One step at a time

Negli ultimi mesi la scrivania del Comandante Joseph Lawrence è diventata un campo di battaglia.
Rapporti, fascicoli senza fine, cumuli e cumuli di carta sparsi tra timbri incrostati d’inchiostro e residui di whisky sul fondo dell’ennesimo bicchiere.
Sospeso sulla carneficina aleggia ancora il fumo acre dei sigari degli altri Comandanti.
Le truppe alleate sono in inferiorità numerica, osserva Lawrence. La bozza di un trattato per l’abolizione delle sanzioni commerciali con il Messico fa timidamente capolino sotto l’ennesimo elenco di sovversivi individuati e giustiziati dagli Occhi; l’ordine di sospensione del voto di silenzio per le Ancelle di Washington impallidisce accanto al rapporto sugli ultimi raid aerei contro i ribelli di Chicago.
Eleanor direbbe che non è abbastanza.
Avrebbe ragione. Quelle carte non sono nemmeno il primo dei quattrocento, seicento, mille passi con cui Lawrence si ripromette di rendere la Repubblica di Gilead un posto migliore.
Di fronte a quel confronto impari vorrebbe solo annegare in un altro bicchiere di whisky, mettere su il vecchio giradischi e far veleggiare il cervello verso i ricordi della giovinezza.
Ma in quei ricordi è costretto ad affrontare lo sguardo terrorizzato di Eleanor. A udire di nuovo le sue grida, quando lo accusava di essere un mostro. L’architetto di Gilead, lo chiamano. Una delle menti dietro la dittatura più spietata del mondo.
Lawrence sospira e accantona con una certa malinconia la bottiglia. Pulisce gli occhiali, allenta il fazzoletto attorno al collo. La poltrona stride contro il pavimento di mogano.
Afferra una penna e inizia ad esaminare l’ennesimo rapporto.
Non può arrendersi, lo deve a Eleanor. Il minimo che può fare per onorarne la memoria è combattere quell’abominio che è Gilead dall’interno, con carta, timbri e un’infinita riserva di pazienza.
Un minuscolo, dannato passettino alla volta.