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Autore: Hop Frog    05/10/2022    1 recensioni
Daniel è frutto di un rapporto sbagliato ed il simbolo del solco tra la generazione che ha vissuto la guerra e quella che ne ha pagato le conseguenze.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico
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                                                                                               MADRE. PADRE



Le fronde degli alberi creavano un soffitto verde a protezione del cocente sole estivo, il cielo era slavato, di un bianco pallido che pareva spalmato come burro su una fetta di pane. Tirava una pietosa brezza che portava il sentore umido e salmastro dell’oceano.
Ad Otto piaceva quel posto. Era stato proprio fortunato ad essere assegnato a quella zona dell’Europa, appuntita come un ago all’estremità occidentale: quando era a casa , doveva andare letteralmente dall’altra parte del Paese per vedere il mare, ora ce l’aveva a pochi chilometri.
Si sistemò meglio il fucile in spalla continuando a passeggiare. Non che avesse poi così tanto tempo libero per poterselo godere, però era riuscito a trascorrere almeno due belle giornate in spiaggia, che rappresentavano uno dei pochi momenti di tranquillità da quando si era arruolato.
Si fermò di botto quando vide una ragazza. Era alta e mora, il volto corrucciato in una espressione di fastidio rivolta ad una bicicletta appoggiata ad un tronco.
Come è bella, pensò Otto, avvicinandosi cautamente.


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Mathilde sbuffò per l’ennesima volta. Doveva esserle caduta la catena, accidenti! Lei non aveva la più pallida idea di come metterci mano ed era distante da Pleurtuit abbastanza per considerare l’eventualità di trascinarsela dietro come un martirio, specie con quel caldo. Tuttavia sapeva di doverlo fare e sperava di trovare qualche anima buona disposta ad aiutarla senza chiedere soldi in cambio. Sempre che potesse essere riparata, ovviamente, altrimenti per lei sarebbero stati guai.
“Signorina, mi scusi...”
Mathilde si voltò e vide che dietro di lei c’era un soldato tedesco.
“Salve.” rispose lei, timidamente nervosa.
Lui sorrise in modo rassicurante.
“La vedo in difficoltà. Posso sapere cos’è successo?”
“Oh, credo… credo che mi sia caduta la catena.”
“Mi permetta di dare un’occhiata?”
“Ma certo, certo.”
Mathilde si spostò affannosamente e osservò il soldato mentre si accovacciava davanti alla bicicletta e cominciava a trafficare. Non poté fare a meno di soffermarsi sui suoi capelli biondi e ricci, sui tratti fini, sul fisico asciutto. Distolse lo sguardo, imbarazzata; sapeva che a milioni di ragazze piacevano i tedeschi, dopotutto erano sì nemici, ma uomini, giovani, eleganti e forti. Dopo i primi momenti di odio e paura adesso era comunissimo vedere al ristorante, al parco, in spiaggia militari tedeschi con accanto la fidanzata francese. Era una specie di ribellione all’autorità, ai genitori, all’essere l’angelo del focolare a cui era permesso amare un solo uomo nella propria vita, con morigeratezza, ovviamente. Quei ragazzi che non si facevano scrupoli nel girare mezzi nudi avevano risvegliato in loro istinti sopiti. E poi quelle divise, e quell’educazione rigidamente prussiana erano irresistibili. “I tedeschi sono gli amanti migliori” sospiravano le donne, e non solo loro. Ovviamente le persone bisbigliavano avvelenante dietro quelle coppiette, salvo poi fare affari d’oro con gli occupanti ed accoglierli nei loro negozi con un sorriso non si capiva quanto falso visto che pagavano bene.
“Ecco fatto.”
“Cosa?” esclamò Mathilde, risvegliata dalle proprie riflessioni.
“Sono riuscito a ripararla.”
“Sul serio?” Mathilde era felicissima, i pensieri indecenti sostituiti dal sollievo di riavere il suo unico mezzo di trasporto.
“Non so come ringraziarla, davvero. Come posso sdebitarmi?”
“Ah, non è stato niente.” la occhieggiò imbarazzato “ una cosa ci sarebbe, però.”
“Mi dica.”
“Posso fare un pezzo di strada con lei? Non sono molte le occasioni per parlare con qualcuno.”
“Oh, beh, immagino di sì. “ prese la bici “io lavoro alla mensa militare, sa? “
“Davvero? Non l’ho mai vista, altrimenti mi sarei senza dubbio ricordato di una come lei.”
“A chi lo dice… insomma,” Mathilde arrossì “probabilmente non è la stessa caserma.” cercando si superare l’imbarazzo gli chiese: “Lei è un pilota, signore?” aveva visto quella specie di V rovesciata sulla divisa.
“Ah, magari! No, sono solo il segretario del comandante di una batteria antiaerea.”
“E questo le dispiace?”
“Chiunque si arruoli in aviazione vorrebbe diventare un asso.” si strinse nelle spalle “però serviamo anche noi.”
“E parla un ottimo francese!”
“Beh, direi che è abbastanza utile imparare la lingua del Paese dove si dovrà stare per chissà quanto tempo. È il vostro bretone che mi è completamente alieno, è così strano, sembra gaelico.”
“Proviene dallo stesso ceppo linguistico.” spiegò Mathilde con antico orgoglio.
“Avrei proprio bisogno di qualcuno che me lo insegnasse.” la fissò di sbieco e lei rise.
D’un tratto il soldato parve ricordarsi di qualcosa.
“Ma io sono davvero un cafone, non mi sono presentato: sergente Otto Ammon.”
“Mathilde. Mathilde Rouxel.”










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“Dai, sciogliti i capelli.”
“No, non insistere.”
“Verresti meglio in foto, sai?”
“Ma assolutamente no. Il guaio dei capelli neri è che sembrano sempre unti, vorrei essere bionda come le ragazze del tuo Paese e come te.” gli passò la mano fra i riccioli” guardati, sembri uno di quegli amorini sulle soffitte delle chiese.”
“Non sono tutte bionde in Germania, specie da dove vengo io.”
Il commilitone di Otto si mise dietro la macchina fotografica.
“Allora, siete pronti?”
Otto mise un braccio attorno alle spalle di lei, che gli sorrise.
“Scatta pure. Voglio che venga bene, voglio portarla con me quando partirò.”




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“Otto, devo parlarti.”
Mathilde aveva il volto pallido e teso, le mani nervose torturavano il fazzolettino bianco inzuppato delle sue lacrime.
Lui le corse subito incontro, la prese per le spalle: “Che c’è? Stai male?”
“No, io….” Mathilde si interruppe, una lacrima le scese sulla guancia.
“Mein Gott, così mi fai preoccupare, cosa sta succedendo?”
Lei trasse un bel respiro:
“Aspetto un bambino.”
Due secondi di sonoro silenzio seguirono quella dichiarazione.
“Un bambino.” ripeté Otto.
Lei annuì.
“Ne sei certa?”
“Certissima. E no, non abortirò.”
“Non ti avrei mai chiesto una cosa del genere.” le carezzò una guancia, “ andrà tutto bene, lo affronteremo insieme. Ti prometto che, quando tornerò, ci sposeremo. E saremo una vera famiglia.”
Mathilde scoppiò in una risate senza gioia: “Non puoi promettere una cosa del genere, Otto.”
Gli occhi del soldato si ridussero a fessure:
“Pensi davvero che ti abbandonerei?”
“No!” lei scosse la testa, "intendo dire che non puoi promettere che tornerai.”
Lui rimase in silenzio per qualche secondo, poi le sollevò delicatamente il mento.
“Posso prometterti che ci proverò?” le sorrise, ma non servì a rassicurarla.
“Oh, Otto, tu non puoi capire. Prima o poi partirai e io dovrò sopportare i commenti della gente. Arriverà il momento in cui non si potrà più nascondere!”
“E allora? Non ce l’hai scritto in faccia che aspetti un figlio da un crucco bastardo!”
“Ma ho scritto in faccia che aspetto un bimbo da qualcuno che non è mio marito, sono una donna sola e incinta, Otto, il mio destino è segnato.”
“No.” le prese le mani,” se dovessimo vincere loro non potranno più dire niente, io tornerò, ci sposeremo e potranno solo mormorare alle nostre spalle.”
“E se doveste perdere?”
Otto non rispose.


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I capelli di Mathilde erano fradici di sudore mentre cercava di riguadagnare il ritmo regolare del respiro. Era sdraiata su un lettino, stremata dopo un travaglio difficilissimo. Otto l’aveva portata in gran segreto in una clinica di Parigi e stava cominciando a pensare che sarebbe stato meglio rifugiarsi lì e perdersi nelle brume della grande città. Mentre il bambino…
“Guarda.” Otto si avvicinò stringendo un fagottino fra le braccia. Glielo porse delicatamente e Mathilde scostò la copertina. Il piccolo dormiva, il visetto a forma di cuore disteso in un espressione serena e le manine strette a pugno incredibilmente piccole se paragonate a quelle del padre. Il frutto del peccato, della vergogna.
“È bellissimo.” sussurrò Otto, con emozione, poi aggiunse: “Beh, è ovvio, ha preso tutto da me.” si pavoneggiò.
“Ma sentilo! Si vede benissimo che assomiglia a sua madre. È un vero e proprio bretone.” era una bugia, naturalmente, perché la peluria dava già segno di essere chiara, come quella di Otto, e questo sarebbe stato di sicuro un guaio. Non capiva perché ma oramai per il francese medio “biondo con gli occhi azzurri” equivaleva ad essere tedesco.
“Cosa pensi di fare?” chiese Otto, tornando serio.
Mathilde sospirò: "Lo affiderò ad un istituto, in alternativa c’è mia madre.” la prospettiva non le piaceva molto, anzi, la detestava. La mamma avrebbe fatto espiare a quel bambino ogni secondo la colpa di essere venuto al mondo, ma che scelta aveva?
“Portalo dalla mia famiglia. Lo accoglieranno come uno dei loro, saranno felicissimi.”
“No, Otto, ne abbiamo già parlato. Non lo manderò in una nazione soggetta a bombardamenti quasi ogni notte.”
Otto rimase in silenzio per qualche secondo, poi prese qualcosa dalla tasca della divisa:
“Ecco. “ era la foto che avevano scattato quel giorno, Mathilde sorrise.
“Sono stranamente venuta bene.”
“Tu sei sempre bellissima, mia cara. Tienila.”
Lei lo guardò stupita: “Ma avevi detto...”
“Lo so. Ma voglio che lui la veda, quando sarà più grande. Spero che voi due possiate avere un qualche tipo di rapporto e che tu gli spieghi tutto. Se dovessi… beh, se non dovessi essere lì con voi, mi piacerebbe che lui sapesse almeno che faccia ho.”




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“In alto i nostri cuori.”
“Sono rivolti al Signore.”
“Rendiamo grazie al Signore nostro Dio.”
“È cosa buona e giusta.”
Daniel si sporse verso la donna e le toccò il braccio: ”Nonna?”
“Non si parla in chiesa.” replicò lei nel consueto tono gelido stringendo le mani sulla borsetta.
“Scusa.” Daniel si zittì immediatamente e vide due donne nella panca dietro scuotere la testa con aria rassegnata. D’altronde, cosa ci si poteva aspettare da uno così? Era già una vergogna che sporcasse le sacre pareti di una chiesa con la sua presenza.
Daniel era una bambino strano, diverso. Lo sapeva fin da quando aveva memoria, era stata la prima cosa che aveva imparato, insieme a quella di stare sempre a testa bassa e camminare rasente ai muri per non attirare l’attenzione su di sé, a scuola, per strada, a casa. Doveva parlare solo se interpellato e ,anche in quei casi, il meno possibile.
Ora il coro si era messo a cantare, quindi la nonna si girò:
“Cosa vuoi?”
“Io… comincia a fare freddo, alla sera. Non mi mandi a stare nel pollaio, oggi, vero?”
“Ti rinchiudo nel pollaio solo se mi fai arrabbiare, lo sai.” a dire la verità ce lo spediva quando aveva voglia, ma naturalmente Daniel non osò dire una parola.
“Comunque, vedremo.”
“Va bene, nonna.”
Lei lo guardò storto: “Cosa ti ho sempre detto?”
“Non essere troppo gentile con me.”
“Perché?”
“Perché non mi piacerai di più se mi lecchi le scarpe.”
“Esatto.” lo fissò severa: “quando finisce la messa non aspettarmi. Devo parlare con delle mie amiche. Tu va a casa, non fermarti a perdere tempo da nessuna parte. Se torno e non ti trovo, ti mando a dormire nel pollaio per i prossimi quindici giorni.”
Lui annuì. Sua nonna era una brava cristiana, che aveva accettato di prendersi carico dei disastri compiuti dalla figlia, ovvero Daniel stesso. Lui doveva solo essergli grato, continuava a ripetergli.
Così, conclusa la funzione, fece come gli era stato detto. Sgusciò fuori dalla panca e si avviò verso l’uscita. Gli parve che qualcuno mormorasse qualcosa alle sue spalle, ma non si girò a controllare. Del resto non ne aveva bisogno, sapeva ciò che si diceva di lui in paese: il figlio del crucco e della troia.
Aveva pensato per tanto tempo che ” Troia” fosse il nome di sua madre e ”Crucco” quello di suo padre. Era rimasto stupito nello scoprire che quella donna che veniva a trovarlo qualche volta si chiamava Mathilde.
Strizzò gli occhi azzurri alla luce del sole e stava per scendere i gradini del sagrato, quando gli giunse una voce.
“Daniel?”
Lui si irrigidì, come faceva sempre quando lo chiamavano. Il suo nome era sinonimo di sofferenza.
Si voltò lentamente e vide il vicesindaco che lo invitava con la mano ad avvicinarsi, Daniel non avrebbe voluto, ma non aveva scelta.
Una volta giunto al suo cospetto mormorò un “Buongiorno, signore.” sperando di addolcirlo.
“Ciao, Daniel, come stai?”
“Bene, signore, e lei?”
“Benissimo, davvero molto gentile da parte tua chiedermelo.” rimase in silenzio per qualche attimo, poi si rivolse ai paesani lì vicino: “Sapete qual è la differenza fra un crucco ed una rondine?”
Nessuno rispose. L’uomo sorrise a Daniel: “Tu figliolo? La sai?”
“No, signore.” sussurrò il bimbo in un tono flebile, quasi inudibile.
“Che una rondine, quando migra, si porta via i suoi piccoli, il crucco, invece, li lascia indietro.” e scoppiò a ridere.




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Daniel non tornò a casa. Non gli importava quello che sarebbe successo. Voleva solo stare in pace.
Da quando era nato non aveva conosciuto altro che odio e cattiveria. Non era sempre stato così: prima di andare da sua nonna aveva abitato con una famiglia che ad un certo punto, non sapeva perché, aveva chiesto a sua madre di riprenderselo. Lì era stato felice, o almeno così gli sembrava, ma anche quella felicità portava alla tristezza perché, alla fine, pure loro l’avevano abbandonato.
Tutti l’avevano abbandonato, tutti l’avevano lasciato indietro, la mamma, il papà, tutti. Avrebbe tanto voluto chiedere a quella donna mora che veniva a trovarlo qualche volta perché l’avesse fatto nascere. Forse anche lei lo odiava e voleva che soffrisse? Non aveva mai detto alla mamma come la chiamavano in paese, aveva capito che erano brutte parole e non voleva che lei stesse male. Però lei non si era comportata bene con lui, non aveva avuto rispetto, l’aveva lasciato con quelle persone cattive.
Se morissi, a nessuno importerebbe, pensò d’un tratto, mentre due timide lacrime gli scendevano sulle guance.
Voleva solo che qualcuno lo amasse. Era così difficile?




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Daniel era nervoso mentre bussava alla porta. Faceva freddo, ma un freddo diverso da quello a cui era abituato in Francia. Eppure, quel luogo non gli era del tutto estraneo: c’erano molte più persone dai suoi stessi tratti e colori.
Da quando aveva ricevuto quella lettere, viveva in uno stato di eccitazione febbrile che non aveva mai provato prima, così diverso dall’angoscia, dalla paura e dalla tristezza che oramai erano diventate parte di lui. La nonna aveva accolto la cosa con indifferenza, probabilmente felice di potersi liberare del malefico nipote per qualche giorno.
Il cuore sobbalzò quando la porta si aprì e comparve una donna sui cinquant’anni. I suoi occhi si spalancarono alla vista del ragazzino.
“Daniel.” sussurrò, poi ripeté il suo nome più forte: ”Daniel!” si gettò su di lui e fece una cosa inaudita: lo abbracciò.
Daniel rimase sbalordito. Era la prima volta che gli capitava una cosa del genere: l’aveva sempre visto fare alle madri degli altri bambini e si era sempre chiesto come sarebbe stato.
“Vieni, entra.” la donna si spostò per farlo passare. Daniel entrò con circospezione e si guardò intorno. Subito i suoi occhi si fermarono su una foto di un ragazzo in divisa che gli somigliava parecchio. Il cuore gli accelerò i battiti e subito chiese:
“Lui… lui è...”
“Sì. “ la donna sorrise,” è il tuo papà.”
“E…. e adesso dov’è?”
La donna si incupì.
“Non è sopravvissuto, purtroppo. È morto l’11 gennaio del 1945. Sono già dieci anni. E anche un altro dei miei figli mi ha lasciato.” si zittì, mentre a Daniel parve che i suoi occhi si inumidissero. Daniel avrebbe voluto consolarla, ma non sapeva come. Lui aveva sempre pianto da solo per non farsi sentire dalla nonna.
“Poco prima di morire ci ha spedito una lettera. Ci ha parlato di te, era così contento. Abbiamo impiegato tanto tempo a cercarti, ma alla fine eccoti qui.”
Ma allora… allora mi voleva bene, non mi ha lasciato indietro, pensò Daniel, ma la gioia fu surclassata, come al solito, dal dolore. Era morto. Era morto e non l’avrebbe mai conosciuto.
Gli venne il magone e, prima che potesse fermarle, avvertì le lacrime rotolargli sul volto. Sentì un mano sulla spalla.
“Andremo a visitare la sua tomba, dopo, d’accordo?”
“Sì… nonna.” l’ultima parola sembrava una domanda. Non era abituato a pronunciarla in quel modo.
La donna sorrise.
“Ma prima devi mangiare qualcosa, guarda come sei patito. Una bella fetta di Torta della Foresta Nera è quello che ti ci vuole, facciamo due. Vieni.”











Caro lettore, questa è una storia vera. Spero che sia stata di tuo gradimento.



 
   
 
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