La storia che vi apprestate a leggere si riallaccia al capitolo finale del manga, per cui sarebbe consigliabile una sua visione da parte di chi conosce solo l’anime (e una conoscenza più in generale della saga di Safulan). Le pagine sono liberamente consultabili a quest’indirizzo. Ringrazio di cuore la mia beta Tiger eyes per le correzioni, i consigli, la disponibilità. Anche per merito suo, posso ora augurarvi come di consueto una buona lettura!
Forse perché della fatal
quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera!
“Alla sera”
Ugo Foscolo
Capitolo 1
“Quando sogni a occhi aperti”
Non respirava.
Ranma cercò di scacciare da sé l’atroce
pensiero come se fosse un nemico immaginario. Ma perfino sconfiggere
Safulan era stato più semplice, dovette ammettere, mentre
l’idea tornava a tormentarlo con assiduità perfino
maggiore, forte del fatto che corrispondeva a un dato reale.
Akane non respirava.
“Tutto questo perché hai cercato di
salvarmi…”
La vide ancora una volta. Lei che girava il Kinjakan, arrestando
l’acqua della fonte di Jusendo e impedendo ai filamenti del
principe-fenice di estendersi ulteriormente.
“… ma non era una faccenda che ti
riguardava.”
Vide ancora la fidanzata che svaniva dalla sua vista, rivide i suoi vestiti
che d’un tratto avevano preso a ondeggiare nel vuoto per
posarsi infine tra le proprie braccia.
E più nient’altro. Le tenebre lo avevano
inghiottito nelle loro fauci.
In un istante, tutto era finito.
“Stupida… sei una stupida…”
Si bloccò di scatto. Dopodiché, senza pensarci
troppo, si assestò da solo un violento pugno. Se
l’era meritato, e lei non avrebbe potuto
(non potrà mai più)
sferrarglielo al posto suo.
“No, scusami…”
Ranma prese un profondo respiro.
“A dire il vero, ciò che volevo dirti
è… grazie.”
E continuò a parlarle.
Si convinse che non sarebbero state parole gettate al vento,
perché lei lo avrebbe ascoltato. Perché non
poteva essere davvero tutto
finito.
“Mi dispiace… non sono bravo in queste cose. Non
riesco mai a essere sincero, così finisco solo per
insultarti e farti arrabbiare…”
Lo stava facendo. Per la prima volta, le stava aprendo il suo cuore,
confidandole pensieri che non era mai riuscito a rimuovere dalle
prigioni del proprio orgoglio e della propria timidezza. Per
questo… per questo, ora lei non poteva
fargli il torto di non ascoltarlo… giusto?
“Svegliati, Akane… c’è una
cosa che voglio dirti… tu puoi sentirmi, non è
vero?”
Sicuramente era così. Certo che poteva
(non potrà mai più)
sentirlo. Doveva ascoltarlo.
Voglio dirti che ti amo!
Ma…
(Mai più.)
Le cose stavano diversamente.
(Mai più.)
Lei non avrebbe più potuto farlo.
(maipiùmaipiùmaipiùmaipiù…)
“AKANEEEEEEEEEEEEEE!”
Non gli avrebbe mai risposto.
Perché tutto era veramente finito.
Aprì gli occhi. Lo avvolse un buio più intenso di
quello delle proprie palpebre sigillate. Abituò poco a poco
la vista all’ambiente che lo circondava. Concluse che la
quiete irreale in cui era sprofondato stava a indicare che
l’alba non era ancora sorta, che gli altri inquilini della
casa erano ancora succubi del torpore di un sonno immobile. Forse ‘ristoratore’, pensò
distrattamente rievocando il luogo comune, ma soprattutto immobile.
Silenzio. Non un cenno di vita. Il nuovo giorno era ancora morto,
e così parevano esserlo pure i suoi protagonisti. Anche lui
doveva esserlo stato, sebbene per non più di qualche minuto.
D’altronde, ultimamente, aveva perso la voglia di dormire.
Anche perché, quelle poche volte che si abbandonava alla
stanchezza, ripeteva quel sogno.
E lui, piuttosto, avrebbe preferito restare sveglio in eterno.
I sogni sono strani. Indizi premonitori di ciò che
sarà, si è creduto dalla notte dei tempi. Lo
specchio dell’anima, si dice attualmente. Il riflesso delle
proprie paure. Oppure dei desideri proibiti. O ancora, molto
più semplicemente, ricordi,
sia pure alterati dalle proprie emozioni.
Quale fosse il suo specifico caso, gli era chiaro. Certo, non
comprendeva un granché di psicanalisi o analoga roba da
strizzacervelli, lui, ma intuiva che in fondo non c’era molto
da capire.
Semplicemente, odiava ripetere quel sogno. Odiava soprattutto il
momento del risveglio. E ancora di più, l’attimo
in cui la sua coscienza si riprendeva pienamente e tornava a
distinguere tra immaginazione e realtà. La confusione
provocata dalla fine del sonno durava parecchi, troppi secondi, e
ciò rendeva più duro separare l’una
dall’altra. Il buio della notte, in questo contesto, non era
certo d’aiuto.
Allora come mai non lo fuggiva? Alzarsi in piedi, accendere una luce:
queste azioni avrebbero costituito un rimedio efficace per scrollarsi
di dosso i fantasmi che affollavano le sue tenebre.
Invece era rimasto ancora in quello stesso punto, avvolto
nell’ombra sulla base delle scale, mantenendo la posizione
quasi fetale che aveva assunto durante il sonno. Sentiva in lui
qualcosa che lo spingeva a non muoversi, che lo incoraggiava a
intestardirsi a mantenere la propria posizione, la nuca sopra il
braccio schiacciato sul secondo gradino, a dispetto dei muscoli dolenti
che, risvegliatisi, chiedevano tregua invano.
Non si sarebbe mosso. Era in attesa di qualcosa. Le orecchie erano
tese, come a voler sfidare il silenzio che dominava
l’ambiente circostante e cogliere in fallo anche il minimo
rumore che la notte si fosse lasciata inavvertitamente sfuggire. Era,
in verità, in momenti come questo che lui attendeva con
maggiore convinzione: forse per istinto, forse perché
confuso dal dormiveglia.
Gli altri non avrebbero potuto comprendere. Non poteva spiegarlo.
Poteva solo aspettare. Quel qualcosa sarebbe arrivato. Lui sarebbe
stato pronto.
E infine avvenne.
Vinse la sua sfida.
Come sempre.
Come quasi sempre.
Prima udì un rumore sordo. Ancora qualche istante di
silenzio. Infine uno e più passi farsi largo dal piano di
sopra.
Tuttavia, Ranma non si mosse ancora dalla propria posizione. Aveva
trattenuto il respiro per una frazione di secondo, prima di capacitarsi
che quei rumori non erano ciò che
voleva sentire. In realtà non sapeva nemmeno lui cosa stesse
attendendo. Era certo, però, che non si trattava di questo.
E nessun’altra cosa che non fosse ciò che
aspettava, per lui, aveva più molta importanza.
Come per inerzia, tuttavia, l’udito continuò a
svolgere il proprio lavoro… Nuovamente il silenzio. Altri
rumori sordi. Passi. Le assi del pavimento del corridoio di sopra che
cigolavano. Di nuovo nulla.
Perché preoccuparsi? Tutti i componenti della famiglia
Tendo, per non parlare dei genitori, erano nelle loro stanze da diverse
ore, ma forse qualcuno si era svegliato, proprio come lui. Magari
Kasumi, o più probabilmente Nabiki, si era alzata a prendere
un bicchiere d’acqua.
Cos’altro?
Però… se le cose stavano così, quanto
ci metteva Nabiki – o Kasumi – a scendere le scale,
incrociarlo e dirigersi in cucina? Perché quei passi erano
invece così timorosi? Come mai si erano arrestati, quasi che
la persona che li guidava stesse in qualche modo esitando?
Inoltre, quelli non erano i passi di Nabiki. Né di Kasumi.
Troppo poco controllati, troppo poco placidi: troppo irruenti,
per appartenere a una delle due.
Suo padre, dunque? Inutile immaginarlo, sapeva benissimo che le cose
non stavano nemmeno così. La mente lo fece vagare
inavvertitamente, per qualche secondo, nei meandri più
reconditi della propria fantasia. E vide nella sua testa quei passi
corrispondere a un estraneo,
intrufolatosi furtivamente in casa Tendo, chissà, per
esempio attraverso una finestra non chiusa bene, in cerca di qualche
oggetto di valore.
Eppure…
Quei passi gli erano così familiari.
Se solo…
Ma non poteva essere ciò che lui si figurava.
Doveva scuotersi. L’ipotesi ‘estraneo’
era incredibilmente plausibile. Ebbene? Per quanto ancora lui sarebbe
dunque rimasto passivo? Quei passi avevano, da un punto di vista
esclusivamente razionale, la loro importanza, anche se non
potevano corrispondere alle sue assurde speranze. Perché lui si era svegliato,
no? E l’immaginazione doveva lasciare il posto alla
realtà.
La realtà era più pericolosa. Poteva essere un
ladruncolo da due soldi, ignaro di trovarsi in una casa popolata da
artisti marziali. Ma poteva anche trattarsi di un qualche delinquente o
maniaco.
Doveva scuotersi, prima che accadesse
(ancora)
qualcosa di brutto.
Ranma si levò finalmente in piedi. Era pronto ad accogliere
lo sventurato che aveva osato violare quelle sacre mura domestiche.
Dopotutto, non poteva sottrarsi a tale dovere: era anche lui un artista
marziale. Lo era ancora, nonostante avesse abbandonato gli allenamenti
dal giorno del suo rientro.
Percorse di soppiatto le scale, ponendo attenzione a non far cigolare i
gradini. Quando fu in cima, i rumori di prima erano cessati da parecchi
secondi, ma nell’oscurità del corridoio di fondo,
che dava alle camere delle sorelle Tendo, Ranma avvertiva chiaramente
la presenza dell’estraneo. La cosa più importante,
l’estraneo non aveva ancora percepito la sua.
Era il momento giusto. Ora o mai più. Ranma
scattò in avanti, annullando in pochi istanti la distanza
che lo separava dall’altro.
Sei mio!
La figura nell’ombra – né Kasumi
né Nabiki, indubbiamente – si irrigidì
e accennò a reagire, come spaventata. Troppo tardi. Ranma
scansò facilmente il colpo e afferrò il braccio
di quell’incauto.
Aveva giusto bisogno di scaricare
ciò che covava dentro da ormai troppo tempo: doveva sfogarsi
e, in definitiva, quel ladro aveva indubbiamente scelto la notte meno
felice per-- il pensiero s’interruppe di colpo.
Quella… quella sagoma! E quel
polso, molto più sottile rispetto al suo.
(“Non me n’ero mai accorto… la
sua mano è così piccola!”)
Non poteva essere vero. Ranma non poteva essere sveglio. Stava ancora
sognando! Era certamente così! Eppure… doveva
sapere! Si voltò per guardarla in faccia, ma il tizio aveva approfittato del momento di distrazione per sfuggire alla
sua presa e scavalcarlo.
“No! Fermati!” Tuonò Ranma, che stava
sudando freddo. La figura si dileguò più veloce,
in direzione opposta da quella da cui era venuto lui.
“Fermati, ho detto! Non puoi scappare da nessuna
parte!”
Effettivamente, quello che doveva essere
un comune ladro era praticamente in trappola. Percorse tutto il
corridoio con un poco di vantaggio su di lui, ma lo
rincorreva ormai sicuro di poterlo prendere. Fu poco prima delle scale
che, inaspettatamente, la figura s’infilò nella
stanza degli ospiti.
Poco male, pensò Ranma. Raggiunse anche lui la porta
scorrevole e la spalancò violentemente, ansimando per la
corsa e per l’agitazione. Ora avrebbe saputo.
Cercò con affanno l’interruttore, la mano che
tremava nervosa. Quando infine lo trovò, ciò che
vide lo sorprese non poco.
Occhi sorpresi. Occhi scrutatori.
Occhi accusatori.
Gli occhi di papà, che sorseggiava placidamente una bevanda
da un thermos, ma allo stesso tempo con una severità che
incuteva un certo rispetto: un riguardo che lui non era chiaramente
abituato a portargli.
Gli occhi di Ucchan, che lo fissava impaurita, avvolta per intero e
stretta energicamente alla propria coperta.
Gli occhi di sua madre, che emerse lentamente dal proprio letto con
aria più addolorata che sorpresa.
E basta. Nella piccola stanza, non c’era nessun altro.
“Ranma… cosa è successo?”
Domandò Nodoka, con manifesta inquietudine.
“Vogliamo una spiegazione.” Bofonchiò
gravemente Genma, non distogliendo da lui quell’odioso sguardo
nemmeno per un attimo. “Si può sapere che cosa ti
salta in mente, di svegliarci con tutto quel baccano a
quest’ora della notte?”
“Io… io…” Mormorò
Ranma, spaesato e non cessando di guardarsi intorno. Possibile che loro
non se ne fossero accorti?
“Tu cosa? Parla!” Ribatté il padre.
“La stavo inseguendo… l’ho vista
entrare… Perché diamine non l’avete
fermata?!”
Ukyo lo fissò sconvolta.
“Ran-chan… chi avremmo
dovuto fermare?”
Genma sembrò trattenere a forza un fremito di rabbia.
“Qui non è entrato nessuno.
Non lo vedi?”
Già, così sembrava. Tutto lo dava a vedere. Che
avesse veramente sognato? Che non fosse ancora in grado di distinguere
la realtà dal sogno? Eppure… no, Ranma poteva giurare di
averla vista! Aveva stretto il suo polso! Lei c’era, era
reale. Non era un frutto della sua immaginazione.
“Tutto questo è assurdo! Assurdo!”
Gridò, sfogando tutta la sua frustrazione. “State sicuramente mentendo!
Non può essere scomparsa nel nulla!”
“Chi, Ranma? Chi hai
visto entrare qui?” Urlò con veemenza ancora
maggiore il padre.
Il ragazzo esitò per un attimo.
Prese coraggio.
E diede finalmente voce ai propri pensieri.
“Io ho visto entrare… Akane.”
Ukyo sussultò. Nodoka parve sul punto di piangere. Genma
sembrò, al contrario, calmarsi.
Il resto della famiglia Tendo si era, nel frattempo, radunato attorno a
Ranma.
“Cosa succede?” Domandò a nome di tutti
Soun Tendo.
Né Ukyo né tantomeno Nodoka riuscirono a
rispondere.
Fu Genma ad alzarsi in piedi e affrontare l’amico.
“Ranma ha detto di aver visto… Akane…
entrare in questa stanza.” Mormorò, ora con voce
roca ma allo stesso tempo calma e posata.
Neppure uno dei Tendo commentò quell’affermazione.
Si limitarono tutti a fissare l’adolescente con il codino.
Nessun occhio accusatore, stavolta. Nei loro sguardi non si poteva
leggere del biasimo, anzi. Tuttavia… era una sua sensazione
oppure… sembravano tutti compatirlo?
E questo sarebbe stato ancora meno sopportabile.
“Smettetela di guardarmi così! Vi dico che era
lei!”
Kasumi si accorse che suo padre stava tremando e si affrettò
a prendergli la mano.
“Ora piantala, Ranma! Lo sai che Akane non si è
mossa dalla sua stanza!” Sbottò Nabiki, con tono
duro.
Improvvisamente Genma si scosse, afferrò il figlio per il
colletto della camicia e lo trascinò per il corridoio.
“Cosa fai?!” Protestò il Saotome
adolescente.
“Tu ora vieni con me”, intimò il Saotome
anziano, “a trovare Akane.”
Sulla porta troneggiava, come di consueto, la sagoma a forma di
paperella con inciso il suo nome in caratteri occidentali. Genma
girò la maniglia senza tanti complimenti e, mentre
l’uscio si apriva, l’insegna traballò
pericolosamente.
Il genitore accese la luce. “Perdonami, ma lo faccio per te!
Ecco… guarda, guarda con i tuoi occhi!” Disse, con
appena un filo di voce.
Ranma fissò l’interno. Dunque aveva veramente sognato?
Veramente immaginazione e realtà avevano varcato, solo per
lui, il reciproco confine?
Akane non si era mai mossa. Akane era ancora sdraiata sul proprio
letto. Le palpebre abbassate in un’espressione serena, era
l’unica persona a non essersi svegliata in tutto quel
trambusto.
Né avrebbe potuto mai più.
Così, era vero.
Il sogno era sogno e la realtà immutabile.
Il corpo senza vita di Akane Tendo non aveva mai abbandonato il suo
posto.