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Autore: HergePearl    19/11/2022    1 recensioni
Testo scritto nel 2019, dopo il mio primo viaggio in Bosnia ed Erzegovina.
Sarajevo ci accoglie con un tramonto arancione e un traffico frenetico. L’autunno colora la
città ma non i suoi palazzi, rettangolari. Non sono soltanto rettangolari. Alcuni sono color
sabbia con le tende chiuse. Con i buchi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Colori

Un tram giallo, uno dei pochi non tappezzati con pubblicità varie, percorre lentamente,

costeggiandolo, il Miljacka, il fiume di Sarajevo, anticipando un sole dorato che si sdraia,

allungandosi.

Palazzi grigi, feriti, cercano di toccare il cielo. Come cerca di farlo un campanile,

imponendosi, a Mostar, formando un’ombra con la forma di una croce cristiana sulla città

dal finto ponte. Come lo fa la chioma rosso acceso di un albero tra le lapidi bianche,

pressoché interminabili con uno spazio calcolato minuziosamente tra di loro, sotto la pioggia

che scende lenta sul memoriale di Potocari.

Mostar, città di murales colorati e di montagne selvagge che la circondano. Città in cui

rimane in piedi la torre dei cecchini davanti al volto e la mano tesa di Bruce Lee, a cui viene

chiesto se sa di essere guardato, se lo vede. Dietro le sbarre che vietano l’ingresso alla torre

un pugno bianco s’innalza. Scheletri di palazzi feriti da buchi e cicatrici inflitte da schegge

cieche di granate. Dalle ossa si allungano rami e foglie verdi, crescono alberi, come se ci

fosse una nuova vita dopo il silenzio.

Sarajevo ci accoglie con un tramonto arancione e un traffico frenetico. L’autunno colora la

città ma non i suoi palazzi, rettangolari. Non sono soltanto rettangolari. Alcuni sono color

sabbia con le tende chiuse. Con i buchi. Sono in lutto come lo sono stati i sarajevesi per

quelle fiamme che hanno immolato un soffitto blu cobalto, verde scuro e chiaro – la

Vijecnica, biblioteca nazionale. Questa Sarajevo pare incastrata nel tempo di cui non riesce a

liberarsi – soltanto in quel museo dove non ho letto le parole “serbo”, “croato” o

“bosgnacco” il tempo scorre come il moto perpetuo di un’altalena e la sua ombra.

Nel museo della resistenza le fotografie a colori precedono il rosso. Quello delle rose di cera

per strada. Quello sulla facciata della cooperativa agricola di Kravica. Rosso sangue, sangue

rosso lavato via ma documentato da innumerevoli fori che simbolizzano la morte di non si sa

quanti, più di mille uomini. Le ferite sono ostentate, i mattoni arancioni, completi o no, che

aspettano dell’intonaco giallo, rosa, verde, viola. E ancora più scheletri, la natura che si

appropria del cemento coprendolo con la sua vita, nuova.

Potocari. Bronzo scuro, la statua fuori dall’ex base dell’ONU fa scivolare via la pioggia su cui

si riflette la luce di un lampione solo. Una donna, una ragazza, un bambino. Salvi ma non

salvati. I pugni serrati, vicino al corpo. Il bambino pare coprirsi gli occhi. Non hanno un volto,

potrebbero essere chiunque. Simbolo dell’impotenza e della paura che divorano il corpo e

l’anima. Nelle mani di coloro che poi, in una patria lontana da questa terra, sarebbero stati

chiamati “onze helden”, i nostri eroi.

Alessio torna in stanza per ultimo, ha una bottiglia di plastica in mano che contiene del

liquido trasparente. La passa a Jacopo che ne prende un sorso, i suoi occhi si riempiono di

lacrime. “E’ rakija di un negazionista, me l’ha regalata”, è esaltato. E’ l’ultima cosa che dice,

collassa su un letto che non è il suo e la mattina dopo lo trovo nella stessa assurda posizione.

   
 
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