamente le sue finte Parole, e le osservava sbiadire.
“Devi avere pazienza”, gli diceva qualche volta Osamu quando giocavano in terrazza. “Guarda che le avrai anche tu. Le hanno tutti.”
“Ma io voglio essere come te!” Si lamentava lui. 
Osamu gli sorrideva. I primi tempi gli sorrideva un sacco, se lo ricorda ancora. “Ma tu vai bene così, Ken.”
Però non era vero.
Non andava affatto bene così, perché lui non aveva proprio nulla di speciale.
Non aveva i voti migliori della classe, tantomeno della scuola. Non aveva sempre qualcosa di intelligente e adulto da dire, qualcosa capace di zittire gli adulti e costringerli a guardarsi con stupore e meraviglia e dire quel mantra sempre uguale, hai sentito cosa ha detto? Alla sua età! Non era stato precoce a parlare, a scrivere, a contare. Ad avere le Parole.
Ken era un bambino normale, e questo non era abbastanza.
Non serviva a nulla andare bene a scuola, se non poteva portare a casa dei punteggi tali da costringere la mamma a riempirlo di baci, a preparargli un dolce, a vantarsi di lui con amici e parenti. Non serviva a nulla essere portato per lo sport, perché giochi con la palla e arti marziali non potevano pareggiare l’ennesima vittoria di Osamu ai giochi matematici. Non serviva a nulla cercare amici con l’entusiasmo di un bambino, perché da qualche parte suo fratello era già un
ometto*.
Nessuno voleva bene a Ken quanto ne volevano a Osamu.
Nemmeno Osamu gli voleva bene quanto Ken ne volesse a lui.
Giocavano spesso assieme, da bambini. Osamu prendeva un bicchiere di plastica per ciascuno, lo riempiva d’acqua e sapone, e tagliava le cannucce all’estremità con le sue forbicine dalla punta arrotondata. Facevano le bolle di sapone assieme. Ken era più bravo di Osamu a gonfiarle senza farle esplodere. "Tu sei più gentile di me", gli diceva Osamu.
Sono gli unici ricordi felici che ha con suo fratello. 
La cosa che gli manca più di tutto, ancora oggi, sono i ricordi felici che non ha più avuto dopo quelli.
Ben presto i libri si mangiarono Osamu, le porte chiuse lo segregarono, e tra i due si creò un muro invalicabile. Non sa quando successe, ma Ken smise lentamente di cercarlo.
A sei anni Ken aveva smesso di scriversi la pelle in zone visibili, ma non di chiudersi in bagno per inchiostrarsi la pancia. Non scriveva più il suo nome, ma un semplice
Ti voglio bene, più e più volte: la mamma aveva smesso di rimproverarlo, e si limitava a sospirare quando lo aiutava a farsi il bagno. Una volta sentì suo padre mormorare la parola Muto con sua madre quando credeva di non essere ascoltato. Nessuno ci fece più caso.
Giocava da solo, studiava da solo, evitava di far rumore quando Osamu era in casa. A volte lo sbirciava dalla terrazza, quando cercava invano di tagliare le cannucce in modo adatto a creare bolle di sapone: era sempre con la testa china sulla scrivania, sempre serio, sempre scuro in volto. 
Iniziò a diventare sempre arrabbiato, per qualche motivo che Ken non riusciva a capire.
Non con mamma e papà, quello mai: con loro era sempre il solito ometto, impeccabile e perfetto, con un sorriso gentile e i modi da adulto. Con Ken, invece, era brusco, scostante, freddo.
Mamma e papà non se ne accorgevano. Se lo facevano, era solo per ripetergli: "E' solo nervoso, Ken-chan. Si sta impegnando tanto, dobbiamo capirlo."
Ma perché nessuno capiva mai lui?
Perché nessuno era felice dei suoi successi come lo erano di quelli di Osamu?
Perché nessuno gli dava mai un bacio in più, un abbraccio in più?
Perché non era mai abbastanza per nessuno?
Ken iniziò a odiare Osamu, con una rabbia crudele e indomabile - una rabbia da bambini. 
Era tutto più bello quando Osamu non c'era. I suoi genitori erano solo suoi, le sue parole erano ascoltate, non c'erano metri di paragone. Quando c'era Osamu, a lui non restava più nulla. Era solo un bambino mediocre senza Parole, che faceva preoccupare i suoi genitori senza dare nulla in cambio.
Una volta, Ken fece una pazzia.
Si svegliò di notte, si acquattò ai piedi del letto di Osamu, tentò di scoprirgli la caviglia per leggere le sue Parole, il suo segreto. Osamu non aveva mai rivelato le sue Parole, se non ai suoi genitori. Per qualche motivo, quella notte, per Ken era fondamentale scoprirle.
Osamu si svegliò proprio in quell'istante.
Si arrabbiò, si sedette di scatto sul letto, si mise a urlare.
"Che cosa pensi di fare? Queste sono le mie Parole. Sono solo mie, mie e di nessun altro! Non potete averle!"
"Scusami", balbettò Ken mortificato, spaventato, con un groppo in gola. Neanche sapeva perché si fosse arrabbiato tanto.
Oggi può immaginarlo. Oggi, però, è troppo tardi.
Accorsero mamma e papà, scarmigliati e sconcertati, e portarono via Ken, una carezza distratta e un mezzo rimprovero. Osamu tornò a dormire, Ken lo raggiunse poco dopo, con un peso nel petto che non andava via.
I suoi genitori non rimasero nella stanza ad aspettare che Ken si addormentasse.

Sparisci, disse Ken fortissimo nella sua testa, come una maledizione. Sparisci, Osamu-niisan. Sparisci dalla mia vita!
Per una volta, per l'ultima, Osamu lo accontentò.

***
 
Una distrazione fatale, dissero. L'uomo al volante era al telefono in quel momento - stava litigando con la sua ex moglie. Ricorda di averlo visto piangere davanti ai poliziotti che lo portavano via, davanti a quell'asfalto imbrattato di sangue, davanti a quel corpo senza vita che appena qualche istante prima era suo fratello.
C'è poco, davvero poco, che ricorda di quei momenti.
Le urla di sua madre, terribili, quasi animalesche, come se l'avessero improvvisamente privata delle viscere con un coltellaccio.
Le lacrime di suo padre, inarrestabili, proprio su quel volto sempre saldo, sempre pacato.
Tanti visi, tanti sussurri, tanti abbracci senza senso. La mano enorme e assente di suo padre mentre stringeva quella di Ken.
Una celebrazione funebre, il viso di suo fratello su una lapide.
Il nome di Osamu con una data di morte.
Il suo stesso orrore, la sua stessa, indicibile, colpa.
"Non dicevo sul serio", sussurrò di fronte a quella foto sorridente ed eternamente giovane, eternamente bambina. "Non dicevo sul serio, non dicevo sul serio. Non volevo, non dicevo sul serio..."
Il silenzio attorno a sé, braccia che lo portavano via.
E poi una specie di sbigottito torpore, che avvolse qualsiasi cosa per giorni, per settimane.
Finché, un giorno come un altro, tutto andò in pezzi.
Una sua compagna di classe, timidamente, con la stessa goffa delicatezza che usano tutti gli estranei di fronte a un dolore che non possono comprendere, gli domandò cosa avesse sul collo.
Fu nel bagno della scuola, davanti agli specchi, che Ken vide le sue Parole per la prima volta.
Gli sentirono lanciare un urlo, un ultimo suono disperato e inumano, e poi più nulla.
Accorsero, e lo trovarono in ginocchio, le mani pressate sulla nuca, gli occhi sbarrati e le labbra serrate. Non riuscirono a farsi dire cosa fosse successo; non riuscirono a fare nulla per lui in infermeria, se non fornirgli un cerotto provvisorio per coprire il collo e rimandarlo a casa. 
D'altronde, come avrebbero potuto aiutarlo?
Come avrebbero potuto capirlo?

Mi fai schifo, diceva con sprezzo la sua anima gemella.
Ecco perché le sue Parole avevano aspettato tanto ad arrivare. Chi mai avrebbe voluto essere l'anima gemella di un assassino?
Di una persona sporca, marcia, crudele, avida, sbagliata?
Si sentì marchiato, e seppe che quella era la sua punizione per aver voluto troppo, per aver perso tutto.
Sentì che lo meritava, e quel pensiero zittì tutto il resto.
Quel pensiero zittì il mondo, e zittì Ken, e da allora nessuno riuscì più ad arrivare a lui.

***
 
Si fece crescere i capelli: il modo più rapido per nascondere le sue Parole sporche, per impedire che altri potessero leggerle e capire ogni cosa.
I suoi genitori non ebbero nulla da obiettare. D'altra parte, neanche loro le avevano lette in primo luogo: non avevano insistito per farlo. Non c'era posto per nient'altro, nella loro vita svuotata, che non fosse l'enorme voragine lasciata dal loro
ometto perduto.
Ken divenne un ragazzino schivo, silenzioso, solitario.
Camminava a testa bassa per le strade, curvava le spalle in avanti per proteggersi. Non parlava, semplicemente agiva: diligente in classe, competitivo nello sport. Nessun amico, mai. Nessuna distrazione, di nessun tipo.
La prestazione iniziò a diventare il suo unico scopo.
Come tante volte nella sua vita, iniziò senza pensarci: un giorno si sedette alla scrivania di Osamu per studiare, sentendosi come chi profana un luogo sacro, terrorizzato come un peccatore, eccitato come un trasgressore. Con mani tremanti prese i suoi quaderni dal cassetto, sfogliò i suoi appunti, iniziò a studiare materie avanzate con la bramosia di un ingordo, di un ladro.
Era davvero tutto lì? Tutto ciò che Osamu era stato, era davvero rinchiuso in quelle poche pagine?
La porta della stanza era aperta: sua madre, passando per il corridoio, lo vide.
Qualche volta Ken si domanda cosa sarebbe successo, se quel giorno sua madre non avesse soffermato, per la prima volta dopo tanto tempo, gli occhi su di lui.
Forse sarebbe cambiato tutto.
Forse, se sua madre non avesse sorriso, le lacrime agli occhi; se non fosse accorsa, a passi leggeri e silenziosi, e non gli avesse cinto le spalle con tenerezza, sussurrandogli qualche sciocchezza che tradotta aveva solo un significato,
Ti vedo; se non gli avesse posato un esitante bacio sul capo, chiudendo poi la porta dietro di sé per lasciarlo studiare in pace, Ken si sarebbe fermato in tempo.
E invece continuò.
Ogni giorno si sedeva a quella sedia, studiava quegli appunti fino a tardi, sfiorava la scrittura troppo adulta di suo fratello. Ogni giorno diventava sempre più bravo, sempre più geniale, sempre più brillante. I suoi voti salirono vertiginosamente, tanto che nessuno nella sua classe prima, e nella sua scuola poi, riuscì a stargli dietro.
Ora parlavano tutti di lui.
E ora, i suoi genitori gli sorridevano.
Improvvisamente ritrovarono le parole, la voglia di vivere, il desiderio di parlargli. Divennero premurosi, pieni di abbracci e attenzioni, orgogliosi. Iniziarono a guardarlo con quella gioia dolente che si riserva a un raggio di sole dopo una tempesta rovinosa.
Diventarono, finalmente, i genitori che aveva sempre voluto.
Ken iniziò a disprezzarli.
Odiava il loro sorriso esitante, odiava la loro falsa premura, il modo in cui la loro espressione sembrava spegnersi ogni volta che Ken li allontanava di mala grazia. Odiava la loro presenza ingombrante, le loro chiacchiere vuote, odiava in modo devastante vederli così fragili, così dimessi ogni volta che lo accontentavano e lasciavano che lui si sigillasse in camera, muto e tiranno.
Come aveva potuto dar loro tanto potere, in tutti quegli anni? Erano solo persone molto piccole. 
Piccole, senza meriti, che vivevano di luce riflessa, che cercavano un riscatto tramite i loro figli.
Che vivevano senza senso, attratti dalla luce delle lampadine attorno alle quali gravitavano eternamente.
Insetti.
Com’erano insetti anche tutti gli altri.
Gli insegnanti, che erano in ritardo di diversi anni nel notare le sue capacità, nel consentirgli di mettersi alla prova, che ora facevano a gara a chi lo sponsorizzava e lo supportava di più. Gli allenatori, che gli permettevano di fare tutto quello che voleva e di destreggiarsi tra calcio e judo, tra corsi di scacchi e di informatica, che erano pronti a infrangere ogni regola, in barba agli altri allievi, pur di rendere Ken felice. I membri delle sue squadre, sempre a guardarlo con rispetto e devozione, come se fosse una divinità. 
I giornalisti che iniziavano ad accerchiarlo, ansiosi di accaparrarsi lo scoop più succoso, che si sfregavano le mani di fronte ai suoi successi, che non chiedevano altro che inventarsi, per descriverlo, appellativi sempre più ridicoli, sempre più idioti – l’Astro Nascente del Calcio era il più audace, e certamente anche il più imbarazzante.
Ma nessuno di loro riusciva ad avere nulla di Ken, se non qualche sorriso gelido e un paio di parole vuote ben costruite. Nessuno di loro poteva capirlo, nessuno di loro poteva meritarlo.
Sotto la sua maschera di perfezione si celava un inferno d’odio.
Certi giorni Ken avrebbe incendiato il mondo. Avrebbe urlato e urlato, preso a schiaffi ogni viso ipocrita, ogni sorridente sanguisuga, fino a farli scomparire.
Certi giorni gli tremavano le mani, tanta la rabbia che lo divorava dall’interno.
Eppure nessuno sembrava accorgersene.
Il mondo non faceva che mettergli le mani addosso, tentando di farlo in pezzi per esibirlo come un trofeo, e lui voleva solo che lo lasciassero in pace. Che lo ammirassero da lontano. Che non osassero scalfire la sua perfezione.
Così continuò a collezionare vittorie su vittorie, rendendosi impenetrabile e inavvicinabile, e lo sa: sarebbe andato avanti così per anni, forse per sempre.
Invece, affrontò Motomiya Daisuke su un campo di calcio.

***
 
Ken richiuse la porta dietro di sé. 
La serratura scattò con un rumore secco, che rimbombò nella casa insolitamente vuota. Nessuna traccia di chiavi sul mobiletto accanto all’ingresso: sua madre doveva essersi attardata al supermercato.
Era tanto tempo che non gli capitava di essere da solo.
Si tolse le scarpe, lasciò che rotolassero in modo scomposto sull’uscio della porta. Camminò a passi leggeri, inudibili, lungo il corridoio, per un attimo smarrito dal silenzio, turbato dalle porte aperte.
Entrò in cucina. Perfettamente ordinata, come sempre. Nessun dolce in forno, per una volta. Un vaso di fiori sulla tavola, al centro – ma i fiori erano finti.
Scostò una sedia con la mano, rimase ad ascoltare il rumore stridente dei suoi piedi sul pavimento. E, di colpo, quel rumore sembrò strizzargli il cuore come uno straccio vecchio.
Afferrò lo schienale della sedia, e con forza la buttò sul pavimento. Il clangore sembrò moltiplicarsi in quella casa morta, come se stesse gridando.
Non gridava abbastanza.
Ken prese a calci il tavolo, una, due volte, e il vaso barcollò ma rimase ostinatamente in piedi al centro della tovaglia; lo spinse giù dal tavolo, e il suono secco dell’impatto sul pavimento non bastò a romperlo in mille pezzi. Fasullo anche il vaso allora, pensò con rabbia ferina. Lo raccolse, lo lanciò con più forza – i fiori caddero, impotenti e perfetti, e il vaso rotolò verso il frigorifero.
Ken cadde sulle ginocchia, un peso insopportabile nel petto. Picchiò il pavimento, lo picchiò ancora, e poi urlò con tutta la voce che aveva, perché sarebbe morto se non l’avesse fatto.
Non rispose nessuno.
Per un attimo rimase immobile, i capelli sul viso, il fiato corto. 
Poi, lentamente, sollevò lo sguardo.
Non era sufficiente calciare un tavolo, buttare giù un vaso, picchiare così forte il pavimento da farsi male alle mani. Quel disastro non era abbastanza. Niente avrebbe potuto essere abbastanza per placarlo.
Era tutto inutile.
Improvvisamente il suo stomaco sembrò ribaltarsi.
Si portò una mano alla bocca, corse verso il bagno, si accasciò accanto al water.
Vomitò, nonostante cercasse di non farlo. Vomitò, e odiò la sua prostrazione, odiò il suo terribile malessere, odiò la sensazione di debolezza che gli appannava la vista, gli faceva tremare le braccia.
Vomitò per quelle che parvero ore, finché non gli rimase che uno stomaco svuotato e il dolore degli spasmi.
In quella posizione umiliante, il sudore sulla fronte e gli occhi chiusi, Ken ricordò improvvisamente che i fiori in quel maledetto vaso erano viola.
Viola come i capelli di Lei.
Che stupido colore per dei capelli, pensò.
Proprio tipico di una persona che non ha paura di niente. Tipico di una ragazzina che è capace di guardarti dritto negli occhi, con odio e disgusto, e gettarti in faccia il suo disprezzo per te. Proprio oggi, il giorno della tua tanto pregustata vendetta sul tuo rivale.
Avrebbe dovuto aspettarselo, dalla sua anima gemella. D’altronde, non faceva che tentare di mandarlo in pezzi fin da quando era nato, giusto?
Voleva forse dire che c’era riuscita, finalmente? Dopo tutti gli sforzi fatti per non pensare a Lei, giorno dopo giorno, per sottrarle il potere che Lei aveva sempre avuto su di lui?
Non lo avrebbe mai permesso.
Ken si rimise in piedi a fatica, tirò lo scarico, si diresse verso il lavandino. Si lavò la bocca, si gettò dell’acqua sul viso, finendo per bagnarsi anche un po’ i capelli. Chiuse il rubinetto, e i suoi occhi incontrarono lo specchio.
Uno spettro.
I capelli spettinati, il viso pallido, gli occhi sgranati. Non si riconobbe.

Mi fai schifo.
Il suo viso si contrasse in una smorfia che sembrò cambiargli i connotati. Nessuno lo aveva mai visto così. 
Nessuno avrebbe mai dovuto vederlo così.
Diede le spalle allo specchio, e promise a se stesso che Lei non l’avrebbe mai avuta vinta.
Indossò la migliore indifferenza che riuscì a costruirsi addosso, strinse i denti e drizzò le spalle, e continuò il suo spettacolo fatto di successi, interviste, sguardi impenetrabili e fredda condiscendenza. 
Se la bevvero tutti.
Nessuno si avvide del cambiamento, neanche se il suo stomaco non smetteva di bruciare.
A stento gli consentiva di mangiare, spesso lo piegava in due per il dolore, lo costringeva a correre in bagno, di nascosto, e vomitare tutto ciò che con fatica ingurgitava. Iniziò a diventare debole, tanto debole da dover saltare gli allenamenti, tanto debole da dover passare spesso in infermeria a scuola. 
Eppure nessuno se ne accorse.
Gli allenatori parlarono di stress dovuto allo studio, gli insegnanti di fatica da allenamenti. Tutti continuarono ad annuire, continuarono a idolatrarlo, fiduciosi che la loro Stella non si sarebbe mai offuscata. Tutti rimasero concordi: non è che una fase. Non è preoccupante.
L’importante era continuare a vincere.
Ken iniziò a guardarli, incredulo, sconcertato. Erano davvero così stupidi? Era davvero così facile ingannarli? Rischiò più volte di svenire durante un’intervista, di fronte a cameramen e giornalisti, e nessuno smise un attimo di sorridere. 
Recitavano anche loro?
Avevano davvero così bisogno di un ragazzino prodigio da bendarsi entrambi gli occhi, tapparsi entrambe le orecchie, diventare ignoranti sulla rabbia, sul dolore?
Chi, tra loro, recitava con maggiore intensità?
Ken, nel buio della sua stanza, si toccava il viso sempre più scarno, cercando di sentire qualcosa. Voleva sentire le infossature create dalla sua ira, i bozzoli duri della sua disillusione, le crepe delle sue sofferenze. Eppure non c’era nulla. Il suo viso era magro ma ancora perfetto, ancora una vetrina.
Ancora una maschera, che celava un abisso.
Un abisso di cui provava orrore.

Mi fai schifo perché sei marcio.
Una volta ripulito, il vomito non lasciava traccia. Non c’era nulla che corrodesse la sua vita perfetta, la sua perfetta distanza da chiunque.
Era stato così bravo a nascondersi. Così bravo che neanche lui sapeva più dove iniziasse lui, dove invece gli altri.
Ebbe paura. Una paura tremenda, infantile, senza via d’uscita.
Non sapeva più a che gioco stesse giocando.
Le attenzioni altrui iniziarono a diventare un tormento, a farlo sentire braccato. Non aveva più assi da giocare, non aveva più nessuno da ingraziarsi.
Era stanco, sempre più stanco, tormentato dal dolore del suo stomaco implacabile.
I suoi genitori non facevano che chiedergli di parlare loro, di dire loro cosa stesse succedendo. Sua madre bussò alla porta del bagno finché poté una sera, piangendo, supplicandolo di aiutarli a capirlo, e Ken non ebbe forza a sufficienza per dirle di andarsene. Ricorda solo di aver fissato la porta chiusa, ansimante, aggrappato appena al lavandino, e di essersi chiesto cosa volesse sua madre da lui.
Non aveva più niente da darle. 
Forse non aveva mai avuto niente da darle.

E la persona davvero sola, alla fine dei giochi, sarai soltanto tu!
C’erano giorni in cui si convinceva che l’unica cosa che lo spronava ad alzarsi dal letto era il suo odio per Lei.
Chi si credeva di essere, quella ragazzina? Cosa poteva saperne di lui? Come osava farlo sentire così?
Aveva rovinato tutto.
Quella era la sua rivincita, erano anni che ci lavorava instancabilmente, erano anni che inseguiva quel mondo fatto di frasi vacue e graffiante silenzio. Ed erano bastate alcune frasi a far crollare tutto, come se Ken non fosse che uno stupido, un perdente.
Era felice, prima. Era finalmente riuscito ad essere felice.
Era felice, dopo tanti anni passati a soffrire!
Era felice e aveva tutto. Lo sapeva che aveva tutto.
E gliel’avrebbe detto in faccia, a quell’Insetto, senza remore, senza risparmiarsi. Le avrebbe detto tutto, tutto quanto!
Le avrebbe detto ogni cosa …
… perché quel giorno avrebbe ricordato i motivi per i quali era stato felice fino a quel momento.
Quel giorno sarebbe stato lucido, e avrebbe saputo dirle con certezza in cosa, esattamente, consisteva la sua rivincita con il mondo. Le avrebbe mostrato i risultati concreti del suo duro lavoro, così che sarebbero stati inequivocabili. Così che Lei potesse solo arrendersi, meravigliata, e dirgli:
Hai vinto.
Non gli servivano altri stupidi premi fisici. Voleva solo sentire qualcosa di caldo nel petto, qualcosa che non bruciasse, qualcosa che non gelasse.
Qualcosa di solo suo …
Eppure oggi non sentiva nulla.
Sentiva solo il vuoto delle sedie accanto alla sua a mensa, il silenzio di fronte alla sua presenza agli allenamenti. 
Il gelo della sua sedia lasciata vuota durante la cena, a casa.
Sentiva solo sguardi che gli scivolavano addosso senza fermarsi mai, il lampo di riflettori che illuminavano troppo e mai abbastanza.
Sentiva, a volte, che l’unico sguardo reale fosse quello di Lei, che non riusciva a lasciarlo andare neanche nei sogni.
E quello sguardo assomigliava fin troppo ad uno specchio.

Perché non ti meriti nulla di quello che hai.
Un giorno Ken passeggiò per casa, e incontrò una foto di Osamu.
Si fermò, lentamente, come controvoglia. Poi si chinò, afferrò la cornice con mani tremanti, e la portò accanto agli occhi.
E si ricordò, dopo tanto tempo, di suo fratello.
Osamu era piccolo in quella foto: poteva avere massimo cinque anni, perché ancora sorrideva con tutto il cuore. Forse in quel momento era felice.
Forse in quel momento custodiva nel cuore qualcosa di prezioso.
Una famiglia amorevole, un fratellino con cui giocare, tante ragioni per rendere orgogliosi tutti.
La cornice iniziò a tremargli tra le mani, la vista iniziò ad appannarsi.
Il petto gli parve squarciarglisi in due.
Ken aveva desiderato portargli via tutto. Nonostante gli avesse voluto così bene, nonostante gli avesse voluto così male.
Aveva desiderato portargli via tutto.
L’affetto di mamma e papà. Le attenzioni degli insegnanti, dei compagni, della città intera. I suoi successi nello studio. 
Aveva cercato di essere lui – di essere meglio di lui.
Eppure non gli assomigliava così tanto. Non a quel bambino di cinque anni, almeno. Non a quel bambino felice.
La maschera che indossava era solo una pallida imitazione del fratello che aveva desiderato essere.
Era grottesca, fasulla, scomoda, e si stava squagliando sotto la forza del suo vero sé che aveva cercato di soffocare, perché non degno d’amore.
E non gli aveva dato niente di quel che davvero desiderava.
Ken andò in pezzi.
Si chiuse in camera, si accasciò contro la porta, e per la prima volta dopo anni pianse.
Pianse con gli ultimi brandelli di energia che gli erano rimasti. Pianse come un bambino: rannicchiato, impotente, sconfitto.
“Hai ragione tu”, disse agli occhi di Lei, un sussurro che a stento udì lui stesso. “Hai ragione tu.”

Mi fai schifo.
Mi fai schifo perché sei marcio.
E la persona davvero sola, alla fine dei giochi, sarai solo tu.
Perché non ti meriti niente di quello che hai.

***
 
Il giorno in cui scappò di casa, Ken si svegliò molto presto.
I suoi genitori dormivano, la porta chiusa dietro di loro. Non lo sentirono prepararsi, vestirsi nel modo più comodo che gli riuscì – non aveva mai avuto felpe comode, si rese conto con sorpresa: solo camicie e maglie formali, forse troppo per un dodicenne. Non lo sentirono prendere uno zaino, riempirlo di qualche cambio abiti senza criterio, di un paio di banconote, parte dei suoi risparmi. 
Non lo videro esitare, di fronte a un foglio di carta bianco e una penna.
Non lo videro lasciare quel foglio in bianco.
Ken scivolò via di casa, silenzioso come un’ombra.
E chi mai avrebbe potuto accorgersi della sua assenza?
Aveva cominciato ad essere un’ombra anche in casa, a scuola, ovunque. Non faceva rumore: erano gli altri che gli avevano costruito del rumore addosso.
Lui li aveva solo lasciati fare. Tutti hanno bisogno di un capro espiatorio, in fondo.
Ma, una volta rotto uno specchio, non lo si può riaggiustare.
Così Ken iniziò a camminare, nel gelo di una mattinata nuova, un cappello con visiera calato sugli occhi e un vecchio cappotto di suo padre addosso, irriconoscibile e dolorosamente anonimo, e non riuscì a fermarsi. Arrivò alla stazione metropolitana, salì sul primo treno disponibile, si sedette su un sedile gelido, si mise ad ascoltare lo sferragliare del treno sulle rotaie, e neanche per un istante si chiese dove stesse andando.
Sapeva solo che doveva andarsene.
Sul primo treno c’erano impiegati dal viso stravolto e gli occhiali sul naso, disperatamente aggrappati ai loro doveri per non addormentarsi sul posto. Sul secondo che prese, a caso, da una stazione che non ricorda nemmeno, iniziarono ad esserci studenti pendolari, universitari tra libri e appunti. Il terzo era pieno, ma ricorda quella donna immobile seduta accanto alla porta, i capelli ben stretti nel suo chignon perfetto, il completo elegante e gli occhi lontani, persi in un dolore che avrebbe rischiato di spettinarla, di stropicciarla, se solo lei gliel’avesse permesso.
Ken rimase a guardarla a lungo, senza sapere neanche perché. La guardò finché non scese, quasi a passo marziale, alla sua fermata. Nakano, probabilmente. La sua mente registrava cose strane, come se non gli appartenesse più.
Scese anche lui a quella stazione, e rimase per un attimo fermo alla banchina, perso tra le tante persone che sciamavano verso l’uscita.
Non sapeva neanche se stesse provando dolore in quel momento.
Non riusciva più neanche a sapere come stesse, cosa volesse, cosa cercasse.
Osamu l’aveva saputo?
Aveva avuto degli obiettivi, dei desideri, dei sogni?
Aveva saputo con certezza dove stesse andando, dove volesse andare?
O piuttosto aveva seguito la corrente, tentando di restare a galla nell’unico modo che aveva conosciuto?
Chissà se a lui piaceva davvero essere un genio, si chiese.
Chissà se gli piaceva essere un
ometto.
Chissà se non avrebbe voluto fare altro, invece. Giocare con lui ancora un po’. Appena un giorno in più sulla terrazza, una cannuccia tagliata all’estremità tra le mani, un po’ di acqua e sapone …
Se avesse potuto, sarebbe scappato anche lui?
Ken uscì dalla stazione metro, alla luce del sole ormai alto. L’aria fresca gli inondava i polmoni, condannandolo alla libertà. Gli sembrava di non aver più respirato da anni.
Camminò fino a farsi dolere i piedi.
Camminò fino a rendersi conto che l'orario di scuola era finito, che quel giorno era un martedì, e il martedì aveva gli allenamenti di calcio. Camminò finché non si rese conto che aveva inseguito studenti e lavoratori andare a scuola, e ora invece inseguiva studenti e lavoratori in pausa pranzo prima, alla fine della giornata di studio e lavoro poi. Camminò finché non sentì lo stomaco brontolare.
Solo allora si rese conto di non aver più vomitato dal giorno prima. Forse non aveva più neanche un briciolo di cibo da provare a smaltire.
Però aveva fame. Una fame terribile, primitiva.
Si nascose di nuovo in una stazione metro, terrorizzato da banconisti e cassieri dei negozi e dei konbini, e spese alcuni spiccioli in merendine e dolcetti presi al distributore automatico.
Li divorò, assente, ascoltando senza criterio il suo stomaco placarsi, come una tigre domata. Non era sicuro di essere sazio; d'altronde, non sapeva nemmeno in che modo avrebbe potuto saziarsi.
Salì su un nuovo treno. E poi riscese, risalì, riscese.
Si addormentò più volte su un paio di treni, tanto che spesso fece due volte capolinea senza accorgersene. Quando si rese conto di essere troppo stanco per esistere scese dall'ultimo treno, si infagottò nel suo cappotto e si distese su una panchina alla banchina della metro. Sprofondò nel sonno senza neanche accorgersene.
Fu svegliato bruscamente il giorno dopo, una mano sulla spalla a scuoterlo, un poliziotto dalle sopracciglia aggrottate chino su di lui.
"Che ci fai qui? Non puoi dormire in stazione. Non hai una casa?"
Ken si mise a sedere di colpo, chinando la testa, il cuore impazzito dalla paura di essere riconosciuto.
"Ma sei un ragazzino! Dove sono i tuoi genitori?"

Scappa, gli gridò il cervello.
Ken scappò.
Corse come un matto, tra le grida del poliziotto, scansando malamente chiunque si mettesse sulla sua strada, ascoltando freneticamente il rumore di passi che lo inseguivano. Ma lui non poteva fermarsi, nonostante non avesse più energie; non poteva fermarsi, così corse più veloce.
Si fermò soltanto quando i polmoni minacciarono di ardere fino a diventare cenere.
Ken si appoggiò al muro di un palazzo, i capelli appiccicati alla fronte, il cappotto a serrargli la gola come una catena. Per un momento si limitò a respirare affannosamente, tenendosi una mano sul petto, cercando di dire a se stesso che era salvo.
Fu allora che sentì il notiziario acceso dalle porte del cafè che aveva accanto, e si rese conto che il mondo aveva notato la sua assenza.
Ichijouji Ken era scomparso. I giornalisti ne parlavano con sgomento e allarme, come si parla di un meteorite abbattutosi con violenza su un paesino pacifico. Ne parlavano come se fosse avvenuto un evento traumatico, un brusco risveglio da un sogno.
Così si erano svegliati anche loro, infine.
Ken fu inseguito da televisori accesi ovunque andasse. Fu sorprendente rendersi conto, per la prima volta, che non gli importava nulla di cosa avessero da dire su di lui. Gli importava solo di nascondersi meglio, calarsi più decisamente il cappello sugli occhi, stringersi con più forza nel suo cappotto.
D'altronde nessuno avrebbe potuto riconoscerlo. Il Ragazzo Prodigio non avrebbe mai potuto cambiarsi nei bagni pubblici, mangiare in un vicolo deserto qualche snack poco salutare, bere dalle fontane. Non avrebbe mai potuto scegliere di perdere volontariamente, autoescludersi, rinunciare.
Non avrebbe mai potuto passare così inosservato.
Ancora non lo sapevano: il Ragazzo Prodigio era morto. Il corpo che si nascondeva come un ratto, che si guardava dagli sguardi dei passanti, era una gabbia che nascondeva uno spirito di cui Ken non sapeva nulla. Poteva solo sentirlo battere nel petto, con insolita determinazione.
Il tempo perse d'importanza, giorno e notte si confusero. 
Poi, una sera, sentì i suoi genitori piangere da un maxischermo.
C'era ancora tanta gente in giro a Odaiba; tanta gente che affollava le strade, che guardava lo schermo ad occhi sgranati, che commentava col vicino parole concitate. Ken non era che una testa tra le tante, le tasche drammaticamente vuote, le energie allo stremo.
Fu l'unica testa a sussultare.
La voce di suo padre sembrava diversa, amplificata e diffusa così chiaramente in ogni angolo della strada. Non riuscì a capire cosa dicesse: riusciva solo a vedere il suo pallore, la sua magrezza, le sue occhiaie, la disperazione nei suoi occhi. Ogni sua parola era una preghiera, una supplica. 
Sua madre nemmeno riuscì ad alzare gli occhi, nascosta tra le mani, piccola -così piccola che sembrava scomparire nel suo maglione beige.
Ken si chiese per chi piangessero, chi desiderassero a tutti i costi trovare.
Sarebbe andato bene chiunque?
Sapevano di chi sentivano la mancanza esattamente?
Sentiva il cuore pesante e gonfio, e questa sensazione lo sconvolse. 
E lui, sapeva di chi sentiva la mancanza?
Eppure neanche lui sapeva chi fossero quelle due persone in lacrime su uno schermo. 
Come si fa a sentire la mancanza di qualcosa che non si ha mai avuto?
Restò ad ascoltare le voci di quegli estranei finché poté, finché gli fu concesso. Finché le persone non iniziarono a disperdersi. Un uomo lo guardò con fin troppa insistenza, tanto da metterlo a disagio: Ken si mise a correre.
Non poteva restare lì.
Non poteva andare da nessuna parte.
Si era solo illuso di essere in esilio, non è vero? Non c’era strada che non fosse pericolosa. Non c’erano occhi che non lo scrutassero, diffidenti, preoccupati, sconcertati – minacciosi. Non c’era vicolo che potesse chiudersi sulla sua testa, nasconderlo, stringerlo a sé fino a renderlo invisibile.
Come aveva potuto camminare così tranquillamente per giorni?
Nella sua fuga sentì, a un tratto, il rumore del mare.
Non pensò: si precipitò in spiaggia, come un disperato che desidera avere salva la vita.
E lì rimase, impietrito, boccheggiante, di fronte al fragore del mare.
Non c’era nessuno.
Non si vedeva nulla che non fossero le luci lontane del Rainbow Bridge, perennemente vive nonostante l’ora.
Il cielo si era fuso con il mare, dando origine ad una voragine nera che parve volerlo inghiottire.
Una vertigine lo colse.
Cadde sulla sabbia gelida. 
Forse avrebbe dovuto restare lì per sempre.
Forse avrebbe dovuto sparire, non farsi mai più trovare. Perdersi nel nulla.
Sarebbe forse cambiato qualcosa? Per gli altri, per lui?
Era solo.
Non avrebbe mai potuto essere altro che solo.
Annichilito, rassegnato, appesantito, si accucciò sulla sabbia, coprendosi con tutto ciò che aveva. Chiuse gli occhi, tremante, e desiderò non sentire più nulla.

Eppure si risvegliò.
I gabbiani cantavano, incuranti, accogliendo le prime luci del giorno.
Ken riaprì gli occhi, controvoglia, e vide il cielo vestirsi dei colori dell’alba.
La meraviglia lo investì a tradimento.
Si mise seduto a fatica, pieno di sabbia e intirizzito. 
Il sole non era che una palla infuocata che si faceva strada tra i grattacieli in lontananza, ancora abbastanza rosso da non ferirgli gli occhi, immersa nell’arancio, violetto, azzurro del suo letto celeste.
E ora il mare brillava, placido e sereno, come se fosse pieno di lucciole.
Sembrava vivo.
Qualcosa gli tremò nel petto.
Si tolse le scarpe e le calze, abbandonò il cappotto sulla sabbia, rimise nello zaino il cappello.
Avanzò come un sonnambulo, rabbrividendo per la sabbia gelida sotto le piante dei piedi.
Esitò; poi mise i piedi nell’acqua ancora tiepida.
E lo sentì, mentre il sole si levava ancora nel cielo, mentre i gabbiani volavano sulla sua testa, mentre Tokyo l’insonne iniziava l’ennesima giornata produttiva.
Sentì chiaramente di essere vivo.
Le lacrime gli si formarono tra le ciglia: Ken lasciò che gli scivolassero lungo le guance, senza senso, senza scopo, senza un seguito. Il vento fresco del mattino gli asciugò quelle scie salate addosso.
Di fronte a quella luce prepotente, a quello spettacolo mai contemplato, Ken sentì un’energia disperata crescergli dentro, prendere possesso di ogni fibra del suo corpo.
Ken
voleva essere vivo.
Voleva emozionarsi, voleva gioire, voleva condividere.
Voleva credere che un posto per lui ci fosse, da qualche parte.
Voleva essere amato.
Voleva-
Voleva essere trovato.
Un’onda più grossa gli lambì le caviglie, gli schizzò i pantaloni.
Desiderò essere trovato, lì, così com’era. Rotto, solo, abbandonato, senza scopo né sogni, con solo la vita a pulsargli nelle vene.
Lo desiderò così tanto da restare paralizzato.
E le onde andavano e venivano, portatrici di segreti atavici, silenziose e placide, e Ken pregò con ogni forza che aveva. Affidò se stesso al mare, come solo le persone sofferenti sanno fare.

Trovatemi.
Qualcuno … chiunque … non importa.
Sono qui.
Ho perso la strada.
Trovatemi.

La sua mente si aggrappò a quella preghiera, la ripetè come un mantra per minuti. Per ore.
Ken rimase ad attendere, sedendosi a riva, la fronte sulle ginocchia.
Attese, il corpo teso, la mente sgombra.
Attese.
Così tanto che, quando si sentì chiamare, credette a uno scherzo della sua immaginazione.
Eppure la voce continuò sempre più forte, sempre più vicina.

Ichijouji. Ichijouji!
Sono qui, avrebbe voluto rispondere. Ma le sue labbra erano sigillate.
Così lasciò che quei passi concitati si avvicinassero, si fermassero di colpo, si affrettassero con ancora più energia.
“Ehi, Ichijouji!”
Motomiya.
Ken si lasciò scuotere, sentì parole accorate che non gli riuscì di comprendere. Riusciva solo a vedere l’espressione sul viso del suo rivale: preoccupata, sincera, limpida ed energica, come se nulla fosse successo. Come se quella partita non ci fosse mai stata.
Fu per puro caso che guardò altrove, e si accorse che non erano soli.
Il suo cuore sembrò fermarsi.
Scarmigliata, il cappotto aperto, gli occhiali a penzoloni sul naso e quegli assurdi capelli viola sul viso, Lei era a pochi metri di distanza, ansimante e sconvolta, e guardava lui.
Lo guardava, senza dire una parola.
Oh. 
Era così diversa, ora.
Aveva immaginato così tante volte i suoi occhi furibondi che aveva finito col credere che lei non lo avrebbe mai guardato in modo diverso.
Eppure eccola lì, fronte distesa e bocca dischiusa, con un’espressione che Ken non riuscì a leggere.
C’era qualcosa che palpitava, nei suoi occhi castani, e non era odio, né disgusto.
Sembrava dolore.
Il cuore di Ken si gonfiò così tanto che credette che gli sarebbe esploso.
Distolse lo sguardo –dovette farlo.
La voce ritornò, dopo giorni di silenzio, e lo fece a pezzi.
“Mi dispiace.”
Il mare riecheggiò le sue parole, ripetendole all’infinito.

Mi dispiace.

***
I suoi genitori lo accolsero tra le lacrime.
Lo videro varcare la soglia, più morto che vivo, scortato da un Motomiya rimasto in disparte, rispettoso ma vigile. Si precipitarono da lui e iniziarono a rimproverarlo, tremando per il sollievo. Gli dissero che erano stati mortalmente preoccupati, che non avevano idea di dove cercarlo. Gli parlarono come normali genitori infuriati, e questo colpì Ken come nient'altro prima d'ora.
Alle lacrime era abituato: alla rabbia no.
Quella rabbia era tutta per lui, perché era lui che l’aveva provocata. Sparendo per giorni … facendoli impazzire per anni.
Eppure era una rabbia che apriva porte, invece che chiuderle.
Ken li fissò, muto, mentre le loro voci si sovrapponevano, mentre le lacrime inondavano il viso di entrambi. 
Si era comportato malissimo con loro. 
Eppure eccoli lì, pronti ad accoglierlo, le braccia frementi che non potevano fare a meno di sfiorarlo, timorose di vederselo sfuggire di nuovo, timorose di un rifiuto. 
Forse loro sapevano chi avevano perduto, invece. Forse avevano sentito proprio la sua mancanza: non quella di Osamu, non quella di un figlio perfetto. La sua, e basta.
Ken pianse, senza freni, e i suoi genitori tacquero.
“Mamma”, balbettò a fatica. “Papà.”
Non riuscì a dire altro. D’altronde, non gli lasciarono dire altro.
Sua madre gli gettò le braccia al collo, singhiozzando. Suo padre li strinse entrambi, più forte che potè, la sua mano calda sul capo di Ken.
"Ken-chan", disse sua madre. Come faceva quando lui era ancora un bambino – quando c’era ancora Osamu.
"Perdonaci. Perdonaci, ti prego."
Ken si abbandonò tra le braccia della sua famiglia, senza trovare la forza di abbracciarli a sua volta. Chiuse gli occhi.
Li perdonò.

***
 
Col senno di poi non può che pensare che, se Motomiya Daisuke non avesse deciso di essergli amico nonostante tutto, la sua nuova vita si sarebbe rivelata diffcile, un arduo esercizio di funambolismo con diversi chili di troppo.
I suoi voti iniziarono a calare, con sgomento e scoramento di tutti. Ricorda i giornalisti fuori dalla porta di casa, all’entrata di scuola, accanto al campo di calcio. Ricorda la loro voce alta, i microfoni puntati verso di lui, gli occhi ora diffidenti, ora delusi, ora paternalistici. 
Ricorda i suoi genitori intervenire.
“E’ solo un ragazzo. Lasciatelo vivere la sua vita, per favore. Non vogliamo altra pubblicità.”
Ricorda le espressioni scontente e i borbottii dei giornalisti, sempre più radi, sempre più rassegnati, sempre più pronti a ritenere Ichijouji Ken una persona come tante, un invisibile.
Ricorda i sorrisi timidi e autentici di sua madre e suo padre, insospettabili alleati, e il suo imbarazzo misto a senso di colpa che lo costringevano a scusarsi invece che ringraziare.
Era molto più facile trovare parole per mettere distanza che per accorciarla, e Ken non aveva parole per l’amore.
Balbettava quando parlava di sé, a fatica, con frasi brevi e concise. Era incapace di rifiutare il bis del cibo che sua madre cucinava per lui, mangiando fino a riempirsi dolorosamente la pancia, solo per vedere gli occhi di lei brillare. Ogni volta che sorrideva doveva abbassare gli occhi, farsi piccolo, non farsi notare.
Eppure sentiva calore, per la prima volta: un calore così caldo e così intenso che non avrebbe mai potuto gestire da solo.
Ecco perché Daisuke fu così prezioso per lui, a quel tempo.
Lui non aveva mai avuto troppi pensieri per la testa, certamente non aveva alcun desiderio di primeggiare negli studi: gli bastava vincere a calcio contro di lui – l’unico sport che Ken non abbandonò, non sorprendentemente. Daisuke non aveva timore dei suoi silenzi, nessun rancore per ciò che era successo tra loro: era una persona generosa, solare, divertente e genuina. Rendeva tutto sempre facile, sempre possibile.
Un giorno Ken gli chiese come mai avesse deciso di essergli amico. Daisuke lo guardò con stupore.
“Beh, perché sì!” Fu la sua risposta spontanea e totalmente insensata. Di fronte all’espressione insoddisfatta di Ken, Daisuke si grattò la testa. “Ma scusa, che ti importa? Ci divertiamo insieme, no? Sono contento di essere tuo amico!”
E poi gli sorrise, perfettamente tranquillo come se il problema non si ponesse neanche.
Ken non lo capiva: era totalmente diverso da lui, non avevano assolutamente nulla in comune.
Eppure si fece trasportare.
Accettò il suo invito a casa Motomiya per studiare assieme, e poi quell’invito a restare a dormire. E poi lo invitò a sua volta, le guance in fiamme e il terrore di star sbagliando, incoraggiato da sua madre, felice come non mai al vederlo divertirsi accanto al suo primo vero amico, ridere persino.
E poi non ci fu più nulla da fare: nessun modo di tornare indietro.
Per fortuna.
Daisuke fu il primo ad aprirgli il mondo, quando il resto della città gli chiuse le porte e lo lasciò da solo.
Non sorprendentemente, fu anche grazie a lui che conobbe Yagami Hikari.
Non ricorda esattamente quando, ma un giorno lei bussò a casa Motomiya con un libro tra le mani e buoni propositi di aiutarlo a studiare inglese dopo il suo ultimo compito in classe disastroso. Naturalmente Daisuke si era dimenticato di avvisarla che ci sarebbe stato anche Ken.
Di fronte alla sorpresa di Yagami, Ken rimproverò il suo amico con lo sguardo.
“Che c’è?” Replicò candidamente Daisuke. “Mica ti dà fastidio? Hikari-chan è bravissima con l’inglese!”
“Magari non aveva voglia di avermi tra i piedi”, mormorò Ken. Abbassò lo sguardo, le guance in fiamme, e fece un breve inchino. “Me ne vado subito.”
“Resta”, rispose Yagami. 
Ken si azzardò a sollevare lo sguardo.
Sapeva che lei era stata presente a quella partita di calcio mancata: Daisuke gli aveva parlato di lei tante volte – d’altronde, in quel periodo aveva una specie di cotta per lei-. Si aspettò, quindi, quantomeno freddezza o rigidità da lei.
Quello che vide, invece, fu curiosità.
“Hai cambiato espressione, Ichijouji-kun”, gli disse. “Sono felice di sapere che tu stia meglio.”
E poi il suo viso delicato si aprì in un sorriso dolce, che lasciò Ken in uno stato tale di confusione e di imbarazzo da ammutolirlo completamente.
Lei non ne sembrò turbata. Andò a sedersi, chiacchierò con Daisuke come se nulla fosse, lo aiutò a studiare come poté, nonostante lui fosse un pessimo studente. Non rivolse più direttamente la parola a Ken, se non con gli occhi, che ogni tanto gli sorridevano, incoraggianti.
Non la vide più per diverso tempo dopo quel pomeriggio. 
Dentro di sé ne fu sollevato.
Era
troppo.
Pensava che Daisuke fosse l’unico al mondo a poter perdonare così facilmente senza ricavarne nessun vantaggio. Invece no: anche i suoi amici dovevano avere questo problema, a quanto pareva.
Non meritava niente di tutto questo. Possibile che non importasse a nessuno?
Avrebbe potuto ferirli ancora, come aveva già fatto. Possibile che non lo sapessero?
Solo Lei lo sapeva.
Lei non aveva mai cercato di incontrarlo. Forse era l’unica a sapere che brutta persona fosse Ichijouji Ken.
Daisuke e Yagami avrebbero dovuto seguire il suo esempio, si ritrovava a pensare, un peso nel petto. Avrebbero dovuto fermarsi alla cortesia e all’altruismo: Ken era tornato a casa, dopotutto, giusto? Il loro compito finiva lì. Sarebbe bastato rendersi disponibili in caso di bisogno, dopodiché defilarsi discretamente ma dignitosamente.
Lei aveva fatto così.
Era venuta a cercarlo, lo aveva trovato, lo aveva lasciato nelle mani di Daisuke ed era tornata a casa. Senza farsi più vedere o sentire.
Una reazione da persona normale, senza dubbio.
Eppure … chissà perché era venuta a cercarlo in spiaggia.
Forse voleva compiacersi di averlo zittito, umiliato e sconfitto, ma vedendolo così provato e disperato non se l’era sentita.
O forse aveva avuto pietà di lui, e aveva voluto fare la cosa giusta.
Oppure stava semplicemente accompagnando Daisuke, quel giorno?
Ken non sapeva niente di Lei. Non aveva mai neanche trovato il coraggio di chiedere di Lei a Daisuke. Con che scusa avrebbe potuto farlo, d’altronde?
Dirgli che si trattava della sua anima gemella sarebbe solo stato offensivo per Lei.
Così tacque, si defilò, e, come aveva fatto fin dalla scoperta delle sue Parole, cercò in tutti i modi di non pensare più a Lei.
Ci riuscì fino a un certo punto.
Poi, un anno dopo, per puro caso la rivide.
Aveva raggiunto Daisuke all’uscita da scuola, dopo gli allenamenti di calcio. Era primo pomeriggio, e gli studenti stavano uscendo dalle loro attività ai club di doposcuola, vociando tranquilli con zaini e libri tra le mani. Ken aspettava il suo amico un po’ defilato, la divisa grigia della sua scuola che lo identificava come diverso, in qualche modo meno autorizzato degli altri a sostare nel cortile, accanto al cancello. 
Stava cercando la zazzera di capelli di Daisuke tra la folla; fu per questo che gli venne istintivo voltarsi, senza pensarci, quando sentì delle voci parlare con tono più alto.
Scorse il Viola prima ancora di scorgere Lei.
Ken si nascose, il cuore che batteva a mille, la testa che gli ripeteva stupido, stupido, stupido. Avrebbe dovuto saperlo che avrebbe rischiato di incontrarla: era la scuola più grande del quartiere, quante probabilità c’erano che non studiasse anche Lei lì? Come aveva potuto non pensarci?
Avrebbe dovuto, forse, andarsene e mandare una mail a Daisuke, chiedendogli di raggiungerlo altrove. 
Non seppe muoversi.
Non seppe resistere.
La sbirciò, dietro il cancello, sentendosi un idiota. Voleva solo vederla un attimo, tutto qui. Voleva solo sapere se stava bene, che tipo di vita faceva, lontana da lui. Voleva solo rubare un altro ricordo di quel viso – un ricordo diverso dai primi due, che non lo avevano abbandonato un istante in tutto quel tempo.
Quell’attimo gli bastò.
Lei parlava a voce alta, due ciocche di capelli raccolte dietro la testa in una mezza coda, gli occhiali più piccoli di quel che ricordasse. Il suo viso era acceso: i suoi occhi castano chiaro brillavano, le sue guance erano rosee. Gesticolava un sacco, totalmente presa da quello che stava raccontando, qualunque cosa fosse. 
Per la prima volta, Ken pensò che fosse bella, e quel pensiero lo sconvolse.
Lo era sempre stata? Non riusciva a ricordarlo. Era sempre stata bella e lui non se n’era mai accorto, troppo preso dagli schemi nei quali l’aveva incasellata? Oppure quell’anno l’aveva cambiata, fatta fiorire da un momento all’altro?
Non sembrava più bambina, l’ultima volta?
La sentì ridere: un suono cristallino, potente, vitale, che gli si incastrò tra le costole.
Non aveva mai sentito nessuno ridere così.
Lei sembrava ridere con tutto il cuore, la testa gettata all’indietro, gli occhi chiusi, il viso radioso. 
Ridere le donava, pensò, smarrito.
Forse rideva spesso quando lui non era presente.
Quel pensiero fu come una doccia fredda.
Qualcun altro era mai riuscito a turbarla in quel modo? Era stato il solo a ferirla così tanto?
Era solo lui la persona sbagliata, capace solo di rovinare le cose belle con la sua semplice presenza?
Rimase impietrito a guardarla, desolato, mentre Lei attraversava il cancello, le braccia attorno alle spalle delle sue amiche, e incurante di tutto se ne andava.
Lo seppe, allora, ancora una volta: lui non c’entrava nulla con Lei. Non avrebbe mai dovuto cercare di avvicinarla.
Non avrebbe neanche dovuto guardarla da lontano, come uno stalker …
Vergognandosi di sé, la testa bassa e il cuore pateticamente infranto, Ken si voltò e vide Yagami a pochi metri da lui.
Sobbalzò, fece un passo indietro, diventò rosso come un peperone.
E poi calò uno dei silenzi più imbarazzanti della sua vita.
Yagami lo fissava, gli occhi imperscrutabili, come se stesse cercando di sondare la sua anima. 
Ken si rese conto, con orrore, che non sapeva da quanto lei fosse arrivata. Aveva forse visto tutto?
Forse ora pensava di lui che fosse una specie di maniaco, o qualcosa del genere…
“Io … ecco … Non …” Balbettò, senza sapere come uscirne. Avrebbe dovuto far finta di nulla, andare avanti come se nulla fosse? “Ciao.” 
Pessima strategia.
 “Si chiama Miyako. Inoue Miyako.” Disse Yagami senza mezzi termini.
Ken sentì le orecchie andargli a fuoco.
“C-chi?” Balbettò come un imbecille. 
Yagami sollevò le sopracciglia, con un sorriso incredulo.
Sembrava dirgli: per quanto tempo vogliamo prenderci in giro?
“Non è come credi”, disse infine. “Stavo solo …”
Non seppe come andare avanti.
“Non stavi facendo niente di male”, rispose Yagami. 
“Invece sì”, rispose Ken istintivamente.
Incrociò senza volerlo gli occhi di Yagami, e il suo imbarazzo crebbe.
“Scusami, devo andare”, disse frettolosamente. Chinò il capo, umiliato, e si allontanò a grandi passi.
Non si voltò indietro, ma si sentì gli occhi di Yagami piantati sulla schiena finché, finalmente, non fu troppo lontano per essere visto.
Quel giorno, fu costretto a dare buca a Daisuke.

***
 
Inoue Miyako.
Era più facile, in un certo senso, non conoscere il suo nome. Gli dava un comodo alibi:
Non posso farci nulla, non so neanche come si chiama!
E invece eccolo lì, con una notizia che non voleva avere ma che bramava.
Inoue Miyako.
Daisuke aveva parlato mille volte di lei, allora. 

L’amica pazza, la nerd dei pc, l’inguaribile romantica. La senpai a cui non avrebbe mai riconosciuto alcuna saggezza aggiuntiva. Nonostante tutto, un’amica per la quale battersi e al fianco della quale schierarsi.
Ce l’aveva così vicina. L’aveva sempre avuta così vicina, e non lo sapeva. Non aveva voluto saperlo.
Cosa avrebbe dovuto fare, ora?
Ora, con l’immagine della sua anima gemella sorridente, in divisa scolastica verde, lontana anni luce da lui stampata nelle retine e scolpita nel cervello. 
Ora, col terrore di volerla avvicinare, di aver bisogno di sentirla ridere – per lui, con lui.
La sua mente immaginava continuamente scenari irrealistici, senza senso, di cui provava imbarazzo e vergogna, e lui non sapeva come farla tacere.
Nessun libro sulle anime gemelle preso in prestito in biblioteca seppe dargli una soluzione. O meglio, gliene forniva, ma erano le soluzioni sbagliate. 
Nessun accenno su come sciogliere il Legame. I ricercatori non avevano nessun amore per Inoue Miyako, a quanto pare, e nessun interesse a tutelarla.
Se solo avesse saputo chi le fosse capitato come anima gemella si sarebbe messa a urlare. Come darle torto.
Ken cercò di non presentarsi più davanti alla scuola, adducendo qualunque scusa gli venisse in mente con Daisuke. Era il suo modo di proteggerla, finché non trovava una soluzione migliore.
Non servì, perché di punto in bianco Yagami iniziò a farsi vedere più spesso.
Sugli spalti durante le partite uno contro uno che Ken e Daisuke facevano spesso nel weekend, davanti alla scuola di Ken insieme a Daisuke, a casa di Daisuke quando c’era da vedere un film assieme. Yagami era sempre lì, sorridente e innocente, totalmente indifferente all’imbarazzo, alla vergogna, persino all’esasperazione sempre più evidente di Ken.
Un giorno se la ritrovò alla biblioteca del suo quartiere, esattamente un tavolo dietro di lui, e il suo limite di sopportazione fu raggiunto.
Si alzò in piedi, le si parò davanti, catturò il suo sguardo. Senza dirle nulla, dopo qualche istante, si diresse verso la porta per uscire in corridoio.
Yagami non tardò a seguirlo, senza esitazione.
Gli si mise davanti, lo guardò fisso, rimase ad aspettare di sapere cosa Ken avesse da dirgli.
Sembrava totalmente sicura dell’importanza di quel stava facendo.
“Mi piacerebbe sapere che sta succedendo”, disse Ken infine, fingendo una spavalderia che in realtà non possedeva affatto. Si sentiva sotto esame.
“Mi dispiace di averti messo a disagio, Ichijouji-kun”, rispose Yagami stringendosi un po’ nelle spalle. Allora  sapeva di averlo fatto, pensò Ken interdetto. “Ho solo pensato non ci fosse altro modo per avvicinarti e parlarti.”
“In privato, intendi”, aggiunse Ken, aggrottando le sopracciglia. “C’è qualcosa che non vuoi che Daisuke sappia?”
Yagami annuì. “Ho pensato che avresti preferito anche tu parlarne tra noi e basta.”
Non c’erano molti dubbi su quale sarebbe stato l’argomento di conversazione, viste le premesse.
Ken si incupì, distogliendo lo sguardo. “Forse è meglio non girarci troppo attorno”, disse piattamente. “Mi dispiace per quanto hai dovuto vedere quel pomeriggio davanti alla tua scuola. Se vuoi delle scuse, eccole. Io non … non pensavo ci fosse nessuno dietro di me, e chiaramente deve essere stato imbarazzante, trattandosi di una tua amica. Però volevo rassicurarti che non ho intenzione di avvicinarmi più a lei.”
“Perché no?”
Ken credette di aver sentito male.
“Ma …” Sollevò lo sguardo, aspettandosi una risata, qualsiasi cosa rivelasse che si trattava di una domanda sarcastica. “E’ evidente.”
“Non lo è.”
“Se è uno scherzo non fa per nulla ridere.”
“Vorrei tanto lo fosse.” Yagami sembrò, di colpo, triste. “Tu pensi di non meritare nulla di bello al mondo, giusto?”
La vertiginosa sensazione di essere messo con le spalle al muro lo lasciò senza fiato.
“Tu non sai nulla di me”, replicò d’istinto. Una rabbia cieca, insensata, piena di paura gli accecò lo sguardo. “Non sai cosa penso, cosa voglio, di cosa ho bisogno. Non puoi capire cosa-”
“Infatti non posso. Per questo vorrei che me lo spiegassi”.
“Perché?” 
“Perché vorrei esserti amica.”
Silenzio. Ken rimase a fissarla, con ancora i pugni contratti in tasca, con ancora il cuore impazzito nel petto.
Non aveva la minima idea di cosa stesse succedendo.
“Perché?” Ripeté, ancora più incredulo di prima.
Yagami fece un piccolo sorriso empatico. “Perché mi sembri tanto solo.”
Ci sono parole che ti scorticano la pelle.
Bastava così poco, allora, per renderlo di nuovo quel bambino smarrito, affamato di attenzioni senza speranza di poterle ottenere, senza essere sufficientemente meritevole di averne?
Ken distolse lo sguardo – un estremo tentativo di proteggersi dalla pugnalata finale.
Davvero sembrava così patetico?
“Non voglio pietà”, sussurrò.
“Non provo pietà per te, Ichijouji-kun”. Yagami sembrò addolorata al solo pensiero di essere stata fraintesa. Soppesò le parole per un istante, come se ne conoscesse il peso e volesse trattenerne un po’ per sé. “Credo che, in fondo, il mio sia un desiderio egoistico. Tu hai il diritto di vivere la tua vita esattamente come meglio credi … ma vederti soffrire mi fa male.”
Meglio soffrire che far soffrire.
“Io non ho nulla da donare.” Ken aprì le braccia, impotente, disperato. “Non ho niente di speciale, non so come si faccia l’amico, non ho la minima idea di cosa ci si possa guadagnare a starmi accanto.”
E Yagami, temeraria, sorrise, gli occhi castani brillanti.
“Lascia che sia io a deciderlo”, disse.
Ken non riuscì a trovare nulla da controbattere, e così perse.
L’ennesima sconfitta della quale sarà per sempre grato.

***
 
Chiunque incontri Yagami Hikari per la prima volta pensa una cosa di lei: è un essere sovrannaturale.
C’è stato un periodo in cui lo ha pensato anche lui, e un po’ se ne vergogna.
Era troppo buona, pensava. Troppo empatica, troppo saggia, troppo silenziosa. Troppo altruista. Sapeva sempre quando esserci, e quando non farsi sentire. Ti guardava, e solo guardandoti riusciva a sentirti, a riscaldarti.
Non in tanti sono in grado di reggere un’espressione simile.
Fu solo in ritardo, come sempre, che Ken si accorse dell’altra faccia della medaglia, dell’onere terribile che ereditano tutti gli esseri sovrannaturali: nessuno ti assomiglia.
Ma Yagami lo nascondeva fin troppo bene.
Perché non sembrava pesarle, dare così tanto di sé da non avere neanche una briciola da conservare a fine giornata. Sembrava che votare la propria vita agli altri potesse sopperire alla mancanza di contatto con altri.
Lei aveva sempre le mani protese. Nessuno tendeva le mani a lei, però.
Rendersene conto lo colpì come mai avrebbe creduto possibile, e solo allora riuscì a capirla meglio.
Era il suo modo di creare un contatto. L’unico che conosceva, probabilmente.
Eppure Ken non gliene parlò mai, e nemmeno Yagami si aprì tanto con lui: la loro era una specie di comprensione tacita. Ken aveva l’impressione, e la presunzione di credere che fosse così anche per Yagami, che loro due si sentissero a un livello profondo, senza bisogno di parole.
Era la prima persona simile a lui che conosceva, e la cosa lo turbò profondamente.
Aveva già un posto sicuro dove stare: accanto a Daisuke, dove si sentiva accolto chiunque lui fosse, qualunque cosa facesse. Ma fino a quel momento non aveva mai sperimentato quel tipo di accoglienza, di quelle non aprioristiche, ma perché
lui era lui, e non qualcun altro.
Yagami era nettamente diversa da Daisuke. Dove lui era rumoroso e solare, lei era introversa, riflessiva. Daisuke urlava, Yagami parlava piano, con frasi brevi ma sempre intense, sempre sentite. Daisuke era molto fisico, Yagami rispettava gli spazi altrui, ma sapeva benissimo quando allungare una mano e toccare delicatamente una mano, una spalla. Daisuke era una persona semplice, lei sembrava avere un mondo intero racchiuso tra le labbra.
Ken scoprì, con sorpresa, che la sua presenza lo rassicurava.
Forse perché era sensibile, fin troppo, ai suoi sentimenti di disagio, frustrazione, inferiorità quando tentava di interagire con gli altri. Forse perché gli sorrideva, incoraggiante, nonostante fallisse, come a dirgli: almeno ci hai provato.
E Ken si cullava, come un bambino ferito, in quelle braccia sempre pronte ad accoglierlo, anche quando lui stesso non sapeva cosa gli succedesse, anche quando Daisuke non sembrava accorgersi dei suoi cambi d’umore.
Daisuke si accorgeva solo della loro strana, incomprensibile vicinanza, travisandone completamente il significato.
“Ma ti piace Hikari-chan?” Gli diceva, gli occhi spalancati. “Se vuoi provarci non ti preoccupare per me, mi è passata! Ti ci puoi mettere assieme … aspetta, state già assieme?”
“Non hai capito proprio nulla, Daisuke”, rispondeva Ken, arrossendo miseramente.
Forse nemmeno Ken stesso ci aveva capito nulla. In fondo, non era lui quello bravo con i sentimenti.
Era Yagami l’esperta, gli sembrava a quel tempo, quantomeno dei sentimenti altrui. Gli dava, a volte, l’impressione di volerlo guidare, tenendolo per mano, alla scoperta del mondo esterno, e di come si poteva stare accanto a qualcuno senza rischiare di ferirlo. 
Una specie di manuale d’istruzioni, insomma: il più dolce del mondo.
“Sei preoccupato per me? Ti ringrazio, Ichijouji-kun. Mi rende felice sapere che ci tieni.”
“Quando sei felice non dovresti nasconderlo, sai?”
“Se non sei a tuo agio, non devi farlo per forza.”
“Hai un’idea in mente per oggi pomeriggio? Puoi dirla liberamente, io sono a corto d’idee.”
Tante, tante parole. Mai nessuna su Yagami stessa.
Sembrava fosse limpida come l’acqua, e profonda come un oceano.
Ken avrebbe voluto aiutarla come lei aiutava lui, ma questo Yagami sembrava intenzionata a non insegnarglielo.
Di contro, sembrava volergli insegnare mille cose su Miyako.
Non faceva che raccontargli di gite fuori porta e pomeriggi assieme, e di quanto fosse golosa di dolci, e di quella volta in cui le aveva mandato un’improbabile traccia audio destinata ad essere la sua suoneria del cellulare, e nel riprodurla aveva fatto girare indignato mezzo vagone di metropolitana. E poi ancora della sua passione per il té nero e la cerimonia del té, sostituita da quella degli idol, e poi ancora da quella del bricolage. Tutte passioni amate all’estremo, e rapidamente abbandonate.
“Smettila”, chiedeva a Yagami ogni volta, asciutto, gli occhi distanti.
“Miyako-san fa parte della mia vita”, ribatteva lei. “Vuoi davvero che la tagli fuori da ogni racconto?”
Assolutamente no, ed era proprio quello il problema.
“Non ti chiederò di presentarmela.”
E Yagami si sgonfiava appena, ogni volta inspiegabilmente un po’ delusa – come se le cose potessero essere diverse. “Cambierai mai idea?”
Una volta, all’uscita da scuola, Miyako aveva incontrato fugacemente il suo sguardo.
Stava parlando con Yagami, a voce così alta che Ken avrebbe potuto dire a memoria ogni dettaglio della nuova traccia audio che stava editando, e mentre si scostava una ciocca di capelli dal viso il suo sguardo si era posato distrattamente su Ken.
La velocità con la quale lo aveva distolto, come se fosse stata scottata, e l’espressione turbata del suo viso lo avevano gettato nello scoramento più totale.
Non si era più girata nella sua direzione, volontariamente, in modo evidente e stereotipato.
Nonostante lui la guardasse così.
“No”, rispondeva semplicemente.
E Yagami abbassava lo sguardo, pensierosa e muta, e Ken si ritrovava a sperare, ogni singola volta, che avrebbe capito.
Non succedeva mai, e il tormento si acuiva giorno dopo giorno.
Sembravano incastrati in un loop senza fine, che nessuno dei due sapeva come interrompere.

***
 
“Ichijouji-kun, ho letto le tue Parole.”
Il giorno in cui infine Yagami Hikari risolse l’enigma, stavano studiando assieme, l’uno accanto all’altro, silenziosamente assorti nei loro rispettivi compiti, a casa Ichijouji.
Yagami ruppe il silenzio senza preavviso, appena un bisbiglio, capace di far crollare grattacieli.
Ken rimase immobile, il vuoto che piombava come un macigno sulle sue viscere.
Yagami lo guardò appena, di sottecchi. Gli bastò un solo sguardo per comprendere che non era stato intenzionale.
“Ti sei chinato per raccogliere la penna”, aggiunse lei. “Ti si sono scostati i capelli dalla nuca. Non ho pensato … mi sono voltata e le ho lette. Perdonami.”
“Ah”, disse Ken. E non seppe come continuare.
Chinò lo sguardo sul suo quaderno, i caratteri che si confondevano, perdevano di significato. Prese la penna, se la passò tra le mani, la posò nuovamente. Gli era diventato difficile respirare.
“Ti prego, di’ qualcosa”, sussurrò Yagami, mortificata. “Sei arrabbiato con me?”
Ken scosse la testa. “Non sono arrabbiato.”
“Avresti ragione ad esserlo.”
“Non lo sono, davvero”, ribadì. Se ne sorprese. “Non … non pensavo fosse così visibile. Sono io a chiederti scusa.”
“Nessuno se n’è mai accorto?” Tentò Yagami timidamente.
Ken sollevò il capo, un debole sorriso sulle labbra. “Nessuno si è avvicinato tanto a me.”
Yagami tacque. Ken seppe che aveva capito.
“Sono un idiota”, disse infine, mentre l’imbarazzo gli colorava le guance. Si mise a guardare qualsiasi cosa, qualsiasi, che non fossero gli occhi di Yagami. 
“Non è poi così tanto visibile”, tentò di consolarlo lei. “E’ solo che sono seduta accanto a te.”
“Sarebbe potuto succedere mille volte.” Ken rise di sé. “E dire che ho fatto crescere i capelli apposta.”
“L’hai già incontrata?”
Eccola lì. La domanda scomoda. Sapeva che sarebbe arrivata, prima o poi.
Ken si prese il tempo di un lungo respiro.
“Me lo stai chiedendo davvero?” Le disse. “Oppure conosci già la risposta?”
“Ho un sospetto”, rispose Yagami. 
Ken le sorrise. “E’ più di un sospetto.”
Yagami non disse nulla.
Lui tornò a guardarsi le mani, le dita inerti sul tavolo. Le aprì, le strinse. 
Riprese a parlare, quasi senza avere controllo sulle sue labbra.
“Lei… non sa di essere la mia anima gemella”, disse a fatica. “Per saperlo dovrei riuscire a parlarle. E io non so neanche se dovrei farlo …
Mi fai schifo, ha detto quel giorno dopo la partita. Mi fai schifo… non Non vai a genio, non Ti comporti da bullo. Mi fai schifo. Sono passati anni, e… io sono ancora d’accordo con lei.”
Ken, senza fiato, si accorse di non essersi mai aperto così, con nessuno.
C’era una specie di istinto di sopravvivenza ad artigliargli il petto, intimandogli di tacere,
è troppo, basta, basta. Ma Ken non poteva fermarsi.
Non voleva farlo, per la prima volta nella sua vita.
Perché Yagami Hikari voleva ascoltarlo.
“Sto … cercando di essere una persona migliore, ci sto provando, davvero, ma … non capisco bene come si fa.”  Ken si torse le mani. “Resto intrappolato nelle stesse situazioni … non sono capace di fare del bene, eppure ne ricevo continuamente. Dai miei genitori, da Daisuke, da te. Nonostante tutto non so donare nulla, so solo prendere… sono io l’insetto.” Rise appena, di una battuta amara che conosceva solo lui. “E lei si merita un’anima gemella migliore… qualcuno solare come lei, magari, pieno di interessi come lei, capace di renderla felice. Qualcuno che non si sarebbe mai comportato come me… o se non altro qualcuno in grado di fare ammenda. Qualcuno che … qualcuno che non posso essere io.”
La gola gli si serrò.
“Ho questo marchio d’infamia che mi ricorderà per sempre chi sono davvero”, continuò, portandosi la mano dietro il collo. Strinse appena la presa delle dita, come se cercasse di soffocare le sue Parole. Come aveva sempre cercato di fare, in fondo.“Qualunque cosa io provi a fare, io sarò sempre io. E Miyako-san sarebbe infelice con me. Io non posso pensare di renderla infelice, lei è così…”
Il groppo in gola ebbe la meglio: Ken tacque, turbato, sconfitto, la mano fermamente posata sul collo.
Scosse lentamente il capo.
“Non posso.”
Yagami si avvicinò silenziosamente, così tanto che Ken quasi non se ne accorse.
Gli posò una mano sulla sua, proprio quella che nascondeva le sue Parole. Una mano fredda, liscia, gentile.
Ken ebbe uno scatto, ma non si ritrasse.
“Ma tu non sei questo”, disse dolcemente Yagami.
Ken continuò a tenere gli occhi bassi.
“Ichijouji-kun”, lo chiamò ancora lei. “Guardami. Tu non sei le tue Parole.”
Ken la guardò. 
Non c’era mai stato così tanto amore negli occhi di Yagami: non l’aveva mai guardato con tanta tenerezza, con tanta accettazione. 
Non era mai stata così vicina.
“Anzi … tu sei quello che sei soprattutto grazie a loro”, continuò Yagami, un sorriso luminoso come una stella. “Hai preso quell’episodio doloroso e l’hai trasformato nella tua spinta a fare meglio, a essere meglio. Non è un marchio: è un punto di partenza. Tu sei una bella persona, Ichijouji-kun. Lo penso davvero. Ed è normale che tu abbia dovuto ricominciare da capo, magari più tardi di molti nostri coetanei, ma guarda cosa hai conquistato … guarda cosa ci hai regalato. Stare con te è un dono. Io sono grata al destino per averti potuto conoscere.”
Le lacrime affiorarono ai suoi occhi prima che potesse impedirselo.
E lì rimasero, sospese, indecise, mentre la vista di Ken si appannava, e tutto il mondo si capovolgeva.
Yagami era lì, la mano ancora posata su quella di lui, gli occhi brillanti, il sorriso consapevole, tanto vicina che avrebbe potuto distinguerle ogni neo sul viso. Aveva sempre avuto quel delicato profumo da ragazza? Non l’aveva mai sentito. Non si era mai concesso di sentirlo.
Ken non pensò.
Si chino, e posò le sue labbra su quelle di Yagami.
Fu solo un attimo, la testa vorticante, il cuore in subbuglio. Un attimo goffo, forse troppo irruento, che gli diede appena il tempo di sorprendersi della consistenza di altre labbra contro le sue.
Poi, la realtà lo colpì in faccia come un pugno.
Ken si ritrasse bruscamente, gli occhi spalancati.
Yagami era rimasta immobile, come stordita, le mani ancora sospese a mezz’aria. 
Il suo stomaco si contrasse, nella sensazione di aver sbagliato. 
“Perdonami”, sussurrò Ken. “Io…”
Yagami, lo sguardo assente, si posò due dita sulle labbra, e ancora tacque.
“Yagami-san, perdonami”, disse ancora lui, desolato. “Non so cosa mi sia preso.”
Non lo sapeva davvero. Sapeva solo di aver rovinato tutto.
Tutto quello che avevano costruito assieme era rovinato, per colpa sua. Come poteva essere successo solo in un secondo? 
Come aveva potuto essere così avventato?
“Se vorrai andare via lo capirò.”
Distolse lo sguardo da lei, colpevole. Attese.
Ma Yagami, ancora una volta, non andò via.
Abbassò le dita, lentamente, come se avesse paura di rompere il momento – o forse se stessa.
E quando, infine, parlò, la sua voce sembrò accarezzare ogni parola.
“Io ho già incontrato la mia anima gemella.”
Ken, pietrificato nella mortificazione, alzò bruscamente il capo. 
Era la prima volta che Yagami parlava di una cosa tanto personale.
“E’ il fratello minore di un caro amico di Taichi”, disse. “Si è trasferito recentemente a Odaiba, viene in classe con me. Taichi me lo ha presentato, e così l’ho conosciuto. Mi ha fatto un sorriso enorme, mi ha teso la mano … e mi ha detto le mie Parole.”
C’era un sorriso tutto diverso ora, sulle labbra distratte di Yagami. Un sorriso sottile, delicato, ma capace di tagliare a fondo – come un foglio di carta sulle dita.
“Ho provato un’emozione fortissima in quel momento… non so neanche descrivertela, ma forse puoi capirmi. Lui mi guardava, con grandi occhi limpidi, e io non sapevo cosa fare, così decisi, semplicemente, di rispondergli. Rispondergli in modo banale, capisci. L’importante era parlargli, dopotutto… non avrebbe potuto non riconoscermi. Quindi gli risposi, col cuore che mi batteva all’impazzata, con le mani tremanti, e aspettai una sua reazione.”
Due lacrime silenziose solcarono il viso immobile di Yagami, sotto il viso stupefatto e colpito di Ken. Gli sembrava di vederla ora, finalmente, per la prima volta.
“Lui mi riconobbe”, continuò lei, lo stesso tono delicato e dolente. “Glielo lessi negli occhi. Vidi il suo viso cambiare in sorpresa, meraviglia… e poi paura. Sapeva chi ero, ma ebbe paura di me, di cosa significavo. 
“Corse ai ripari. I suoi occhi si mascherarono. Ritornò a sorridermi, con nonchalance, e si mise a parlare con me come se niente fosse. Taichi non si accorse di nulla. Ce ne accorgemmo solo noi due… attori incastrati in una recita in cui ci avevano catapultati senza conoscerne le battute.”
Yagami dovette accorgersi dell’espressione turbata sul viso di Ken: il suo sorriso si fece più ampio.
“Ho scoperto più tardi – a fatica, perché non ne parla affatto volentieri - che, da bambino, ha sofferto moltissimo per la separazione dei suoi genitori, cosa che lo ha anche allontanato da suo fratello maggiore”, gli spiegò, con una dolcezza che fu a un tratto rivelatrice dei suoi sentimenti per questo ragazzo. “I suoi sono anime gemelle. E’ normale non voler soffrire.”
“Tu non lo faresti soffrire”, disse Ken stupidamente.
“Tutte le persone fanno soffrire”, ribatté Yagami. “Bisogna solo chiedersi se ne valga la pena.”
Il cuore di Ken si strinse dolorosamente.
“Sei la persona più buona che io conosca, Yagami-san”, le disse, balbettando appena per l’imbarazzo. “Vali certamente la pena.”
Yagami scosse la testa, gli occhi lucidi. “Non per lui.”
E rimase immobile, tristemente assorta, come una bambola abbandonata sul pavimento.
Ken non riuscì a sopportare una vista simile.
“Hai mai provato a parlargli?” Le chiese.
Yagami scosse, di nuovo, la testa. “Non ne ho il coraggio.”
Certo che no.
Perché si sentiva tracotante, Yagami Hikari, a chiedere un po’ di amore. Perché pensava di essere insignificante, senza troppo da dare, non importante abbastanza per avere qualcuno a lottare per lei.
Perché non aveva mai imparato ad essere egoista, solo un pochino, quel tanto che basta per essere felice, per condividere quella felicità con qualcuno.
Non aveva bisogno di dirglielo: Ken lo sapeva. 
Lo sapeva davvero.
E così l’affetto che provava per lei crebbe, lo rese coraggioso.
Si avvicinò, allungò le mani. La vide irrigidirsi appena, un segnale evidente di che tipo di contatto non desiderava.
Ma il pericolo era passato.
Ken si limitò a prenderle le mani posate sul grembo, come lei aveva fatto tante volte per lui – come lui non si era mai azzardato a fare finora, pur desiderandolo tante volte.
Incontrò i suoi occhi castani, serio come poche volte lo era stato.
“Vorrei che tu gli parlassi”, le disse.
Gli occhi di Yagami erano così scoperti, ora.
“E io vorrei che tu parlassi a Miyako-san”, lo provocò dolcemente.
Un tuffo, l’ennesimo, alle viscere.
“Lo so che non sono credibile”, sospirò Ken. “Ma io ti supporterò. Voglio che tu trovi il coraggio di parlare alla tua anima gemella. Se lo troverai tu…”
Le labbra di Yagami si incurvarono appena, così Ken continuò.
“Se tu troverai il coraggio, sentirò di averne un po’ di più anche io. Per Lei.”
“Tu vuoi parlarle, non è vero?” Gli domandò dolcemente Yagami.
Ken chiuse, brevemente, gli occhi.
“Sì.”
Yagami gli strinse le mani a sua volta.
“Allora dobbiamo impegnarci tantissimo entrambi.” Disse. “Grazie. Anche io mi sento più coraggiosa, ora.”
“Dimmi che non ho rovinato nulla”, mormorò Ken.
Yagami lo guardò.
“Dimmi che possiamo continuare a starci accanto.” Forse Ken non aveva il diritto di chiedere una cosa tanto egoistica. Forse doveva smettere di aggrapparsi alle persone, pregandole di non abbandonarlo. Ma questa volta, solo questa volta, non riuscì a farne a meno. “Non sopporterei l’idea di aver perso il nostro rapporto per colpa di uno stupido errore.”
Yagami rimase in silenzio per un istante, sorpresa. Poi, mentre Ken iniziava a chiedersi se non fosse il caso di lasciarla andare accettando la responsabilità delle sue stupide azioni, la vide scuotere la testa serenamente.
“Cosa dici, Ichijouji-kun?” Gli disse semplicemente. “Siamo più legati di prima, ora.”
E ogni parte di lei, stavolta, sembrò sorridere. 
L’ansia di Ken si sgonfiò come un palloncino, lasciandolo tremendamente sollevato.
“Però”, aggiunse poi Yagami, esitando, a mezza voce, “Non posso darti niente di diverso da quello che siamo ora. Per te va bene?”
Sembrò quasi impaurita dalla risposta, come se dalle parole di Ken dipendesse il destino del loro rapporto.
“Così come siamo”, rispose Ken semplicemente, e credette a ogni parola pronunciata. “Esattamente così come siamo. Non voglio altro.” 
Yagami gli sorrise, ancora una volta.
E lì rimasero, le mani strette tra loro, una vicinanza forse eccessiva per due semplici amici, decisamente non abbastanza per due innamorati.
Aveva poi un senso cercare di descriversi?
Avevano bisogno l’uno dell’altra.
E solo ora, con quelle dita intrecciate, Ken aveva la sensazione che le cose si sarebbero messe a posto, prima o poi. Che avrebbero trovato, insieme, la forza di farlo.
Un giorno, forse, ce l’avrebbero fatta.

***
“Ho detto a tutti che ci stiamo frequentando.”
Ken quasi inciampò per la sorpresa.
“Non guardarmi così”, aggiunse Yagami serenamente, le mani fermamente strette attorno alla maniglia della sua cartella scolastica. “Tutti cominciavano a farsi domande. Ho pensato che fosse più facile per entrambi rispondere così, alla luce del tempo e del modo in cui stiamo assieme abitualmente.”
“Tu non lo pensi davvero, giusto?” Chiese Ken esterrefatto. “Che ci stiamo frequentando.”
“Ma no. Però ci chiamiamo ogni giorno, usciamo spesso assieme. Ci hanno visti seduti vicini.” Yagami si strinse nelle spalle, fin troppo innocentemente. “Non somiglia un po’ a una relazione?”
“Non ho idea di cosa somigli a una relazione”, sospirò Ken. 
Non c’erano mai più stati baci tra loro. Non ce ne sarebbero stati mai più.
“Se ti dispiace dirò a tutti che ci siamo lasciati.”
Ken le lanciò un’occhiata rapida. 
“Lo hai fatto per Lui?” 
Yagami non incontrò il suo sguardo, continuando a fissare la strada davanti a sé. “Forse l’ho fatto perché ho ancora bisogno della tua vicinanza.”
“Quindi sì.” Ken sospirò ancora. “Non importa, puoi … puoi dire che stiamo assieme. Non è affatto un problema per me.”
E poi cercò, con tutte le sue forze, di assumere un’espressione noncurante.
Non gli riuscì.
“Anche Miyako-san lo sa”, aggiunse Yagami.
Ovviamente.
Ken strinse i denti, il cuore che prendeva a impazzire nel dubbio, nell’incertezza, nel tentativo di indovinare una conversazione per lui paranormale. “Ah.”
“Non avere paura”. Gli prese la mano, gliela strinse. “Andrà tutto bene.”
“Dubito. L’ha presa male, immagino.”
“Andrà bene, Ichijouji-kun. Fidati di me.”
Yagami gli sorrise, sicura, rassicurante. 
Quel giorno Ken fece un pensiero fugace, che cercò di respingere con tutto se stesso.
Sospettò che Yagami volesse proprio avvicinare loro due, con quella mossa. Che volesse aiutare più lui che lei, portando Ken e Miyako a conoscersi, portando Ken a desiderare maggiormente di parlarle e magari anche a dargli il coraggio di farlo, con la presenza di Yagami accanto.
Ma Yagami non poteva essere stata così calcolatrice… vero?
Non poteva aver previsto tutto.
Non poteva aver previsto il loro incontro al concerto dei KoD, il tumulto nel quale quell’incontro aveva sprofondato entrambi, nonostante tutto la forza con la quale Miyako gli aveva preso le mani e gli aveva chiesto di restare, per lei.
Non poteva aver previsto che Miyako avrebbe cercato di parlargli trovandosi di fronte a un muro, che avrebbe pianto nel sentirsi rifiutata da lui, che lui avrebbe così tanto pensato a quelle lacrime da buttare alle ortiche ogni prudenza e scriverle una mail senza sapere se questo lo avrebbe fatto scoprire. 
Non poteva aver previsto che quella mail sarebbe stata solo la prima, e che ce ne sarebbero state una valanga dopo. Le confessioni a cuore aperto, la sensazione di sentirsi così simili da sentire i ghiacciai eterni del suo cuore sciogliersi impotenti, così diversi da volersi scoprire ogni giorno, senza sosta.
Non poteva aver previsto che la situazione di Ken, le sue speranze disperate, si sarebbero aggravate ogni giorno in cui conosceva Miyako, in cui si faceva conoscere da lei.
Non poteva… o forse sì?
Si doveva forse supporre che Yagami avrebbe mai potuto prevedere che, una notte di fine marzo, Ken si sarebbe finalmente arreso di fronte alla potenza di quel che provava e avrebbe lasciato che le sue labbra si schiudessero, rivelando il segreto su chi lui era e su chi voleva essere?
Impossibile.
Yagami era un mistero: probabilmente lo sarebbe rimasta in eterno.
Ma se quel giorno Ken avesse creduto fino in fondo al suo sospetto… le cose sarebbero andate in modo diverso?
Avrebbe voluto cambiare il corso degli eventi o avrebbe lasciato tutto così com’era?
In fin dei conti, esiste davvero un universo parallelo in cui Ichijouji Ken e Inoue Miyako non avrebbero finito per incrociare i loro destini?




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* Il riferimento al termine ometto viene da "L'ultima stagione", di D. Robertson. L'uso che ne faccio qui è leggermente diverso, ma non posso ignorare il nocciolo che lega strettamente i due ometti, così come l'enorme peso che si portano dentro dentro entrambi per tutta la loro vita.
   
 
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