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Autore: DarkFlame    24/05/2005    5 recensioni
Una ragazza, l'amore, delle amiche speciali e una statuetta di un drago saranno protagonisti di questo semi-libro che spero interessi a qualcuno. Questa non è una vera e propria fict ma un esperimento per vedere se ho talento di scrittrice. Recensite!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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I. Inizio di un viaggio
Oggi è un giorno speciale per Sarah.
Sarah Kingdome, la più brava del suo reparto nel recupero di tesori antichi e di inestimabile valore o così l’avevano definita durante la sua veloce ascesa ai piani più alti della società nell’impresa chiamata Wolf™.
Ventitre anni, corporatura snella e agile, capelli castani con riflessi ramati, maneggevolezza con molti tipi di arma e carattere dolce ma deciso la rendevano anche piacevole agli occhi della maggior parte degli uomini e al contempo irraggiungibile per il fidanzamento perdurato tre anni e ancora valido.
Dopo circa un anno di lavoro alla Wolf™ le avevano chiesto di recuperare il famoso “drago di zaffiro”, un oggetto venerato da un antico popolo e perduto durante una potente eruzione del vulcano vicino al villaggio e ricercato dalle migliori agenzie.
La leggenda vuole che questa statuina completamente fabbricata con zaffiri conservi l’anima e il potere dell’ultimo drago esistente sulla Terra e riesca a tornare in vita grazie al sacrificio di un cuore puro.
«Cara Sarah, lei è l’unica pronta a tentare l’impresa e potrebbe fruttarle un cospicuo aumento di stipendio.
Partirà lunedì mattina, eccole il biglietto dell’aereo».
È così che l’avevano convinta; si sarebbe diretta in India nel cuore della giungla nera.
Sarah per un anno ha combattuto contro leoni, scalato montagne e tratto in salvo parecchi tesori dall’oscurità dei sepolcri e se la missione comprendeva il suo fidanzato Leo nelle vicinanze diveniva dolce più del miele.
Leo R. Anser aveva ventiquattro anni.
Fisico possente e aspetto un po’ ribelle tipico dei ragazzi perennemente adolescenti.
Leo aveva dei meravigliosi occhi verdi scuri come uno smeraldo caduto in un pozzo.
Un elmo di capelli castani chiari tendenti al biondo gli arrivava fino agli occhi.
Sembravano proteggere il bel volto del ragazzo che con gesti involontari allontanava i ciuffi ribelli che gli coprivano la visuale con un deciso ma non troppo forte scatto del collo.
Anche lui lavorava alla Wolf™ e la ragazza temeva che, come nella missione precedente, l’avrebbe seguita per “proteggerla” come sosteneva il ragazzo.
Il biondino era sempre pronto a tutto pur d’essere partecipe di qualche avventura e per questo definito scherzosamente dai colleghi “un combinaguai”.
Sarah non dormì per tutto il weekend con la paura d’essere la colpevole di un male futuro di Leo e allora decise: glielo doveva dire, anche se poi se ne sarebbe pentita.
«Pronto Leo, ciao, ti volevo dire una cosa.
Io…» «Lunedì parti per la giungla nera per conto della Wolf™ vero?» la interruppe Leo a metà discorso.
«Ma…ma come fai…» gli rispose Sarah con un filo di voce «Le notizie si spargono in fretta nel mio reparto tesoro.
Fammi indovinare, non vuoi che ti segua come l’ultima volta in Africa?».
Dall’altra parte del ricevitore non venne alcun suono.
Era esterrefatta! Come poteva prendere tutto così alla leggera? «L’ultima volta ti ha morso un cobra e per poco non ci lasciavi le penne se ben ricordi! Non ti voglio vedere la…ti amo, ma questa volta devo essere un po’ più dura.
Ti saluto, devo preparare l’equipaggiamento e mi raccomando!» e mise giù la cornetta.
Per alcuni attimi fissò l’apparecchio come se attraverso potesse vedere il fidanzato curioso e allo stesso tempo risentito delle sue parole e fare quella sua smorfia di quando pensava a cose serie e ogni volta che ci pensava rideva dentro se stessa e capiva quanto lo amasse.
Come folgorata dal ricordo si avviò verso l’armadio a muro nel fondo della sua camera.
Quando lo raggiunse appoggiò il palmo della mano al liscio e lustro legno di quercia…poteva vedere i nodi, più scuri, galleggiare in quel mare di legno scuro come note in una canzone d’amore, le sue preferite.
Prese e preparò lo zaino mimetico in dotazione con binocolo, macete e armi varie, bengala e altro ancora; mise i vestiti sulla sponda del letto e si spogliò per indossare la camicia da notte sperando che pantaloncini neri e maglietta mimetica non fossero troppo pochi come indumenti.
Ripose una pistola sotto il cuscino, s’infilò nel letto e sognò la missione dell’indomani.
Era mattina.
La sveglia a illuminazione fluorescente segnava le 4 e fuori era ancora buio.
Sarah si svegliò un po’ a malavoglia e si vestì.
Indossò i pantaloncini neri e la maglietta mimetica che aveva lasciato la sera sulla spalliera del letto e si guardò allo specchio.
Mentre pensava che sicuramente avrebbe fatto meglio a portarsi qualche altro indumento cercò il laccio per capelli che ritrovò appeso alla maniglia della porta della camera.
Prese i capelli e iniziò ad avvolgere la base della coda di cavallo il laccio fino ad accertarsi che non sarebbero scivolati via.
Tirò fuori la pistola da sotto il cuscino che ripose nella fondina attaccata alla cintura, lo zaino e uscì da casa.
Scese velocemente le scale dei casa sua per raggiungere il garage dove si trovavano la sua moto e la macchina appartenente al suo posto di lavoro.
Salì sulla jeep verde metallizzata con cui si sarebbe recata all’aeroporto e girò le chiavi d’accensione.
Il rombo del motore si espanse nel piccolo vano chiuso del garage e la porta automatica si aprì con un leggero fruscio quando Sarah premette il bottone sul cruscotto della jeep.
Piano, la ragazza guidò l’auto fuori del box sotterraneo seguendo il tracciato di ghiaia che scoppiettava sotto il peso dell’automobile.
Quando fu davanti al cancello d’uscita di casa sua premette il pulsante precedente per richiudere la porta del box e un altro vicino al primo per aprire il cancello davanti a lei.
Uscì dalla sua piccola tenuta e richiuse il cancello automatico con lo stesso bottone con cui l’aveva aperto e, mentre ripensava ad il suo equipaggiamento posato sul sedile del passeggero, partì per immettersi nel poco traffico e raggiungere l’aeroporto non molto lontano ma neanche “dietro l’angolo” come una volta aveva sostenuto insieme a Leo quando erano venuti ad abitare li.
La grande Los Angeles.
La città delle stelle del cinema di Hollywood come Tom Cruise o Bred Pitt.
Se qualcuno non conosceva bene quella metropoli dopo pochi isolati ci si poteva perdere; d’altronde loro venivano dalla Florida.
Ad essere sincera, non le mancava molto la sua città, in provincia di Miami; le aveva provocato solo dolore.
Lasciò l’autostrada quasi meccanicamente e si diresse su una strada più piccola che l’avrebbe condotta velocemente all’aeroporto che ormai aveva frequentato molto quell’anno.
Quando vide le luci dell’aeroporto si fermò nel primo posto libero che trovò nel parcheggio e prese lo zaino che mise su una spalla mettendosi quasi a correre per l’ansia di una nuova missione.
Aveva sempre desiderato quell’incarico e aveva sempre sentito parlare molto della statuetta e pensò subito con uno sbuffo di divertimento a quanti musei avrebbero pagato fior di quattrini per quel raro oggetto.
A lei non importava a chi arrivavano gli oggetti che recuperava, le importava solo rendersi utile per scoprire un po’ di più il passato della civiltà.
L’aveva sempre affascinata la storia antica su Maya, Aztechi e quelle altre tribù e comunità che sapevano vivere serenamente con le loro convinzioni e la natura.
Oltrepassò veloce le porte scorrevoli di plastica opaca dell’edificio e andò alla reception per presentare il biglietto e poter finalmente partire.
Quando convalidarono il suo volo corse attraverso il corridoio che separava l’aereo dall’aeroporto e rimase sorpresa del lusso che il suo capo le aveva concesso: piccolo aereo con sedili per trenta persone al massimo ricoperti di un soffice tessuto che sembrava una corta pelliccia di qualche animale, televisione, cuffie per la musica e pasti eccezionali completi di calici di champagne.
Il pilota e il co-pilota erano già ai loro posti che armeggiavano con levette e pulsanti apparentemente per un controllo prima del decollo e magari per spezzare il tempo prima che arrivassero gli altri passeggeri.
Il pilota, alla sinistra della console, lo conosceva bene: si chiamava Max ed era un tipo simpatico.
Anche lui trasferito dalla Florida dopo l’ultimo ciclone che l’aveva colpita, Max era un appassionato d’aerei ed era riuscito a realizzare il sogno di diventare pilota.
Il co-pilota alla destra di Max per lei era un perfetto sconosciuto che, però, le ricordava qualcuno.
La divisa blu contrastava con i segni gialli sulle spalle e sembrava che il fisico dell’uomo, poderoso dentro quell’uniforme, chiedesse aiuto per liberarsi da quella giacca.
Da sotto la giacchetta blu Sarah notò che spuntava un lembo di qualche indumento.
Sembrava un giubbotto di pelle scamosciata marrone con, da quanto poco doveva vedere, le rifiniture più chiare, tendenti al beige.
Si distrasse un attimo, quando la chiamarono fuori dell’aereo per avvertirla che era arrivata, direttamente dalla Wolf™, l’attrezzatura da campo che venne posta sotto la pancia dell’aereo e sistemati in modo da non appesantire troppo il muso o la coda dell’aereo che, per quanto potenti fossero i motori, i forti venti d’alta quota e le altre folate che imperversavano in India in quella stagione avrebbero rovesciato e fatto precipitare l’aereo con un’incredibile facilità.
Quando ebbero finito di caricare Sarah vide salire insieme a lei altri cinque strani personaggi.
Il primo di essi era un ragazzo non più giovane di lei, circa ventiquattro anni, capelli neri e un paio di occhi che sembravano due pezzi di ghiaccio.
Quando glielo presentarono lui le porse una mano coperta da guanti neri e, a quanto aveva potuto sentire, impermeabili.
Si chiamava Erik e l’unico aggettivo che trovava per definire quel ragazzo era misterioso; aveva come un’aura di mistero che gli aleggiava intorno e non solo quello.
Quando la stretta di mano si sciolse l’atmosfera che aveva percepito svanì e quello strano ragazzo andò a sedersi a metà dell’aereo.
Seguirono gli altri quattro che si rivelarono tecnici dell’aereo nel caso di qualche malaugurato guasto; tutti sembravano essere sui quaranta e il più vecchio presentava un paio di ciuffi di capelli già ingrigiti.
Sarah, dopo le presentazioni, andò a sedersi poco dopo il portellone, sul sedile accanto all’oblò.
L’aereo si distanziò dal corridoio che aveva percorso prima la ragazza e iniziò a rollare sulla pista puntando verso ovest.
Sarah sentì la forza di gravità spingerla leggermente contro il soffice sedile, mentre l’aereo alzava il muso a comando dei due piloti poco distanti dal suo sedile e poi rinforzarsi quando ebbero preso quota.
La ragazza guardò oltre il doppio vetro del finestrino rotondo per vedere la terra allontanarsi vertiginosamente e i quartieri diventare pezzi di una coperta unica cuciti insieme da strade e vicoli.
Sarebbe stato un lungo viaggio e appoggiò la schiena al sedile prendendo le cuffie appese al sedile davanti al suo e posandosele sulla testa.
Da uno scomparto tra i due sedili tirò fuori una custodia contente un cd grande come il suo palmo che infilò nel lettore accanto ai cd.
La musica le invase il cervello e sentì i muscoli rilassarsi come a comando; chiuse gli occhi ricordando il video di quella canzone: la ragazza, vestita di un lungo abito nero, collocava un ciondolo al centro di un macchinario da dove usciva un libro che avrebbe dovuto preannunciare la fine del mondo.
All’improvviso questa cantante si ritrova sul tetto di un grattacielo col suo gruppo e acque impetuose salire verso i cantanti.
Si sentì toccare una spalla e aprì gli occhi; ancora quel ragazzo, Erik «scusa se t’interrompo, ma hai da accendere?» chiese mostrando la sigaretta che aveva in mano e, a risposta negativa, fece un segno con la mano e si diresse verso uno dei tecnici seduti un paio di file dietro di lei.
Ormai non più concentrata sulla musica guardò nuovamente fuori dell’oblò e vide mare e alcune isole di forma allungata.
Si strabiliò della velocità con cui andava l’aereo se si trovavano gia vicino alla loro meta in così poco tempo.
Tornò a fissare lo sguardo davanti a lei e, oltre la coppia di sedili davanti a lei, vide la giacca blu del co-pilota appesa al sedile sul quale era seduto.
Alla fine si era arreso al caldo che il riscaldamento creava dentro il vano.
Ora stava beatamente appoggiato allo schienale del sedile con una mano sulla seconda cloche e l’altra aggrappata al collo sotto il colletto rialzato del leggero giubbotto scamosciato.
Passarono altri tre quarti d’ora di silenzio e i due piloti si prepararono all’atterraggio.
Si irrigidirono subito sulle loro postazioni quando la voce resa meccanica dalla radio concordò l’atterraggio dell’aereo e cominciarono a premere bottoni e muovere levette secondo l’ordine preciso di qualche schema imparato a memoria.
L’aereo scese in picchiata e atterrò con qualche difficoltà per il vento contrario facendo stridere le gomme del carrello abbassato poco prima dai piloti.
Quando l’aereo fu completamente fermo arrivarono i responsabili dell’aeroporto portando una rampa di scale per i passeggeri e una piccola gru per i bagagli.
Sarah lasciò il passo ai tecnici e al ragazzo misterioso mentre lei controllava se nel suo piccolo zaino privato che aveva portato con se sull’aereo ci fosse tutto quello di cui aveva bisogno.
Finito il piccolo controllo scese anche lei con lo zaino sulla spalla seguita dai due piloti.
Il paesaggio le faceva salire l’adrenalina in corpo: il suolo era ricoperto di sabbia che al minimo segno di vento pareva danzare e tutto intorno allo spiazzo adibito ad aeroporto c’era giungla; grande, incolta e misteriosa selva.
Rimase in piedi ad osservare la foresta con le gambe leggermente divaricate, mentre sistemava meglio sulla spalla lo zaino; era un posto bellissimo.
Sentì dietro di se una voce familiare «posso portarle il bagaglio signora?» disse la voce, mentre una mano prendeva l’altra spallina dello zaino.
La ragazza si voltò e vide il proprietario della voce «Leo! Dammi una spiegazione!» disse lei e lasciò che il ragazzo prendesse il suo zaino «la spiegazione non serve; non avevo voglia di starmene in casa a non fare niente» «non avevi voglia…te la faccio venire io la voglia! Perché non mi dai mai ascolto!» disse lei infuriata ma allo stesso tempo felice di vedere quanto l’amasse «Stai tranquilla…Non mi succederà niente!» disse il ragazzo piano osservandola con i suoi occhi che ogni volta incantavano la ragazza.
Per un attimo Sarah cadde nella trappola che il fidanzato stava creando per farsi perdonare poi, come risvegliata da una trance, ricominciò il discorso più dura che mai «No che non sto tranquilla! Tutte le volte che vieni con me ti attiri tutti i guai del mondo addosso! Come se non bastasse quello che devo prendere non si trova in una comune tomba! Si trova molto vicino se non addirittura dentro ad un vulcano dormiente che potrebbe svegliarsi da un momento all’altro!» disse riprendendo quel suo cipiglio da madre che sgrida il bambino cattivo «Calmati» disse lui stringendole le spalle in un abbraccio «Ti giuro che starò attento tesoro però non fare così.
Su, andiamo a ripescare quest’affare e torniamo a casa»; il discorso sembrava chiuso e Sarah dovette arrendersi e dargliela vinta un’altra volta.
La ragazza riprese lo zaino che il ragazzo le porgeva e s’incamminò verso l’auto che, durante il loro piccolo litigio, era stata caricata dei restanti bagagli appartenenti alla ragazza e ai quattro tecnici; inoltre il ragazzo che si chiamava Erik sembrava sparito nel nulla da dove era arrivato.
Salì sulla macchina verdognola e si sedette sul sedile anteriore del passeggero, mentre i quattro tecnici prendevano posto nei sedili posteriori e nel cassone assieme ai bagagli; Leo invece rimase alcuni istanti a fissare l’aereo che partiva prima di salire sul posto del guidatore.
Con fare deciso ingranò la retromarcia e, con un testacoda degno di un campione di rally, girò il muso della macchina verso la giungla dando poca importanza ai tecnici dietro di lui.
Quella era la loro missione non capiva il perché Harringtown, il loro capo dipartimento, gli aveva affibbiato degli intelligentoni figli di papà che non avrebbero concluso niente.
L’aeroporto dove erano atterrati distava molto dalla loro meta immersa nella giungla e non vi erano che poche strade di terra battuta e fango e appena dopo un centinaio di chilometri ogni possibile via per quel maledetto vulcano era stata momentaneamente cancellata da una terribile pioggia torrenziale che scendeva fitta e senza accenno alla fine.
Proseguirono a piedi stendendo tutte le loro giacche sugli strumenti delicati.
Camminarono a lungo sprofondando nel fango a volte fino alle ginocchia e la pioggia ormai li aveva infradiciati fino alle ossa; inoltre l’umidità rendeva l’aria quasi irrespirabile come un cuscino tenuto sulla bocca e sul naso.
Passarono otto ore e la pioggia non diminuiva così si fermarono sotto un grande albero dove l’acqua avrebbe fatto fatica a raggiungerli.
Sarah guardò l’enorme tronco e fece arrampicare lo sguardo fino alla cima seguendo le liane e i rampicanti che stavano avvinghiati il fusto dell’albero.
Era maestoso e alla ragazza le ispirava vecchiaia e saggezza per quanto fosse solo un albero; Leo notò il suo sguardo perso su quella meraviglia della natura e le si avvicinò togliendosi la giacca scamosciata che posò sulle spalle di lei.
Sarah sentì l’inebriante profumo di quel ragazzo avvolgerla insieme alla giacca ancora calda nonostante la pioggia; un odore intenso di metallo, di tenerezza, d’avventura, la cullarono in quell’attimo e quasi volle lasciarsi andare anche alla stanchezza del viaggio «bella vero?» disse piano Leo guardando l’albero e mettendo un braccio intorno alla vita della ragazza «questa foresta è tutta una meraviglia…non fosse per la pioggia» rispose lei sorridendo appena all’ironia della sorte «e chi parlava del paesaggio?» disse il ragazzo sorridendo e dando un passionale bacio alla compagna che mise le sue braccia attorno al collo di Leo per restituire il bacio, poi rimase con la testa appoggiata al suo petto seguendo le linee dei muscoli che, sotto la maglietta bagnata, erano evidenti come una macchia d’inchiostro nero sulla neve fresca.
Sembravano scolpiti da un blocco di marmo ed il colore della maglietta rendeva quella similitudine quasi una realtà.
Rimasero così alcuni minuti in un silenzio piacevole interrotto solo dal picchiettio dell’acqua sulle foglie, poi vennero chiamati e avvertiti da uno dei tecnici che le tende erano state montate a ridosso del tronco dell’enorme albero.
Leo congedò il tecnico tentando di trattenere la freddezza con cui avrebbe voluto rispondergli, ma, dopotutto, avevano montato le tende e avrebbe dovuto esser grato per un lavoro in meno eppure proprio non riusciva a mandare giù quei quattro.
Si avvicinarono e videro le tende monoposto accostate l’una all’altra sotto un’enorme radice che offriva un riparo in più dalla pioggia ora sospinta dal vento.
Sarah si diresse verso la sua tenda poi, arrivata a qualche passo dal riparo, si ricordò della giacca offertale da Leo che non la volle indietro dicendo «non soffro il freddo, tienila pure».
I due si augurarono la buonanotte con un altro bacio e si divisero entrando ognuno nella propria tenda.
La ragazza s’infilò sotto le coperte assieme alla giacca del fidanzato e ancora una volta inspirò a fondo quel buon odore che la giacca portava; si addormentò subito nel torpore della coperta e del giubbotto scamosciato sognando di essere a casa, seduta sul divano assieme a Leo a godersi un bel film romantico sentendo il braccio del suo amoroso stringerle le spalle.
Passarono poco più di cinque ore, quando un fulmine di proporzioni gigantesche cadde poco lontano dall’accampamento togliendo a tutti la voglia di dormire, sebbene la stanchezza gravasse ancora pesante sulle loro spalle.
S’incamminarono sotto la pioggia che sembrava essersi infittita fino all’inverosimile fino ad assomigliare ad una muraglia che batteva su di loro.
Sarah osservò il ragazzo capofila camminare a testa alta malgrado la pioggia che imperterrita continuava a cadere; lo vedeva così forte e coraggioso nella sua giacca scamosciata, nella sua maglietta tirata e resa trasparente dalla pioggia, nei suoi pantaloni imbrattati dal fango e al tempo stesso lo avvertiva così romantico e sensibile in quegli occhi verdi, in quel tocco delicato che solo lui sapeva avere, in quel suo cuore d’oro.
Mentre pensava ad occhi fissi, sentì che l’atmosfera era cambiata.
Nell’aria trafitta dalla pioggia non aleggiava più l’avventura e quel surrogato di felicità chiamato sfida, ma quasi preoccupazione e ansia, che come un morbo si propagava nella foresta.
Sbattè le palpebre avvertendo il cambio d’atmosfera e si accorse d’essere lei stessa che, inconsciamente, stava infettando l’ambiente circostante di quell’angoscia e apprensione e non appena si accorse che Leo, appoggiato ad un albero con gli occhi lievemente chiusi, si teneva il petto, quelle sensazioni crebbero d’intensità tanto che l’aria, oltre a traboccare d’umidità per la pioggia, sembrò sovrabbondarne per rigettare tutto in un fiume dove la ragazza stava annegando.
Sarah si avvicinò al ragazzo mettendogli una mano sulla spalla.
A quel tocco, Leo sembrò quasi irrigidirsi e voltò appena la testa facendo scivolare la mano via dal petto «cosa succede tesoro?» chiese la ragazza avvicinandosi ancora al fidanzato che alzò le spalle «niente, niente…proseguiamo?» rispose il diretto interessato allargando un sorriso a trentasei denti che, però, non riuscì a tranquillizzare del tutto Sarah; gli stava succedendo qualcosa e come il solito non voleva darlo a vedere…gli uomini… La ragazza annuì col capo e la loro piccola carovana riprese la marcia e la pioggia iniziò a cadere più violentemente come se volesse impedire il loro proseguimento verso il vulcano…come se sapesse cosa sarebbe successo in futuro.
Passarono altre quattro ore, la pioggia cadeva ancora incessante e tutti loro erano esausti e imbrattati di fango fino al collo; Inoltre, il caldo umido della giungla favoriva ancora di più quel “effetto serra” che rendeva difficoltoso il respiro ad ogni passo e il diffondersi di malattie tanto che prima di riuscire ad intravedere la bocca del vulcano, perirono due dei quattro tecnici che erano con loro.
Quando vide le pendenze del vulcano unirsi al terreno della giungla Sarah dovette trattenersi con ogni sua forza per non saltare al collo di Leo e riempirlo di baci dalla felicità; dopotutto era lei la migliore del suo campo e doveva tenere un comportamento appropriato anche se con qualche sforzo.
Aveva smesso di piovere da un giorno e mezzo ormai ma il cielo plumbeo e le nuvole ancora cariche d’acqua non prevedevano un miglioramento se non nel giro di una 0 due settimane.
Alla ragazza importava solo di essere quasi arrivata a destinazione sana e salva.
Le lunghe felci e gli alberi che ricoprivano il suolo della selva poco a poco si diradavano per lasciare spazio a dei piccoli cespugli spinosi che a loro volta lasciavano che una sottile erbetta ingiallita dallo zolfo crescesse libera per le pendici del vulcano «finalmente arrivati…che ne pensi Leo?» disse Sarah guardando quel maestoso monte «penso che un riposino…prima di entrare ci vorrebbe» rispose il ragazzo con la voce che trasudava stanchezza da ogni parola.
La ragazza, divertita, si voltò verso Leo e il sorriso che l’arrivo le aveva donato si tramutò in una smorfia di preoccupazione: il ragazzo che prima aveva parlato si era seduto a terra appoggiando la schiena e la testa ad un masso polveroso pochi metri più lontano da Sarah; era molto pallido e gli occhi avevano perso ogni traccia di vivacità.
Accogliendo la proposta di Leo i due tecnici rimasti si diressero a passo svelto verso un tratto della radura ancora coperto da qualche fronda dei giganteschi alberi e cominciarono a piantare i picchetti per le tende.
Presto avrebbero cercato un’entrata e avrebbero camminato ancora magari fra trappole e stratagemmi vari disseminati qua e la prima di riuscire a stringere le dita attorno a quel gioiello tanto ricercato.
Leo aveva sentito della leggenda, tuttavia non era molto il tipo di credere alle mitologie come quella; certo, evitava di passare sotto una scala e toccava ferro al numero 17, ma erano gesti banali di tutti i giorni e di sicuro, morire e ritrovarsi coda, corna e ali al risveglio non era roba di tutti i giorni, nemmeno per gente che lavorava alla Wolf™.
Il ragazzo osservava la fidanzata consultare la cartina del luogo in cerca di dislivelli o grotte che avrebbero potuto portare all’interno del vulcano dove riposava la statuetta.
Era così bella, non faceva altro che ripeterselo ogni qual volta l’occhio gli cadeva su quelle curve perfette.
Infondo, loro due erano uguali: nessuno dei due si perdeva un’avventura e nessuno dei due voleva perdere l’altro in una di quelle vicissitudini tanto bramiate.
Leo scosse la testa abbozzando un sorriso divertito alla ragazza che, cercando si srotolare un’altra cartina, avrebbe avuto più fortuna come contorsionista.
La vista d’un tratto si annebbiò un poco, la testa si mise a martellare e quel nodo al petto che aveva avvertito sei giorni prima ritornò con tutto quello che poteva portare appresso.
Appoggiò la nuca alla roccia dove era ancora addossato e respirò lentamente per tentare di calmare il dolore atroce che gli serrava il costato.
Lì per lì il dolore passò e Leo fece per alzarsi ma quello spasimo che lo stava trafiggendo da parte a parte si ripeté ancora e con una forza tale da farlo cadere a terra.
Quell’artiglio non la finiva di torturarlo e gli trapassava polmoni, costole, cuore e li stringeva in una mossa di ferro che non lo faceva respirare.
All’improvviso il dolore cambiò: da fitte come punte di coltello si trasformò in un tappo che cresceva e si faceva strada nella sua cassa toracica.
Lo zaffo si fermò al centro del torace senza però scomparire; si piazzò lì e iniziò a crescere e a fondersi con le ossa e gli altri organi.
Dopo minuti interminabili quella sensazione finì e tutto ritornò come se nulla fosse successo.
Il ragazzo sentiva solo una gran pesantezza degli arti e le palpebre abbassarsi sempre di più fino a raggiungere l’altra estremità dell’occhio e Leo cadde in un sonno profondo, ancora appoggiato a quella roccia.
S arah, dopo ore di ricerca su mappe e cartine, aveva finalmente trovato un punto da dove avrebbero potuto oltrepassare la crosta del vulcano e, forse, raggiungere il drago di zaffiro.
Quando la ragazza si era voltata per comunicare la notizia al fidanzato, lo aveva trovato addormentato a non meno di sei metri dalle sue gambe.
In quell’attimo un forte vento vorticoso prese a soffiare sul campo ardendo di inghiottire le carte e le mappe dove poco prima aveva segnato il punto più probabile d’entrata.
Dal cielo pesante di pioggia novella e opprimente dallo scuro colore delle sue nuvole si formò un vortice.
L’occhio del mulinello attirava a se i nuvolosi circostanti creando lunghe pieghe convergenti col centro del turbine dando l’illusione che il cielo in quel momento fosse fatto di seta perlata.
Dal nucleo del gorgo iniziò a formarsi una protuberanza che scendeva…scendeva verso il terreno e la tromba d’aria iniziò a modellarsi dal mulinello creato dai venti che si scontravano.
Sarah guardò quella visione impaurita; anche se di piccole dimensioni quel ciclone avrebbe potuto ucciderli tutti «l’hai trovata l’entrata?» disse una voce accanto a lei.
La ragazza abbassò lo sguardo e vide Leo al suo fianco guardare il sagomarsi del tornado dal cielo e non poté non notare che la paura offuscava anche i suoi occhi; non capiva perché glielo chiedesse, certo l’entrata del tempio era poco lontano da li ma… D’improvviso capì l’idea del ragazzo e Sarah incitò tutti a seguirla portandosi tutto il possibile appresso; si misero a correre mentre il tornado aveva già toccato il suolo e stava strappando dal folto della foresta gli alberi più deboli.
Sembrava quasi li seguisse e aumentasse di intensità ad ogni metro che guadagnava; un essere che aspirava ogni cosa lo intralciasse e fremesse di poter ingoiare quegli umani che scappavano al suo cospetto.
Sarah sentiva le gambe irrigidirsi per lo sforzo di combattere contro quel vento che li spingeva verso il tornado ma eccola, l’entrata distava da loro una cinquantina di metri.
Una lunga spaccatura nella parete del vulcano simile ad una coltellata era la loro salvezza dal tifone.
Arrivati presso l’apertura i due tecnici vi buttarono dentro l’attrezzatura e la seguirono incitati da Leo che vedeva il cono d’aria sempre più vicino, scuro e minaccioso.
Finalmente i due tecnici entrarono e percorsero lo spiazzo per far passare Leo che entrò per terzo dopo i tecnici.
Il tornado ormai era immenso, un muro di vento e detriti che colpivano la roccia del vulcano attorno a Sarah.
La ragazza sentì il sibilo del vento nelle orecchie e i piedi stavano perdendo aderenza col suolo.
Il ciclone la stava trascinando a se e Sarah, allontanata dalla forza dell’essere di una decina di metri dal taglio del vulcano cercò di correre senza però speculare un misero metro.
Stava iniziando a pensare che la sua vita sarebbe finita con un tifone quando sentì una mano afferrare la sua e rubarla alla forza del vento per raggiungere la spaccatura.
La ragazza vide Leo con legata in vita l’estremità di una corda trattenuta dai due tecnici e Sarah notò che uno di essi aveva un enorme livido sulla parte sinistra della faccia all’altezza dello zigomo.
Il ragazzo afferrò anche l’altra mano della fidanzata e la trasse a se mettendole una mano intorno alla vita assicurandola al suo corpo; si aggrappò alla corda e trascinò entrambi al sicuro.
All’improvviso il vento cessò come se davanti a loro qualcosa si fosse contrapposto al vento e, a causa della forza di Leo usata contro il vento che prima li minacciava, Sarah e il ragazzo caddero a terra oltre la spaccatura uno sopra l’altro in una posizione estremamente equivoca «grazie» disse la ragazza appena si furono alzati ambedue «è stato un piacere» rispose Leo spolverandosi la giacca «spero sia finito quando usciremo di qui» continuò il giovane guardando oltre i lembi di roccia del taglio.
Raccolsero tutto quello che avevano gettato poco prima nell’apertura e proseguirono lungo il corridoio di roccia che si estendeva alla loro sinistra.
Sulle pareti scure del passaggio interno spiccavano qua e la molti pezzi di minerale che riluceva vermiglio rimandando il colore dei loro bengala, forse quarzo.
Proseguirono lungo la galleria e dopo quello che le sembrava un chilometro videro il soffitto allargarsi in una enorme cupola.
Il punto più alto della cupola non poteva distare meno di un chilometro dal fondo e dal soffitto pendevano delle lunghe e appuntite stalattiti dello stesso materiale che avevano trovato che, per quanto belle, davano un certo fastidio a Leo pensando che la bellezza non lo avrebbe affascinato se una di quelle punte avrebbe trafitto lui o qualcun altro della spedizione.
Dalle punte brillanti le pareti ricurve dal nero passavano al grigio antracite per poi diventare di un arancione sfavillane, quasi da far lacrimare gli occhi dopo l’oscurità del tunnel precedente.
Ai bordi della semisfera, dove pareti e pavimento combaciavano, il colore sembrava illuminarsi di luce propria e un sentiero di ciottoli neri come il soffitto attraversava tutto il diametro della cupola fino a portare al centro di essa dove, illuminata dalla luce che scaturiva anche dal pavimento, stava la statuetta che stavano cercando.
Sarah, senza staccare gli occhi da essa, si avvicinò percorrendo lentamente il viottolo seguita da Leo, altrettanto guardingo nei confronti del tracciato.
I due tecnici rimasero all’entrata della cupola osservando accuratamente una parte della parete arancione.
Con mano tremante, il primo dei due vi appoggiò la mano ritraendola subito con una smorfia di dolore e la guardò: il palmo era completamente arrossito e si poteva vedere parte della carne viva sotto la pelle bruciata «maledizione» mugolò tenendosi il polso per tenere ferma la mano, preda di scatti e tremolii; il secondo tecnico si stava massaggiando lievemente il livido violaceo sul viso, senza smettere di fissare Leo con sguardo mortale parlò «stando alla tua azione molto intelligente posso capire che siamo dentro una enorme bolla d’aria nelle viscere del vulcano» disse e si voltò verso il compagno guardandolo negli occhi «dobbiamo andarcene…subito» proferì l’uomo mentre l’altro continuava a fissarsi la mano.
Ad un certo punto, alzò lo sguardo, impaurito «ma…ma siamo stati ingaggiati…non possiamo andarcene così» «bene…allora resta a morire!» disse l’uomo col livido afferrando la gola dell’altro e sbattendolo contro la parete rovente.
Intanto, Sarah e Leo erano finalmente giunti dinanzi alla statuetta.
Da essa sgorgavano miriadi di minuti fili di fumo come se lo splendore che la avvolgeva fosse simbolo di calore.
La ragazza sporse una mano e toccò la superficie levigata dell’enorme zaffiro; Leo cercò di fermarla ma la ragazza aveva già preso in mano la piccola scultura e lasciava scivolare le dita lungo la spina dorsale del minuscolo drago di pietra blu «è freddo» disse e lo passò al ragazzo che, riluttante lo prese in mano constatando egli stesso che era freddo quasi come un cubetto di ghiaccio.
Leo si tolse la giacca scamosciata e ci avvolse la statuetta per attutire eventuali colpi quando si volse di scatto sentendo un urlo che gli trapassò i timpani.
Lui e Sarah corsero fino all’entrata del tunnel dove giaceva morto uno dei due tecnici rimasti con loro; una mano era quasi completamente scarnificata come la testa che, con loro stupore e disgusto, entrava dentro il muro arancione fino alle tempie e due occhi bianchi senza palpebre li fissavano.
Pochi secondi dopo, da quello che credevano un solido muro cominciò a bucarsi e un piccolo rivolo di lava bollente corse lungo il viso rimasto integro dell’uomo scavando ossa e carne.
Poi un altro fiotto uscì dal buco li vicino…e un altro…e un altro ancora inghiottendo il corpo che cadde indietro sulla schiena e il torso scomparve dopo pochi secondo, ingoiato dalla lava che ora stava per invadere la bolla d’aria attraverso il foro che si era creato.
Un rombo fece tremare tutta la bolla e sentirono una forte vibrazione sotto i loro piedi.
Leo gettò lo sguardo dalla parte opposta del sentiero e vide le giunture tra pareti e pavimento cedere pericolosamente facendo sgorgare la lava a fiotti come un’inferica fontana.
Subito, la roccia fusa prese ad espandersi lungo il viottolo verso di loro «via! Scappiamo!» urlò Leo prendendo la mano della ragazza accanto a lei e trascinandola via mentre, a pochi metri dai loro piedi, il magma scivolava veloce e fluido.
Si gettarono a capofitto nel tunnel e corsero come se avessero le ali ai piedi; Sarah strinse a se la statuetta ancora infagottata nella giacca del ragazzo e guardò oltre le sue spalle sentendo il calore della lava farsi sempre più netto sulla sua schiena: al suo passaggio, il magma faceva scoppiare i cristalli lungo le pareti e, dinanzi a loro, quelli rimasti saltavano via lasciando spazio a colonnine di vapore.
La ragazza, all’improvviso, notò uno di quei minerali tremare per la forza che il getto di vapore dietro di esso imprimeva per uscire e, senza pensarci, spinse Leo oltre quella pietra pochi secondi prima che il vapore la scagliasse verso l’altra estremità del tunnel.
La ragazza sentì un dolore acuto tra la seconda e la terza costola sulla parte sinistra del busto ma non smise di correre passando a Leo l’involto e premendosi così la mano libera sulla ferita della roccia che l’aveva attraversata.
Erano ormai alla fine del corridoio ma Sarah sentì che non sarebbe mai uscita da quella coltellata nella roccia, ne vedeva i lembi vicinissimi ma le forze si stavano affievolendo sempre più, avvertiva la luce perlata del cielo ancora coperto di nuvole sul suo vis0 ma la vista le si stava offuscando, sentiva le braccia di Leo sorreggerla in quell’ultimo balzo di lato al taglio per evitare il fiotto maggiore di lava che, anche lei aveva fremuto di inghiottire quegli umani ma ormai ogni respiro doloroso diventava sempre più corto, sempre più fievole.
In un ultimo sforzo alzò una mano e, alla cieca, cercò il viso del suo amore, che non l’aveva mai abbandonata e che in quel momento la teneva stretta a sé…sentì vagamente la mano di Leo stringere la sua e baciarla…premerla contro il suo viso , pregandola di non lasciarlo «ti amo» disse nell’ultimo respiro, poi, i muscoli si rilassarono, la testa le cadde di lato lungo il braccio del ragazzo, gli occhi marroni che Leo adorava guardare e che prima erano pieni di vita, si appannarono del leggero ma al contempo pesante velo della morte e si chiusero.
II. Tristezza e rinascita Leo aveva corso come mai aveva fatto.
Aveva raggiunto e superato l’apertura il più velocemente possibile.
Si era spostato con la stessa rapidità quando la lava era uscita in un enorme getto che infuocò la poca, disastrata vegetazione resistita al potente risucchio del ciclone, ora di nuovo tra le nuvole di seta grigia.
Il ragazzo fissò il fiotto incandescente con un misto di effimero terrore e trionfo dipinti in volto.
Si appoggiò stancamente alla parete di roccia cercando di calmare il fiatone che persisteva ma che non poteva privargli il volto di un sorriso smagliante e, anche se con qualche difficoltà, una risata si unì ad esso, interrotto dagli ansimi del fiato pesante «ce…l’abbiamo fatta!» esclamò Leo alzando lo sguardo da terra fino a Sarah.
La felicità per la vittoria sul fiume rovente si trasformò in sorpresa negativa quando vide la ragazza barcollare con una larga chiazza di sangue sul fianco sinistro tra la seconda la terza costola.
In pochi istanti, a Sarah mancarono le forze per sorreggersi e cadde, trovando però appoggio tra le braccia di Leo che aveva coperto quei 3 metri con una velocità e prontezza strabilianti.
La ragazza era pallida e sudata per la corsa e la ferita che ogni secondo di più le rubava un po' di vita.
Lei sollevò una mano per trovare quella di Leo che la strinse al suo viso senza smettere di chiamare il suo nome, chiedendo di non lasciarlo.
Le disse che sarebbero tornati a casa assieme e, una volta arrivati, le avrebbe offerto la cena nel ristorante più lussuoso di tutta Los Angeles; sorrise tra le prime lacrime che iniziavano a scendere e cadere sul viso di lei.
Nell'ultimo sospiro in cui si trova la morte Sarah parlò e il ragazzo sentì una pugnalata al cuore sentendo come la sua voce era flebile e rotta da un pianto che non sarebbe mai sgorgato da quegli occhi «ti amo» disse piano è ormai, i polmoni svuotati in quelle parole, la ragazza si rilasso e morì tra le braccia del fidanzato con una sola e argentea lacrima sul viso e, in quella lacrima, vi erano racchiuse tutte le emozioni e le memorie di Sarah: gioia, dolore, tristezza, felicità, amore erano ormai diventati una sola cosa, sulla guancia di una giovane innamorata.
Allo stesso tempo, sul viso di Leo, quel che scorreva sotto forma di acqua salata era solo dolore.
Il ragazzo, inginocchiato su terra e sangue, piangeva con tutto il cuor suo sperando che quel pianto lo avrebbe ucciso per poter seguire l'amata come sempre aveva fatto «non andare dove non ti posso accompagnare» sussurrò piano all'orecchio della ragazza stringendola a sé con tutta la forza che gli rimaneva.
Nella stretta sentì qualcosa pungergli il petto; il dolore che aveva sentito qualche ora prima stava tornando.
Come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco cadde all'indietro senza fiato e con ancora volto bagnato di lacrime.
Un forte bruciore gli invase il petto e le spalle, lungo le braccia ed infine nel palmo delle mani; all'improvviso, con enorme sforzo, recuperò aria, gridò e il dolore, fattosi strada nel suo cervello, pian piano si trasformò in rabbia.
Un altro urlo si espanse nella foresta; Leo sollevò da terra il corpo di Sarah e si diresse verso il campo dove il tornado li aveva sorpresi con passo lento e cadenzale notando che, al suo passaggio, i detriti del ciclone sembravano togliersi dalla sua traiettoria come animati da vita propria o spostati da una strana forza.
Percorse così lo spazio tra lui e il campo o almeno che ne rimaneva dopo il passaggio del tifone.
Ogni tanto riguardava il viso pallido della ragazza; la pelle liscia e levigata con una maschera di alabastro diventava sempre più fredda e bianca ad ogni suo passo, le labbra rosse carnose che il ragazzo amava baciare divenivano color del tramonto, viola pallido d'un giorno d'inverno; l'inverno che ora stava divorando Leo insieme ad una rabbia immotivata.
Quella rabbia però non lo aiutava, per quanto si sforzasse, a fermare le lacrime che prendevano a scendere lungo le sue guance quando incontrava gli occhi chiusi di lei.
Arrivò la sua meta con le lacrime scendevano ancora, senza che lui potesse dare freno a quei fiumi incontrollabili e alcune gocce di quei fiumi caddero sul fagotto appoggiato al ventre di Sarah dove la statuina da poco recuperata riposava.
Leo si asciugò le lacrime nella spalla cercando di muovere il meno possibile il corpo esanime della ragazza e si guardò attorno: le uniche macchine che non si erano portati appresso nell'apertura erano riverse a terra e sventrate dai detriti lanciati dall'uragano.
Inutilizzabili.
Una volta arrivati al vulcano e recuperato il drago zaffiro avrebbero dovuto chiamare l'elicottero che gli avrebbe portati all'aeroporto ed, infine, a casa, ma la radio era annichilita, ogni possibile mezzo di comunicazione era distrutto.
Posò Sarah a terra accarezzandole le guance e spostandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio; fece tutto il giro della zona fino a che non notò, accanto ad un altro gruppo di macchinari miracolosamente rimasti in beni al ciclone, l'ultimo dei quattro tecnici che li avevano accompagnati.
Era girato di spalle borbottava inviperito, trafficando con la radio alla sua sinistra.
Leo si avvicinò di soppiatto cabrando e i passi per fare il meno rumore possibile alle spalle dell'uomo che stava parlando nel ricevitore della radio «si, sono io.
Vieni subito non ci resisto più in questa stramaledetta giungla…chi se ne frega degli altri vieni e basta! Quando sarai in volo ti spedisco le coordinate» disse adirato dopodichè chiuse la connessione agganciando l’interfono alla radio.
Leo rimase sorpreso dalle parole dell’uomo, avrebbe voluto mettere le mani al collo del tecnico e stringere finché il suo cuore avesse cessato di battere; era in procinto di esaudire il suo desiderio quando, dal ricevitore, venne una voce, interrotta dalla ripetuta mancanza di segnale «impos…le deco…o c’è….
tro…po…vent….
aspett…mo ch….
migli….
ri» disse la voce e la radio si spense tra le parole di disappunto del tecnico.
L’uomo si girò e si ritrovò il viso di Leo fissarlo a sua volta con il fuoco della rabbia negli occhi «volevi abbandonarci qui?» domandò il ragazzo sentendo la collera scalpitare sempre più «a quanto pare non ci sono riuscito» rispose l’uomo staccando il ricevitore dall’apparecchio e rompendo il cavo che lo collegava alla radio «ma forse ho ancora qualche chance» terminò gettando a terra il ricevitore e schiacciandolo con un piede; lo sfrigolio della radio si interruppe in una serie di scintille.
Leo sgranò gli occhi senza però distogliergli lo sguardo dalle pupille grigie «maledetto!» esclamò il ragazzo avventandosi sull'uomo ed entrambi caddero a terra ingaggiando una lotta corpo a corpo.
Leo, anche dopo l'estenuante corsa per uscire dal vulcano, ebbe la forza sufficiente per inchiodare il tecnico al suolo stringendoli le mani attorno al collo in una morsa d'acciaio; poteva sentire il sangue scorrergli sotto le dita e i battiti del cuore farsi sempre più lenti.
L'uomo, in un disperato tentativo di liberarsi da quella morsa, prese un sasso grande quanto la sua mano e lo sbatté con forza contro la testa dell'altro che, per il colpo subito, cadde di lato.
L'uomo lasciò la pietra ed afferrò una grossa scheggia di metallo che pendeva dal macchinario accanto a loro.
Si mise a cavalcioni sopra Leo, ancora disorientato per il colpo alla testa, e fece per conficcare la lama nel petto del ragazzo quando quest'ultimo si accorse del nuovo pericolo afferrando il posto dell'uomo fermando la punta della scheggia a pochi centimetri dalla sottile maglietta che indossava, una ben poca protezione contro il metallo affilato.
il tecnico posò l'altra mano sul pezzo di metallo, il viso contorto in un ghigno di fatica; Leo spinse con tutta la forza che gli rimaneva sentendo già i muscoli irrigidirsi per lo sforzo è poi accadde in un attimo.
Il ragazzo riuscì a girare la lama contro il suo aggressore e la conficcò nel petto dell'altro che, con un grido soffocato e rantoloso, morì accasciandosi con tutto il suo peso su Leo, ancora steso a terra, che cercava di riprendersi sebbene l'adrenalina fosse ancora in circolo.
Dopo, in un unico movimento, spostò il corpo del tecnico e si alzò portando due dita tremanti alla tempia destra; le ritrasse con uno scatto fulmineo quando una poderosa fitta gli attraversò la testa con un chiodo piantato tra le tempie.
Guardò i polpastrelli e li ritrovò sporchi del suo sangue usciva imperterrito da una ferita e si estendeva fino sopra il sopracciglio, quel dannato sasso avrebbe potuto schiacciargli la testa accidenti! Leo, cercando di tamponare la ferita stando attento a toccarla il meno possibile con un fazzoletto che si era ritrovato in una tasca dei pantaloni, si avvicinò al ricevitore della radio distrutto a terra da cui ora si alzava un flebile filo di fumo.
In un moto di rabbia che ancora persisteva nelle sue vene diede un calcio ai rottami del ricevitore e se n'andò, continuando ad asciugare il sangue che scendeva sempre come nuove lacrime quando prese di nuovo la ragazza tra le braccia dirigendosi oltre il fitto della giungla.
Aveva intenzione di tornare all'aeroporto a piedi, ripercorrendo il sentiero fatto in precedenza al contrario dato che la radio distrutta non avrebbe potuto dare molte indicazioni d'atterraggio dell'elicottero.
Così Leo camminò, cercando di ricordare la strada, ma la serva gli sembrava tutta uguale dopo il passaggio del tifone: i detriti e buche lasciate dagli alberi sradicati potevano confondere un ragazzo già confuso per una botta alla testa.
Dopo ore di cammino che gli parvero secoli, cominciò a risentire della ferita e della perdita di sangue che essa portava; le immagini cominciavano a perdere loro contorni nitidi e del paesaggio si faceva sempre più buio e accogliente, avrebbe voluto fermarsi, accasciarsi al suolo, morire... ma, in mezzo ad una giungla che si era portata via la persona più cara che avesse al mondo, no.
Non avrebbe ceduto, avrebbe riportato al corpo di Sarah a Los Angeles anche a costo di trascinarsi con la lingua fino all'aeroporto.
Proseguì, senza far caso alle gambe sempre più deboli, ignorando il rivolo di sangue che ora gli inzuppava la maglietta.
Arrivò accanto ad un'enorme albero dove lunghe liane e radici intricate facevano parte del tronco... quell'albero aveva già visto, stava iniziando a ricordare e quell'albero era proprio sulla strada per l'aeroporto; c'era quasi riuscito, ancora un'ora di cammino e sarebbe stato fuori dove aveva lasciato la Jeep... ormai era tardi, si sentiva troppo debole per continuare, le gambe cedettero improvvisamente e perse i sensi prima di aver toccato terra.
****** Sentiva parlare.
I suoni erano ovattati e le immagini solo delle ombre; la testa non ha smesso un attimo di dolergli da quando aveva aperto gli occhi.
Il dondolio leggero della jeep dove si era risvegliato gli stava di nuovo conciliando il sonno, che male c'è a prendersi ancora un po' di riposo? si stese sul sedile posteriore incrociando le braccia e raggomitolandosi come un riccio sentendo il sangue rappreso sul lato della faccia scricchiolare quando affondò il viso dalla spalla per scacciare la luce che, attraverso il finestrino, filtrava perlacea <> disse una voce dentro di lui <> disse ancora la voce sussurrando quasi le ultime parole.
Leo spalancò gli occhi verdi che si velarono ancora di tristezza quando capì che quella voce era di Sarah, della sua coscienza che aveva preso quel tono che lui amava sentire e che gli piaceva ascoltare durante una delle tante ramanzine che riceveva scherzosamente dalla ragazza.
Le lacrime scesero nuovamente quando pensò a quello che gli aveva detto prima di partire... se non fosse andato anche lui in quella missione, lei sarebbe stata ancora viva... le lacrime si moltiplicarono e bagnarono il sedile del loro dolore, nascoste dalle braccia del giovane raggomitolato e scosso dai singulti silenziosi che non aveva coraggio di mostrare al guidatore dell'auto né a qualunque altro presente al di fuori della sua corazza di sentimenti che si era creato, su quel sedile.
Con il pianto, il dolore alle tempie si amplificò, ma Leo non avrebbe mai potuto e voluto fermare quest'ultimo sfogo che si poteva permettere prima di diventare l'ombra di se stesso.
Cullato dal rumore del motore e dal dolore pulsante alla testa, il ragazzo s'addormentò senza accorgersene mentre un altro rigagnolo di dolore veniva assorbito dal tessuto del sedile.
La macchina, poco dopo, inchiodò davanti all'aeroporto ed il guidatore scese dando una fulgida occhiata al ragazzo raggomitolato sul sedile posteriore, tremante.
Sbatté la portiera e si diresse verso il cassone dove, assicurata con delle corde, c'era Sarah, bianca come il gesso.
Un'altra portiera sbatté e dal lato destro della macchina vide Max che si apprestava, con qualche difficoltà, a tirar fuori dalla macchina Leo.
Scosse la testa con invisibile ghigno sul volto quando vide il biondino addormentato con gli occhi semichiusi ad arrossati.
Abbassò gli occhiali da sole sulla punta del naso e guardò verso Max che ora stava in piedi accanto alla macchina con il biondino sottobraccio cercando di farlo stare sulle sue gambe «allora? Meglio muoversi prima che il jet parta senza di noi.
Non piloto io questa volta» disse Max verso di lui che, senza dire una parola, si tirò su gli occhiali prendendo il corpo della ragazza e seguì il pilota che avanzava a fatica per il peso di Leo che gravava sulla sua spalla.
Finalmente raggiunsero l'aereo e, saliti su di esso, posarono il sopravvissuto su una coppia di sedili e il cadavere della ragazza su altri due «allora io vado a fare un giro, il mio lavoro l'ho svolto» disse è sceso dall'aereo con passo molleggiato sotto lo sguardo truce di Max, seduto accanto alla ragazza morta.
Da quando l'aveva visto non gli era piaciuto nemmeno un po'; assomigliava a quei bulli che vi fanno gli arroganti anche durante cose serie come la morte... Erik Crow.
Si era presentato due settimane prima e già pretendeva che lo servissero e riverissero tutti solo perché era nipote di un grande aziendale... i pensieri del giovane pilota vennero interrotti da un impercettibile movimento di Leo, sveglio da sonno ad occhi aperti, che aveva mosso lievemente la testa verso Max, per poi tornare a fissare con sguardo vuoto il vano bagagli sulla sua testa «ehi amico come ti senti?» domandò il ragazzo avvicinandosi al biondino senza però ottenere risposta; gli occhi lucidi del ragazzo erano una già esauriente risposta e ancora di più lo fu quando spostò gli occhi spenti sulla coppia di sedili dove avevano poggiato Sarah, con un velo leggero che la ricopriva fin oltre il viso e lo sguardo gli cadde istintivamente sul involto dalla sua giacca contenente la statuina preziosa sul sedile accanto all'amico pilota... quanto avrei pagato per gettarla fuori dall'oblò mentre il jet e iniziava a rollare sulla pista di terra battuta sollevando un alto polverone con l'aria dei motori.
Dopo minuti di silenzio tombale interrotto solo dalle turbine del jet, Leo sembrò destarsi da quel sonno depressivo, almeno tanto da riuscire a parlare «Max» disse con voce roca a causa del tanto pianto «il senso di colpa può uccidere? Se sì allora sto tranquillo visto che quello che mi sta accadendo è normale» finì con una pesante nota d'amarezza nelle sue parole.
il giovane pilota non seppe cosa rispondere alla domanda dell'amico ma, in quel momento, lo aveva squadrato e aveva pensato che sì, i sensi di colpa possono uccidere anzi, no, dilaniare una persona e lasciarne i resti per provare la sua potenza.
Il biondino non si era mosso dalla sua posizione supina, gli occhi semiaperti a guardare portabagagli; Max non l'aveva mai visto così in tutta la sua vita.
I due si conoscevano fin da scuola materna, erano sempre stati grandi amici e, per quanto considerassero il giovane pilota spericolato fin da bambino, non era niente al pari dell'amico biondo; era sempre primo a suggerire qualche scherzo agli insegnanti soprattutto i supplenti, era sempre il primo a difendere i più piccoli dai bulletti più grandi e nei suoi occhi aveva sempre brillato quella luce di furbizia che ogni bambino di quello stampo ha in sé persistendo lui fino a qualche ora prima ma, adesso, quella luce si era spenta come tutti i suoi sentimenti, uno dopo l'altro «come i sensi di colpa?» chiese il giovane pilota alzando un sopracciglio le parole gli erano uscite di getto, senza poterci pensare su nemmeno una volta e questa volta il biondo rispose,non con la voce mesta che aveva tenuto fino a quel momento, ma con il tono irato di chi lo è più con se stesso che con gli altri.
Si tirò a sedere in uno scatto degli addominali guardando disperato negl’occhi dell’amico «IO l’ho uccisa Max! Se non fossi venuto in questa missione lei sarebbe ancora qui!» urlò Leo più per convincere se stesso che per dare spiegazioni al ragazzo di fronte a lui.
In un moto di rabbia, il biondino picchiò il pugno chiuso sul sedile davanti al suo in un vano tentativo di trattenere altre lacrime che non voleva più lasciar scorrere lungo le sue guance «sono un peso morto per chiunque…» disse appoggiando la testa al freddo vetro del finestrino cercando conforto in quel leggero vibrare che i motori del jet diffondevano in tutto l’aereo «una palla al piede…una valigia che non vale la pena portare…un cappotto pesante in un giorno d’estate…scegli tu quella preferisci fatto sta che non ho fatto niente per salvarla» disse Leo chiudendo gli occhi per impedire alle lacrime di sgorgare; si era promesso che l’ultimo sfogo lo aveva già dato, non voleva che la tristezza prendesse il sopravvento «non ho fatto niente capisci? Sono rimasto impalato li ad aspettare che mi morisse tra le braccia» finì voltandosi per guardare fuori dal finestrino la luce tenera che sembrava beffarsi del suo animo ormai morto «avanti non fare quei musi lunghi! Lo sai che non le faresti piacere così conciato» disse Max mettendo una mano sulla spalla dell’amico che, però, non gradì il gesto.
Con un movimento veloce scostò la mano dalla spalla girando appena il viso verso il compagno «non c’è più…non potrà più vedermi e io non potrò più vederla…il passato è andato, il presente è solo tristezza e al futuro non voglio nemmeno pensare…ora, vorrei stare un po’ da solo se non ti dispiace» disse sentendosi il cuore squarciarsi in brandelli sempre più piccoli per come aveva trattato l’amico che, in fondo, aveva cercato di tirargli su il morale…ormai, con la scomparsa della ragazza, stava diventando acido, lo ammetteva persino lui.
Max annuì senza una parola, sapeva che non doveva rinfacciargli quel comportamento più che giustificato; era morta Sarah e quella ragazza era tutto il mondo dell’amico biondino che adesso, quel mondo, lo sentiva pesare sulle spalle fino a schiacciarlo.
Il giovane pilota si girò e si diresse verso la cabina di pilotaggio per controllare la posizione dell’aereo e quanto tempo ci avrebbero messo ancora prima di poter atterrare all’aeroporto di Los Angeles.
Così Leo rimase solo come aveva chiesto, a pensare o fissare semplicemente il vuoto tra lui e la superficie dell’oblò.
Poteva vedere il mare che stavano sorvolando, pieno di piccoli arcipelaghi contornati da un’aureola di acqua più chiara e trasparente.
Le spiagge bianche e le palme gli ricordavano la sua Florida.
Aveva amato molto il piccolo borgo dove aveva abitato una volta e la aveva lasciato la maggior parte dei suoi amici, ma dopo l’esplosione dello stabilimento chimico di Miami, un po’ ovunque la gente scappava per paura di qualche pericoloso contagio come accadde a Chernobyl alla fine degli anni ’80 ed inoltre, in quel laboratorio, lavoravano i genitori della ragazza che considerava molto più che un’amica che rimasero coinvolti nel fragore che aveva fatto tremare tutta la città.
Così, appena raggiunta la maggiore età, si fecero prestare la macchina dai genitori del biondino e partirono anche loro per raggiungere Los Angeles e farsi, forse, una nuova vita.
Dopo circa cinque anni trovarono lavoro fisso alla Wolf™ che chiese esplicitamente di loro due, avendo notato le loro nascoste capacità; una mattina, davanti alla porta dell’appartamento di Leo, si presentarono due figuri distinti con una valigetta ventiquattrore di cuoio scuro che chiedevano di entrare.
Incuriosito li aveva fatti accomodare all’interno.
I due si erano seduti sul divano e avevano posto sotto il naso, circondato da lunghi ed incomprensibili paroloni aziendali, un contratto che, se firmato, lo avrebbe legato a lungo termine alla ditta.
Lo stesso discorso valeva per Sarah.
Il mare sparì poco a poco sostituito dalla terra ferma…tra poco sarebbero atterrati e avrebbe dovuto assistere al funerale che aveva preparato nella sua mente.
Sapeva che molti colleghi del posto di lavoro avrebbero voluto sapere come era successo, ma lui proprio non voleva parlarne, a malapena riusciva ad accettare la sua morte.
Le ore che succedettero l’atterraggio del jet scorsero veloci, tanto che il ragazzo si trovò nel cimitero della città sotto il cielo pomeridiano ingrigito dalle nuvole senza rendersene conto.
Ora osservava la bara di legno ed ottone venir calata nella fossa e, durante le parole del parroco, ricoperta dalla chiara terra californiana sotto una spessa lapide di marmo dove il nome di Sarah sembrava compatire quel giovane dallo sguardo impassibile che fissava la bara scomparire.
Accanto a quel ragazzo tanto triste da non poter versare una lacrima stava una ragazza dai tratti asiatici, carina anche con gli occhi arrossati dal pianto; a destra di quest’ultima stava un’altra ragazza che cercava di calmare la prima sebbene stesse trattenendo forzatamente le lacrime.
Alla sinistra del ragazzo stava seduto tutto lo staff con cui Sarah aveva lavorato in quell’anno in cui aveva potuto conoscere profondamente ognuno dei colleghi, persino il presidente della ditta era presente, vestito di tutto punto con il viso triste.
Nessun però avrebbe potuto consolare quel ragazzo biondo il cui volto sembrava forgiato da freddo metallo e gli occhi solo due biglie che avevano perduto la capacità di vedere.
Quando ormai tutta la folla era sciamata via silenziosamente ricordando le gesta della ragazza tra le poche lacrime che riuscivano a sforzare, Leo rimase li, davanti alla lastra a fissare l’epitaffio «scusa» disse soltanto fissando la foto in bianco e nero della ragazza e appoggiò accanto alla sepoltura la statuetta che aveva meritato.
Fatto questo si girò di spalle e se ne andò senza però dare un ultimo sguardo alla tomba e al gioiello blu che scintillava della poca luce che filtrava ingrigita dalle nuvole plumbee; gli sembrò che il minuscolo drago ammiccasse nella sua direzione con i suoi ardenti occhi rossi, l’unico colore che spiccasse nella sua forma azzurrina e trasparente.
Dal cielo d’acciaio iniziò a piovere scurendo l’erba del camposanto e tutto ciò che si trovava sotto quelle nubi.
Leo vedeva ovunque gente che correva a ripararsi sotto un portico o le tendine delle vetrine e lui era l’unico a non curarsi di come il cielo piangesse le lacrime che aveva ingoiato durante tutto il funerale.
Raggiunse il palazzo dove, all’attico, stava il suo appartamento e aprì il portone d’acciaio e vetro che si richiuse alle sue spalle con un rumore secco della serratura.
Salì tutto gocciolante le scale lasciando larghe impronte di acqua e fango.
Ormai era abituato a salire tutti i dieci piani senza ascensore così, con la mente ancora ottenebrata dal pensiero della morte della dolce ragazza, arrivò velocemente davanti alla porta dell’attico dove infilò le chiavi che prese da sotto lo zerbino ed entrò immergendosi nel buio dell’appartamento dove le tapparelle abbassate toglievano l’ultimo raggio di luce che poteva filtrare.
C’erano solo silenzio ed il profumo d’erba bagnata attorno a lei.
Con gli occhi ancora chiusi, si mosse lievemente sentendo, sotto di se, la frescura dell’erba rugiadosa.
Le sembrava strano, ricordava il vulcano Majestic...la lava che si avvicinava…quella piccola lancia aguzza trafiggerle il cuore…il volto di Leo poi, il buio.
Pensò che il ragazzo l’avesse portata fino all’aeroporto con l’aiuto dei loro accompagnatori e l’avessero curata, ma se era così, perché era stesa su dell’erba? Non ricordava niente e aveva un gran mal di testa; provò ad alzarsi riuscendo a mettersi a carponi e ad aprire gli occhi guardandosi attorno.
Si trovava nel cimitero di Los Angeles, ma non aveva senso e nella sua testa si affollavano immagini di un deserto rosso come il sangue che lei nella sua vita non aveva mai visto.
Chiuse gli occhi per raccogliere le ancora deboli forze e tentò di alzarsi sulle gambe senza successo, infatti, dopo pochi istanti perse l’equilibrio e ricadde attutendo il colpo con le mani.
Sentiva le gambe formicolare per lo sforzo ed estremamente pesanti.
Aprì ancora li occhi e vide, davanti a se, un paio di zampe da rettile con lunghi unghioni che avevano graffiato il terreno.
Sarah cercò di parlare ma dalla sua bocca uscì solo un ringhio sottomesso che rimbalzò contro i rochi dei cipressi che costeggiavano il prato.
Le zampe si mossero quando lei cercò di muoversi, si strinsero attorno ad un ramoscello quando lei tentò di prenderlo; oltre alle zampe prensili a quattro dita, all’altezza del gomito spuntavano una serie di piccoli corni che salivano fino al petto.
Da esso partiva un lungo collo che si piegava leggermente a S come un serpente, ricoperto di squame rilucenti come dei piccoli zaffiri triangolari che rilucevano nella luce perlata che filtrava attraverso le nuvole.
Sarah girò la testa e vide il suo dorso: il collo era ricoperto da lunghe setole morbide come quelle di una spazzola che vibravano ad ogni suo respiro e questa specie di lungo pelo che ricadeva dal centro del collo verso i suoi lato arrivava fino ad un paio di ali, lunghe quanto tutto il corpo e ripiegate su se stesse.
Aprì lentamente le ali come se aprisse delle braccia in più e le stese in tutta la loro lunghezza, riuscendo ad arrivare a circa dieci metri di apertura alare...non sapeva se per un drago erano tanti o pochi.
Passate le ali vennero le zampe posteriori: possenti e muscolose, adatte per scalciare, scavare e rizzarsi contro i nemici.
Anch’esse munite di spessi unghioni che avrebbero potuto tagliare la roccia come burro, non presentavano corni, ma in compenso avevano scaglie più spesse che difendevano maggiormente la coscia e il femore.
Infine veniva la coda.
Spessa e affusolata, era il contrappeso del corpo che altrimenti, non avrebbe potuto stare bene in piedi; la cresta morbida presente sul collo era presente anche sulla coda che finiva con tre lunghi e sottili corni affilati come pugnali e disposti ai lati e sulla punta dell’arto.
Ancora non ci poteva credere...era un sogno...si diresse verso il piccolo lago che stava alla periferia del cimitero, accanto alla strada che portava nel centro della città e diviso da quest’ultima da un piccolo ponte di legno.
Raggiunse lo specchio d’acqua e vi ci si rifletté...non era un sogno: la testa triangolare si allungava in un muso affusolato da dove uscivano, appena sotto il labbro superiore, un paio di lunghe zanne aguzze bianche come la veste di un angelo.
Sarebbe svenuta se non ci fosse stato il laghetto dove sarebbe potuta affogare.
All’improvviso, delle voci cominciarono a farsi sentire da oltre il ponte di legno venendo verso la sua parte.
Era agitata, non sapeva cosa fare e miliardi di pensieri si affollarono nella sua mente: avrebbe creato panico nella folla se si fosse azzardata a uscire fuori dal cimitero e le ali al momento erano inutilizzabili, poiché non sapeva ancora come volare; qualcuno avrebbe chiamato le forze armate, sarebbero venuti a prenderla, considerandola pericolosa e magari usarla come arma...e si sarebbe dovuta difendere...uccidere forse...ma era per difesa quindi la coscienza non avrebbe dovuto darle problemi.
Fece la prima cosa che le venne in mente: si tuffò nel laghetto, sperando che fosse abbastanza profondo da sommergerla tutta...e aveva quasi avuto ragione; tutto il suo corpo ora era sotto la superficie del lago grigio piombo ma la testa spuntava appena oltre il pelo dell’acqua, lasciando fuori gli occhi, le narici e la mascella superiore.
Sperava che la gente che ora era sopra la sua testa non facesse caso all’enorme macchia blu al centro del laghetto e alle anatre che scappavano starnazzando “stupidi volatili” pensò nel panico, credendo che avrebbero attirato l’attenzione dei visitatori, ma si sbagliò.
Si diressero dritti verso la tomba dove poco prima si era svegliata.
Portavano un mazzo di gigli bianchi come la neve e dei papaveri spiccavano tra essi come stelle nel cielo.
Senza nemmeno scrutare tutte le persone per scoprire chi erano, riconobbe subito Leo.
Il suo cervello scattò in avanti verso il ragazzo, per saltargli addosso e riempirlo di baci.
Il corpo rimase dov’era, immerso nell’acqua gelida e gli occhi puntati sul ragazzo che si avvicinava alla lapide con passo triste e cadenzale.
Sentì un rumore improvviso dietro di lei.
Il ragazzo che era venuto con lei nella missione...Erik...era sulla riva opposta al laghetto che la guardava beffardo mentre spezzava poco a poco una canna di bambù presa da lì vicino.
Sentì l’acqua farsi più fredda mentre quel ragazzo la guardava con quel sorrisetto saccente e altezzoso.
All’improvviso sparì, catturato da un’ombra enorme quanto lei.
Aspettò un po’ tremante che Leo se ne andasse dalla sua tomba per poi uscire a testa bassa da sotto il ponte e scrollarsi l’acqua da dosso, innaffiando le anatre che se ne andarono di nuovo starnazzando la loro ira.
  
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