Era una notte
caldissima, neppure sul terrazzo era riuscita a trovare sollievo al
calore
opprimente di quella strana estate. La mezzanotte era passata da un
pezzo ma
non riusciva a decidersi a rientrare. Fu allora che vide quella strana
luce nel
cielo e poi il fragore di uno schianto nel bosco… e
poi… la paura. Non sapeva
bene il perché, ma si ritrovò a correre il
più velocemente possibile, lontano
da quel posto. Brandelli di un passato dimenticato…
sensazioni imprecisate… e
quell’urlo straziante…
Doveva fuggire da
tutto questo, scappare da qualcosa che lei non avrebbe dovuto conoscere
e ricordare.
E ancora quell’urlo, orrido e terribile, si faceva strada
nella sua mente;
l’immagine nitida di un corpo straziato a terra la opprimeva
da dentro: il capo
riverso innaturalmente di lato, una cascata di capelli incrostati di
sangue a
coprire i vitrei occhi senza vita di una giovane madre che troppo
presto aveva
sentito il soffio vitale scorrere via dalle vene.
I piedi nudi
correvano agili sulla terra, sporchi e feriti per il contatto con
l’aspra
collina e le sue insidie. Ma lei non se ne curava. Non sapeva dove
andare, ma
continuava a correre non sentendo la fatica, o, forse, volendo
ignorarla.
Altre immagini
sfocate, una voce. Scappa da tutto
questo… Riconobbe il dolce timbro della voce di
una madre lontana…
I lunghi capelli
corvini le si appiccicavano al volto, madido di sudore. Poteva sentire
il
battito del suo cuore accrescere ad ogni passo. Da cosa stava fuggendo?
Sogno e
realtà si confondevano nella sua mente. Agiva
d’istinto ora, e sentiva che solo
quello sarebbe riuscito a portarla in salvo. Ma in salvo da cosa?
Quanto aveva corso?
Non lo sapeva. L’ultima cosa che ricordava era il buio. Un
buio ristoratore, un
buio dolce, che l’aveva avvolta… era forse morta?
Ambra era sempre stata una
ragazza strana
sotto molti punti di vista.
Viveva in un orfanotrofio da
quando aveva sei
anni, poco meno di un terzo della sua intera vita. Non aveva ricordi
del suo
passato, nessuno sapeva cosa era successo ai suoi genitori. Scomparsi.
Quando era giunta in quella
che sarebbe stata
la sua casa fino alla maggiore età era in uno stato pietoso.
Indossava una
veste lacerata in più punti,
aveva il
corpicino sudato ed i piedi nudi feriti. Portava con sé una
collanina, con il
suo nome inciso nell’argento: Ambra. Era svenuta subito.
L’avevano soccorsa,
medicata, vestita e nutrita, ma la bambina non riusciva a ricordare
nulla di
quello che doveva essere successo solo qualche ora prima. La sentivano
agitarsi
nel sonno, quasi febbricitante, probabilmente nel rivivere ogni notte
quegli
avvenimenti che le avevano distrutto l’esistenza.
Perché allora Ambra sembrava
non ricordare? Non sapevano dirselo, così col tempo avevano
smesso di pensarci.
Intanto lei cresceva, sola, senza nessuno. Perché lei era
così. Taciturna,
introversa, fredda. Man mano che il tempo passava era diventata quasi
invisibile agli occhi di tutti. Stava semplicemente lì, in
un angolino, a
scrivere o a leggere. Talvolta la vedevano con lo sguardo perso nel
vuoto,
chissà dove. Ma nessuno se ne era mai preoccupato. E a lei
andava bene così.
Non avrebbe sopportato la compassione negli occhi di tutti, lei odiava
la
compassione. E così si era costruita attorno un muro di
freddezza ed
indifferenza.
Aprì lentamente
gli
occhi rimanendo abbagliata dalla luce dell’alba. Dove si
trovava? Era forse nei
campi elisi? No. Non era ancora giunta per lei l’ora della
morte. Sarebbe
arrivata, ma non ora.
Ci mise un
po’ ad abituarsi a quella luce abbagliante.
Quando finalmente poté tenere aperti gli occhi vide il cielo
ancora arrossato
da un tramonto insanguinato. Avvertì in sé la
spiacevole sensazione di aver già
vissuto quella situazione, ma non riusciva, per quanto tentasse, a
ricordare
quando.
Quanto aveva dormito?
Non lo sapeva. Tentò di portarsi una mano agli occhi per
asciugare le lacrime
procurate dalla luce, ma si accorse solo allora che i suoi esili polsi
erano
stretti da pesante cordame. La cosa non la sorprese, e forse se ci
avesse
riflettuto su si sarebbe chiesta il perché. Rassegnata
provò ad alzarsi a
sedere ma un dolore lancinante all’addome la fece desistere.
Qualche lacrima
scivolò lungo le guance procurandole solletico.
Non tentò di
urlare.
Una voce nella sua testa le suggeriva che sarebbe stato inutile.
Rotolò su se
stessa e,
stringendo i denti, con un colpo di reni si sedette
sull’erba. Intorno a sé
vedeva solo campi, prati e… sangue. Abbassò lo
sguardo e si trattenne dal
vomitare. Una ferita profonda almeno un centimetro, tra piccoli graffi,
le
squarciava l’addome nudo. Di colpo tutto il dolore a cui non
aveva fatto caso
prima la invase fino alle ossa. Aveva voglia di urlare, aveva bisogno di urlare; squarciare quello
straziante silenzio. Non riuscì ad emettere suono alcuno.
Sentiva i muscoli
intorpiditi che si rifiutavano di compiere qualunque comando venisse
loro
impartito. La stanchezza la sentiva pervaderla, fin nelle viscere,
mentre si
mescolava alle altre sensazioni del corpo in un’unica
indistinta. Le lacrime le
salirono con forza agli occhi ma non voleva piangere. Non
più. Contro ogni sua
volontà una goccia ancora scese lenta lungo la guancia
sporca e sudata, come
una straziante afonia che non fece altro che aumentare il dolore che
provava.
Ormai non riusciva neanche più a pensare, non capiva
più niente. Aveva
dimenticato anche la stanchezza che fino ad ora aveva lottato per farle
chiudere gli occhi.
L’ultima
cosa che vide fu una luce. Una luce accecante ma al
contempo dolce. E poi un volto di donna, lo stesso volto che aveva
visto nei
suoi flashback.
Sua madre?
Sì, era lei.
Lei.
Ancora una volta
aprì
gli occhi e l’unica cosa che vide fu il nulla. La semplice e
pura assenza.
Assenza di tutto. Si sentiva come persa, cieca. E poi… poi
le riapparve davanti
agli occhi prepotentemente la solita visione, ma in fondo ne fu lieta.
Braccia bianche e ali
piumate, un volto dolce incorniciato dai lunghi capelli pallidi al
vento.
Niente le era mai sembrato talmente chiaro e confuso allo stesso tempo.
Una
figura sfocata, persa nei meandri della sua memoria, ma conosciuta e
amata.
Nella stretta tiepida
di quell’abbraccio sentiva crescere l’emozione
dentro di sé, dove solo poco
prima c’era posto per null’altro che dolore e
amarezza.
È tutto finito,
ora ci sono io con te.
E
all’improvviso tutto il resto perdeva di importanza; la
sua stessa esistenza, il respiro nei polmoni e il battito del suo
cuore. Stava
bene. Era al sicuro.
Tornò con fatica
alla
realtà. Era nella sua stanza. Si guardò bene
intorno, non capendoci niente.
Fuori pioveva a giudicare dal rumore che sentiva. Si voltò
verso la finestra:
era notte.
Un cerchio le
stringeva la testa; cosa era successo? Non
ricordava più…
Ambra era senza dubbio una
ragazza strana. Ma
niente poteva spaventarla ormai.
Un angelo vegliava su di lei.