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Autore: drisinil    11/09/2022    2 recensioni
[bokuaka] [spoiler post timeskip] [canonverse]
Questa storia nasce dalla bellissima challenge "becausethenight" del gruppo fb hurt/comfort italia, su un prompt legato alla privazione e all'inedia.
Qualche volta il cibo che riempie i vuoti e conforta.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Fame



La festa era stata un successo, anche se lui non ci contava affatto. Si era sentito preoccupato e ansioso dall'inizio alla fine, teso per ogni battuta che volava da un capo all'altro della lunga tavola imbandita, pronto a cogliere qualsiasi sintomo di un ribaltamento degli umori, di un improvviso, tragico precipitare degli eventi.

Invece, non era successo nulla di tutto ciò. Avevano mangiato e bevuto a volontà (nessuno aveva contato le calorie), avevano riso, fatto gli idioti, parlato a voce troppo alta, persino cantato e ballato sul tavolo. E, soprattutto, avevano ricordato insieme tutti i momenti più strepitosi, meravigliosi ed esaltanti di quei tredici, superlativi anni di carriera.

Keiji aveva preparato l'evento per mesi: il luogo più adatto, gli invitati giusti (istruiti uno per uno), l'atmosfera perfetta, un banchetto luculliano, persino il megaschermo con il montaggio dei grandi trionfi, comprese le Olimpiadi di Parigi e il matrimonio. Una regia che orchestrava i dettagli, restando focalizzata sull'unico obiettivo di mantenere alto, altissimo,  il morale di Koutarou. Sorprendentemente, aveva funzionato.

Come un meccanismo ben oliato e con un eccellente lavoro di squadra, erano scivolati via verso la chiusura della serata senza neppure un piccolo inciampo, una battuta d'arresto, un momento di tristezza o una sbavatura.

Quando anche l'ultimo ospite se ne fu andato - era il proprietario del locale e si fidava abbastanza da lasciar loro le chiavi - nella sala privata di Onigiri Miya rimasero solo loro due.

Koutarou sorrideva e ciangottava masticando. «E' stata forte, la festa, vero Kaashi?»

Keiji sbatté le palpebre due volte, mentre il suo senso di allarme si attivava: Kaashi invece di Keiji. Si versò un bicchiere di sakè tiepido e ne sorbì un sorso.

Koutarou mangiava allegramente: takoyaki e tempura avanzati nei grandi piatti da portata, onigiri al tonno pieni di wasabi, yakiniku bruciacchiati abbandonati sulla griglia spenta, grandi cucchiaiate di zuppa.

«Hai ancora fame, Kou?» domandò con un sorriso, sedendoglisi accanto sui cuscini intorno al tavolo basso.

Bokuto annuì, gli brillavano gli occhi come dopo una vittoria, o nel pieno di una febbre. «E' tutto buonissimo» disse. «E la festa è stata stupenda. Ti sono grato e ti amo, davvero, davvero tanto!» aggiunse, mentre si guardava intorno e tirava verso di sé tutti i piatti a cui riusciva ad arrivare, allungando le braccia. «E' tutto buonissimo» ripeté, con gli occhi sgranati.

«Già» rispose Akaashi. «Non dovresti esagerare, però. Ti farà male lo stomaco.»

Bokuto scoppiò a ridere, sputacchiando riso e pulendosi la bocca con il dorso della mano. «Macché» esclamò, e subito dopo si lanciò in bocca un onigiri. «Qfante calorie avrò manfiato stafera?» bofonchiò a bocca piena. Deglutì tutto insieme, con sforzo visibile. «Cinquemila? Seimila?» ipotizzò, battendosi il petto per favorire il transito del cibo.

«Parecchie» rispose Akaashi e all'improvviso gli mancò il coraggio di guardarlo.

«Ora posso mangiare tutto quello che voglio, no?»

«Sì, certo.»

«E' proprio una cosa forte» disse, e si infilò in bocca un groviglio di spaghetti pescati da una ciotola di zuppa ormai gelida. Una ciotola qualsiasi, di quella grande tavolata: l'avanzo di qualcuno.

«Carboidrati!» esclamò orgoglioso, fra un suono di risucchio e l'altro. «Me li sognavo di notte... »

L'unico rumore nella stanza erano le mascelle ostinate di Bokuto che ruminavano sguaiatamente, e i colpi delle bacchette contro i bordi di piatti e scodelle.

«Kou, stai bene?» domandò Akaashi.

«Alla grande!» rispose Bokuto. E fece sparire fra le fauci la verdura decorativa di un piatto di sushi vuoto. «Mi piace un sacco come cucina Osamu! Cucina molto meglio di come Tusm-tsum alza per me le pipe, e ora finalmente posso dirlo!» shignazzò.

L'aveva detto. Più di una volta, quella sera. E Atsumu aveva incassato con una risata a labbra strette, che doveva essergli costata parecchio. La suoneria del telefono di Miya Osamu era già stata modificata e ora, con la voce da fanfara di Bokuto, proclamava la sua superiorità sul gemello. Forse, gli avrebbe fatto lo sconto.

«Sei ubriaco?» gli domandò Akaashi.

«Un po'» mentì Bokuto, che invece era sobrio. E cercò di sfuggire lo sguardo indagatore dell'altro.

Bo non sapeva mentire. Era refrattario alla menzogna e fisiologicamente incapace di gestirne una: la sua sincerità trapelava dagli sguardi nervosi, dai movimenti ripetuti e inquieti delle mani, da mille espressioni di disagio, incertezza, senso di colpa che gli si avvicendavano sul viso, mentre la verità premeva contro le labbra serrate e prima o poi precipitava fuori. Akaashi amava quella purezza: nonostante i soldi, il successo, la fama, non era mai andata perduta. Un po' più sporca, un po' più logora e sfibrata, era ancora lì, a renderlo eternamente giovane, infinitamente leale e assolutamente unico nel suo genere. La persona più degna d'amore al mondo.

«Va tutto bene, Kou. Lo sai, vero?»

Bokuto annuì e si riempì la bocca di riso, con le mani, con foga, come se non toccasse cibo da mesi. Lo sguardo era lucido, liquido, le stelle nei suoi occhi, anziché danzare, morivano in violente esplosioni di luce.

Akaashi imparò in quel momento che una stella cadente è uno spettacolo, ma un firmamento che precipita tutto insieme è una catastrofe.

«Perché?» domandò Koutaro, mentre chicchi di riso gli piovevano ai lati della bocca. «Perché doveva capitare a me?»

Akaashi sospirò e si sentì spaccare il cuore: non aveva una risposta. Ne cercava una da quasi due anni, da quella prima risonanza piena di spazi bianchi e aree opache, che sussurrava, fra un tendine sfilacciato e l'altro, la parola "ritiro".

Il medico lo aveva detto fra le righe, Akaashi lo aveva capito guardando lo schermo, solo Koutarou era riuscito a illudere se stesso, talmente bene che era durato un anno in più della valutazione ortopedica. Ma le lesioni erano troppe, troppo vecchie e troppo pronunciate per l'agonismo a certi livelli.

«Kou... »

Bokuto scosse la testa con rabbia e la sua grande mano aperta si abbatté sul piano del tavolo, facendolo tremare. Un polipo di wurstel, con tanto di faccina felice, saltò fuori dal piatto, un bicchiere si rovesciò, creando una larga macchia di birra.

«Omi-kun ha quella cosa ai polsi da una vita, le caviglie di Tsumu si infiammano ogni due per tre, Ushiwaka si spara infiltrazioni al cortisone nella rotula una dietro l'altra, persino Kageyama ha la lombalgia, anche se non lo dice a nessuno e si imbottisce di FAN di nascosto (me l'ha detto Sho). Perché solo io me ne devo andare per colpa di questa spalla di merda? Perché. Cazzo. Solo. IO.»

Si infilò in bocca uno scarto di carne fibrosa e semicruda e iniziò a divorarlo con rabbia.

«Kou, datti una calmata, ne abbiamo già parlato. La carriera di uno sportivo ha una durata limitata, per questo noi... »

«Uno sportivo!» lo interruppe sputando un pezzo d'osso. «Uno. Ce ne sono millemila! Dovevo essere io?»

«Tutti Kou! Tutti gli sportivi professionisti. Prima o poi... »

«Prima me ne vado solo io!» gridò Bokuto, e si cacciò in gola qualcosa, che Akaashi neppure riuscì a identificare.

«Kou, devi smetterla di fare così.»

«Così come?»

«Basta ingozzarti. Guardami.» ordinò, con la sua voce pacata ma ferma, cercando di afferargli il viso, per voltarlo verso di sé.

Bokuto lo scansò con una manata e una specie di ringhio. Non era mai successo prima, che lo respingesse. Mai, neanche una volta, negli ultimi sedici anni.

«Lasciami stare! Tutti a dirmi che ora posso fare il cazzo che voglio. Posso smettere di allenarmi. Posso alzarmi tardi al mattino. Posso mangiare quello che mi pare. Posso mettere su una pancia così» disse, circondando con le braccia una mole enorme che sembrava volesse raggiungere quella sera stessa. Mise in bocca tutto quello che riuscì a raccogliere con le mani, senza preoccuparsi di cosa fosse.

«Kou, piantala di sparare cazzate! Mi hai stancato» sbuffò Akaashi, seccato. Fingere di perdere la pazienza (perché la pazienza di Akaashi con Bokuto non aveva mai nemmeno lontanamente raggiunto il limite) era l'estrema ratio: Keiji lo faceva quando qualsiasi altra strategia di contenimento falliva.

Funzionò, perché Bokuto smise all'istante di ruminare e si voltò stupito a guardarlo.

«Hai una spalla fuori uso, non stai morendo!» Gli occhi di Keiji erano duri, quelli di Bokuto, non trovando un appiglio, scivolarono in basso, gonfi di lacrime.

«Invece sì» disse pianissimo, prendendosi la testa fra le mani e serrando gli occhi. «Invece ci muoio, Keiji. Senza pallavolo io ci muoio.»

Il dolore e la disperazione addensati in quelle parole investirono Keiji come un'onda di tsunami, devastante e impietosa. Vedere Koutarou soffrire era l'unica cosa al mondo capace di spezzarlo, di togliergli la ludicità, di annientare il supremo buon senso e la calma olimpica con cui affrontava la vita.

La testa gli crollò in avanti come se non avesse più una spina dorsale a sostenerlo. «Mi dispiace tanto, Kou» disse, affranto come se fosse tutta colpa sua.

E così si sentiva, colpevole: aveva mancato verso Koutaro in mille modi. Ci aveva messo anni a trasferirsi a Osaka, tanto per cominciare, e Kou era rimasto da solo, senza aiuto, senza supporto, senza buoni consigli, in mezzo a quegli squinternati dei Jackals, soggetti capaci di ubriacarsi una sera e correre venti chilometri la mattina dopo, di allenarsi tredici ore senza criterio, di dare fuoco ai sanitari dei bagni degli alberghi come garanzia di igiene, di portarsi dietro dolori cronici per mesi e non curarsi, solo per paura di non entrare in campo alla prossima partita.

Si pentì di ogni volta che non aveva insistito per un giorno di riposo in più dopo un infortunio, un po' di carico in meno sui pesi, una fisioterapia più dura, ore di sonno recuperate, pause negli allenamenti, uno stile di vita meno inflessibile.

Versò un'altra tazza di sakè e la bevve d'un fiato, la testa gettata all'indietro.

Si pentiva, si sentiva impotente e straziato. Soffriva del dolore di Koutarou come mai sarebbe stato capace di soffrire per il proprio.

Le lacrime presero a scendergli senza che potesse fermarle. Senza rumore, senza singhiozzi. Solo un torrente di pianto silenzioso, direttamente dal cuore.

Le braccia di Koutarou lo travolsero all'improvviso e Keiji si trovò premuto contro quel petto immenso e caldo, familiare, solido, che profumava sempre un po' di cannella e di casa. Del resto Kou era, in ogni senso possibile, casa sua.

«Keiji» sussurrò Bokuto al suo orecchio. «Guarda che non muoio sul serio. Solo un pochino, magari, di invidia, quando faranno a pezzi i Frogs la settimana prossima senza di me. E forse due lacrimucce le farò quando giocherà la nazionale e il numero quattro chissà a chi lo daranno... Ma penso che sopravviverò. Voglio dire, sono sopravvissuto alla diarrea durante le Olimpiadi, ho giocato con il pannolone sotto tre strati di calzoncini contenitivi, posso fare qualsiasi cosa, no?»

Keiji singhiozzò, finalmente. E gli venne da ridere, mentre ancora piangeva.

«Keiji?»

«Sì?» Si aggrappò alla schiena di Koutarou, spingendo forte con le dita, come se in quei dorsali dovesse metterci radici.

«Abbiamo un piano, vero? Per... domani. Non solo domani, per il futuro, voglio dire... Mi fa un sacco di paura, sai?»

Keiji sorrise contro il cotone umido della maglietta su cui premeva il viso. «Certo che abbiamo un piano. Lo conosci, lo abbiamo fatto insieme, ti sei impegnato tanto per la laurea. Andrà tutto bene, Kou.»

Bokuto mugolò un assenso riflessivo. Se lo diceva Keiji, doveva essere vero. Come era vero che il piano lo conosceva e gli piaceva molto, ma questo non diminuiva la paura, e nemmeno il senso di vuoto.

«Keiji?»

«Sì?»

«Non ti preoccupare, non morirò senza pallavolo.»

«Meno male.»

La stretta si fece più forte, intima, dolce. «Ma senza di te morirei sicuramente.»

Keiji tremò fino all'anima e alle ossa. A trent'anni passati, Koutarou era ancora capace, in sei parole, di farlo sentire un ragazzino, con i sentimenti esposti e il cuore cucito sulla manica.

«Kou, che ne dici se restiamo vivi?»

«Okay.»

«Okay.»

«Keiji?»

«Sì?»

«Scusa. Mi volevo trattenere, sai, per non rovinare il momento, ma mi sa che devo proprio vomitare... »

Scattarono in piedi entrambi. Il colorito di Koutarou dava sul verde marcio, la fronte era sudata, lo sguardo vacuo. «Muoviti, il bagno è di là. Te l'avevo detto di non ingozzarti.»

«Keij...» Bokuto s'interruppe con gli occhi fuori dalle orbite, tappandosi la bocca con le mani e mugolando disperato, mentre Keiji lo trascinava fino al bagno per un braccio.

Koutarou si accasciò ginocchioni di fronte al water e rovesciò senza pietà. Keiji gli sostenne la fronte, gli scostò i capelli e aspettò che finisse di ridurre il bagno di Miya al set di un film dell'orrore, di quelli con la gente posseduta. Poi gli passò un bicchiere d'acqua, lo aiutò a sciacquarsi il viso, gli inumidì la fronte e i polsi con l'asciugamano bagnato e gli ripeté infinite volte che sarebbe andato tutto bene, che andava già tutto bene. Infine lo portò a casa, lo spinse sotto la doccia e poi fra le lenzuola pulite.

Ridotto ai minimi termini, il piano per il futuro era questo: stare insieme, sempre.

   
 
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