Serie TV > Chicago Fire
Ricorda la storia  |      
Autore: Rowena Ollivander    14/11/2022    0 recensioni
Uscì dall’ascensore e si diresse verso il proprio appartamento, prendendo le chiavi dalla borsa.
Tutto quello di cui aveva bisogno ora era una doccia e poi una bella dormita. Ma prima di tutto avrebbe dovuto assolutamente...
Il suo flusso di pensieri si fermò quando alzò gli occhi e vide una figura seduta fuori dalla porta del suo appartamento, le gambe piegate e la fronte appoggiata sulle braccia.
Violet si avvicinò titubante.

La storia è ambientata la sera stessa del finale dell'episodio 10x22, ultima puntata della stagione 10. Dopo la festa, Violet Mikami torna a casa e trova qualcuno ad aspettarla fuori dalla porta.
Attenzione: spoiler alert per chi non ha visto l'intera stagione andata in onda su Sky.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Pieces Il titolo di questa Hawkami fa riferimento a una canzone dei Sum 41, che contiene molte frasi che secondo me si adattano al personaggio maschile di questa storia, cioè il capo Evan Hawkins. Il mio consiglio è di leggere ascoltando appunto "Pieces" dei Sum 41 e le altre due canzoni che ho citato, "Wreckin' ball" di Miley Cirus e "Dynasty" di Miia, forse quest'ultima più di tutte.



Pieces


And all I gave you is gone
tumbled like it was stone
[...]
Gave you every piece of me
no wonder it’s missing
Dynasty - Miia


Quando le porte dell’ascensore si aprirono, iniziò a sentire davvero la stanchezza. Chissà perché doveva sempre succedere quando era a pochi metri da casa.
Violet schiacciò il pulsante del quinto piano e si appoggiò alla parete. Il matrimonio era stato un successo e tutti si erano divertiti. Persino lei era riuscita a distrarsi, dopo le orribili giornate che aveva passato nell’ultima settimana.
Uscì dall’ascensore e si diresse verso il proprio appartamento, prendendo le chiavi dalla borsa.
Tutto quello di cui aveva bisogno ora era una doccia e poi una bella dormita. Ma prima di tutto avrebbe dovuto assolutamente...
Il suo flusso di pensieri si fermò quando alzò gli occhi e vide una figura seduta fuori dalla porta del suo appartamento, le gambe piegate e la fronte appoggiata sulle braccia.
Violet si avvicinò titubante.
- Evan? Che ci fai qui? - chiese meravigliata quando lo riconobbe.
- Mm? - Sentendo il proprio nome, lui alzò di scatto la testa, in una mano stringeva il telefono. Quando la vide, si stropicciò gli occhi con due dita e si alzò in piedi, sistemandosi il giubbotto, cercando di non sembrare il disperato che si sentiva in quel momento.
Ma chi è che si apposta fuori dalla porta di casa di una ragazza per aspettarla? Due volte in due mesi, per giunta?
- Oh, ciao. Io... non rispondevi alle mie telefonate e avevo bisogno di parlarti. Perciò... - rispose allargando le braccia, prima di mettere le mani in tasca.
Violet prese il telefono e controllò l’ora, poi sospirò, leggermente scocciata.
- Senti, sono le due del mattino. Non possiamo parlarne domani? O perlomeno, oggi ma... molto più tardi? Sono stanca... -
- Ci vorranno solo cinque minuti. Te lo prometto, - la pregò lui.
- D’accordo, - rispose lei rassegnata, aprendo la porta.
Lasciò che lui richiudesse la porta e si avvicinò al divano. Si tolse il cappotto e lo appoggiò.
- Allora, cosa dovevi dirmi? - gli chiese rigida, sfilandosi le scarpe, che la stavano torturando.
Evan rimase piuttosto spiazzato dal tono di voce brusco di Violet, ma cercò di non perdere altro tempo. - Ah, io volevo solo sapere come ti senti. È dalla notte dell’incendio che non ti sento e mi chiedevo se stessi bene, - le chiese, avvicinandosi a lei.
Lei, ancora di spalle, portò gli occhi al cielo e poi si voltò. - Bene, sto bene direi, - disse, le mani sui fianchi. - Ho conservato il mio posto alla 51 quindi direi che sto bene. -
- Fantastico, - le rispose lui accennando un sorriso. - È andato tutto bene, alla fine, - le disse avvicinandosi per abbracciarla.
Ma Violet lo tenne a distanza con una mano. - Sì, decisamente. Ma non grazie a te, - gli rinfacciò dura.
Lui rimase immobile, lo sguardo confuso. - Cosa? -
Violet sospirò; non era l’ora di fare quel discorso, ma in quel momento tutto ciò che voleva era smetterla, una volta per tutte, di prendersi in giro.
- Hai sentito benissimo. Se ho tenuto il posto non è certo per merito tuo. Se Emma non mi avesse mollato nel bel mezzo di un incendio, in cui, tra l’altro, ho rischiato decisamente grosso, ora sarei chissà dove. Mentre tu te ne stavi lì ad aspettare che la soluzione, chessò, piovesse dal cielo, - gli vomitò in faccia. Portò una mano alla testa, respirando profondamente, per calmarsi. Poi sospirò, guardandolo negli occhi, carica di delusione.
Evan era incapace di ribattere.
- Chiunque nel dipartimento l’avrebbe sollevata dall’incarico dopo una cosa del genere. Perciò, sì, è fantastico che io sia ancora alla 51, ma tu non hai fatto assolutamente nulla per aiutarmi. -
Lo fissò. Lui era lì immobile, davanti a lei, lo sguardo confuso passava da lei al pavimento, come in cerca di qualcosa da dire. Ma cosa ci sarebbe mai potuto essere da rispondere?
Evan non poteva credere alle proprie orecchie. Quando era successo che lei aveva smesso di fidarsi di lui? Da quanti giorni ormai pensava una cosa del genere e aveva scelto di non parlargli? Aveva deciso da sola come erano andate le cose e basta. Voleva farla finita così?
Fece alcuni respiri profondi, poi serrò la mascella, si poteva vedere che stava stringendo i denti. Alzò il viso per guardarla negli occhi; il tono più calmo che potesse usare, ma la voce tradiva la sua rabbia. - Tu hai idea di dove sono andato dopo che ti ho accompagnato in caserma, quella mattina? -
Violet lo guardò; non aveva per nulla voglia di sentire le sue scuse, ma lui non le diede il tempo di rispondere.
- Ho passato la mia giornata fuori dall’ufficio del commissario Hill finché quella donna non ne ha avuto talmente abbastanza di me da farmi entrare e starmi a sentire, così finalmente avrei potuto lasciarla in pace, - disse mentre la rabbia montava, il suo petto aveva iniziato ad alzarsi e abbassarsi sempre più velocemente. - Le ho... raccontato ogni cosa del ricatto di Emma, tutto. Lei non era disposta a farmi un favore e io le ho detto che non era quello che le stavo chiedendo. -
Evan si avvicinò a Violet, ira e delusione nei suoi occhi; lei non poté fare altro che rimanere zitta e ascoltare. - Le ho detto che poteva chiedere le mie dimissioni se necessario, ma che tu non ti meritavi quello che ti stava succedendo e che solo io dovevo prendermi tutta la colpa. -
Rimase davanti a lei a fissare il vuoto nel suo sguardo, mentre sentiva che tutto dentro sé stava cadendo a pezzi. Quanto era stato stupido ad aspettarla lì fuori; ora si sentiva un ragazzino che non capisce quando è finita. Si passò una mano fra i capelli e si voltò, imprecando a denti stretti.
Violet lo fissò, incapace di muovere anche un solo muscolo.
- Io non lo sapevo, - riuscì appena a dire.
Lui si voltò di scatto. - Perché da quella sera hai smesso di rispondere alle mie telefonate! Cazzo! -
Lei lo guardò, cercando di non pensare al panico che la stava invadendo.
- Evan, hai messo a rischio la tua intera carriera. Non avresti dovuto... -
- Oh, certo, - rise lui sarcastico. - Sbaglio o sei tu quella che appena cinque minuti fa mi ha rinfacciato di non aver fatto niente per aiutarla? E ora non avrei dovuto? Qualsiasi cosa faccia non va bene comunque per te. Stai solo cercando una scusa,  - le rinfacciò.
- Io... no! - rispose lei, la voce carica di agitazione. Era evidente che non credeva che la conversazione avrebbe preso quella piega. - Pretenderanno le tue dimissioni, dopo tutto il lavoro che hai fatto per arrivare dove sei ora. Perché hai fatto una cosa del genere? - gli chiese cercando di capire cosa le fosse sfuggito, come poteva non averci pensato. Lui era esattamente il tipo di persona che avrebbe potuto fare una cosa del genere e lei aveva dubitato di lui.
- Perché questo è quello che fanno le persone innamorate, Violet! - gridò Evan voltandosi a guardarla. Violet sentì le lacrime iniziare a pungerle gli occhi.
- Rischiano tutto per chi amano, senza pensarci troppo, - proseguì lui. - Cazzo. Lo sai che cos’ha detto la Hill? Che la nostra relazione era inopportuna, - le disse sottolineando con quanto sdegno il commissario aveva usato quella parola. - E io le ho risposto che non lo era affatto. E ci credevo. -
Violet si avvicinò a lui e appoggiò timidamente una mano sul suo braccio. - Evan, mi dispiace, io non avevo idea... -
- Di che cosa?! Che io fossi così disperatamente innamorato di te?! - si sentì gridare lui, prima di serrare la mascella. - Cazzo! - imprecò voltandosi verso la porta.
Lei strinse la presa su di lui, per impedirgli di andare via. - Ascoltami, ti prego, io non avrei mai pensato che avresti potuto fare una cosa del genere. Io... sono stata una stupida. Avevo così paura che tu non mi amassi più, che tutto fosse finito, che per te non valesse la pena di passare così tanti guai per me, - lo supplicò, mentre la sua voce iniziava a rompersi. - Non potevo sopportare l’idea che tu mi lasciassi... Ti prego, perdonami, non avrei mai dovuto pensare questo di te. Mi dispiace tanto... -
Evan si sentiva svuotato. - Come hai potuto pensare una cosa del genere? - le chiese incredulo, ferito dalle sue parole. - Io ti amavo e lo sapevi. Non ero io quello che aveva paura di dirlo ad alta voce, - le rinfacciò.
Violet subì il colpo. Aprì la bocca per dire qualcosa ma le parole le si bloccarono in gola. Aveva avuto così paura che lui la abbandonasse e ora era tutta colpa sua se erano arrivati a questi punti. - Io... mi dispiace così tanto... - gli disse in un soffio, mentre le lacrime iniziavano a rigarle il viso.
Lui la guardò negli occhi. Rimasero così, immobili, uno di fronte all’altro, in silenzio, per quella che sembrò un’eternità. L’aria in quella stanza lo stava soffocando e quando Evan non fu più in grado di sopportarlo, si staccò da lei e fece due passi indietro. Anche se una parte di lui cercava di negarlo, doveva uscire di lì. Restare non avrebbe cambiato quello che era successo.
- Tu sapevi che io ti stavo dando tutto. Te l’ho detto, più di una volta. Evidentemente non era lo stesso per te, - le disse, la voce roca, strozzata, prima di voltarsi e andare verso la porta.
- Aspetta, Evan, per favore, non te ne andare... - cercò di fermarlo. - Ti prego... -
Ma lui aveva già messo una mano sulla maniglia e senza voltarsi un’altra volta si richiuse la porta alle spalle, lasciandola sola.


I never meant to start a war
I just wanted you to let me in
And instead of using force
I guess I should've let you win
I came in like a wrecking ball
I never hit so hard in love
All I wanted was to break your walls
All you ever did was wreck me
Wreckin’ ball - Miley Cirus


Evan percorse a lunghi passi il corridoio e quando fu all’ascensore schiacciò subito il tasto per chiamarlo al piano. Si passò una mano fra i capelli.
Ancora non poteva credere che fosse finita così. Come aveva potuto pensare che non gli importasse nulla della sua carriera e di lei? Non era stato proprio perché lei credeva che lui l’avesse premiata ingiustamente che si erano parlati davvero per la prima volta? E invece non si era fidata di lui e non le era nemmeno importato abbastanza da parlargliene.
L’ascensore si aprì e lui entrò, senza schiacciare alcun tasto.
Aveva gli occhi lucidi, il respiro affannoso. Stava perdendo il controllo, lo sentiva. E come avrebbe potuto non farlo? Aveva appena perso ogni cosa. Intrecciò le mani dietro la testa e iniziò a fare dei respiri profondi.
Prima di incontrare Violet si era concentrato per anni solo sul proprio lavoro, ma con lei aveva finalmente visto che c’era altro oltre alla carriera per cui valeva la pena lottare. E ora aveva sacrificato tutto ciò che aveva per lei e non era servito a niente.
Le porte dell’ascensore si richiusero da sole.
Avrebbe voluto tirare un pugno contro la parete, ma si trattenne. Invece tirò fuori la propria frustrazione con un grido. Poi si appoggiò con la schiena a una parete e fissò il soffitto.
Non gli era rimasto niente. Quando aveva dovuto scegliere fra Violet e il lavoro, non aveva avuto nessun dubbio. Lei era tutto ciò che gli importava e al diavolo se fosse rimasto un semplice paramedico per tutta la vita, fin tanto che fossero stati insieme. Ma ora...
Evan chiuse gli occhi.
Come ha potuto... non riusciva a smettere di pensare.
Eppure Violet non era mai stata il tipo da tirarsi indietro, era una combattente, in ogni aspetto della propria vita. Se avesse voluto, gli avrebbe detto chiaro e tondo di andarsene perché lui non si era preso abbastanza cura di lei, ma non lo aveva fatto.
Poteva ancora vederla nel salotto poco prima, in piedi di fronte a lui, un braccio leggermente teso per trattenerlo, le lacrime che le solcavano il viso. Il suo sguardo era così vuoto, disperato, come se anche il suo di mondo le fosse crollato sotto ai piedi.
Lui l’amava davvero e non poteva negarlo. Era sicuro di volersene andare senza nemmeno provare a capire se le cose potessero risolversi? Lui non valeva più nulla. Il mondo intero gli era crollato addosso. Valeva la pena buttare via anche tutto quello che c’era stato fra di loro?
Il ding dell’ascensore gli fece aprire gli occhi. Qualcuno doveva averlo chiamato.
Fece un profondo respiro e si sistemò il giaccone, schiarendosi la gola, sperando di risultare presentabile, per quanto potesse essere presentabile uno chiuso in un ascensore alle due del mattino.
Poi le porte dell’ascensore si aprirono.
E lei era là.
Il respiro affannoso.
Con il cappotto aperto che lasciava intravedere il vestito verde del matrimonio che ancora indossava.
Ai piedi un paio di scarpe da ginnastica slacciate.
Gli occhi umidi, il trucco sbavato, nel tentativo, vano, di asciugare le lacrime.
Evan non l’aveva mai vista così fragile.
Quando Violet alzò lo sguardo, rimase sorpresa di vederlo ancora lì.
D’istinto mise le mani ai lati dell’ascensore per impedire che le porte si richiudessero e poi lo guardò negli occhi.
- Ti prego, non te ne andare. Non andare, ti scongiuro, - lo supplicò con un filo di voce, mentre le lacrime minacciavano di ricominciare a scendere. - Non lasciarmi, ti prego... Non mi lasciare... -
Evan non ci pensò un istante e la prese subito fra le sue braccia. Lei lo strinse a sé, come se dovesse convincersi che non era un sogno. - Ti prego... - singhiozzò ancora contro il suo petto.
Lui le accarezzò i capelli e le baciò una tempia. - Non vado da nessuna parte... - le sussurrò.
Sentì i nervi di Violet cedere sotto la sua stretta. Entrambi sentirono il proprio corpo rilassarsi e fu in quel momento che la stanchezza per tutto ciò che avevano affrontato li invase.
Evan le accarezzò il viso e poi lo prese fra le sue mani, costringendola a guardarlo negli occhi.
- Ti amo... - gli disse lei.
Lui sorrise appena e la baciò, poi appoggiò la propria fronte contro la sua e chiuse gli occhi per un attimo. Poi le accarezzò i capelli.
- Andiamo dentro, ok? -
Lei gli strinse le mani e annuì.
- Però cerchiamo di evitare un incidente, - le disse, prendendola in braccio. - Non vorremmo mica finire al MED a spiegare come ha fatto un paramedico come te a rompersi una caviglia per colpa di una scarpa slacciata alle tre del mattino, vero? -
Lei sorrise, mentre lui si incamminava verso l’appartamento.
Come’era bella quando sorrideva.





Si tratta della mia prima Hawkami, perciò sono consapevole che possa risultare un po' acerba, ma questa storia aveva bisogno di uscire e quindi l'ho scritta e condivisa. È la versione ottimistica di ciò che penso potrà succedere all'inizio dell'undicesima stagione (e se questo è ottimismo vi lascio intendere come temo andrà a finire).
Se vi fa piacere fatemi sapere cosa ne pensate. Al solito, sono ben accette le critiche costruttive, se non siete d'accordo e basta, non perdete tempo a scriverlo.
E viva chi condivide la mia passione per questa coppia che trovo semplicemente perfetta.
Rowena
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Chicago Fire / Vai alla pagina dell'autore: Rowena Ollivander