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Autore: _Frame_    07/12/2022    0 recensioni
[Pre-Canon]
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Valentina Milani è una ragazza come tante, una su un milione. Una inguaribile pigrona, golosa di pasta e gelato, solare e chiacchierona, anche se un po’ frivola, appassionata di meccanica e di motociclette, e affezionata ai suoi due migliori amici d’infanzia. Nata e vissuta nel piccolo paese di Portorosso, circondata dalle solite strade, le solite facce, il solito mare, le solite tradizioni, le solite leggende sui Mostri Marini, ha sempre sperato in una qualche novità in grado di stravolgere la sua vita e di strapparla a una quotidianità che ormai le calza sempre più stretta.
L’arrivo in paese di un giovane straniero potrebbe esaudire questo suo desiderio e cambiare per sempre non solo il corso della sua vita, ma anche l’intera visione del mondo che l’ha sempre circondata.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
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Quale aspetto sgomento e desolato

 

 

«Scaricata!»

Valentina picchiò la caraffa d’acqua sul tavolo, costringendo Sara a sollevare il mazzo di fogli da disegno per impedire che qualche zampillo d’acqua andasse a bagnare gli schizzi a carboncino che si stavano ammucchiando l’uno sopra l’altro, man mano che li finiva. Affondò una nervosa manata fra i capelli arruffati, strizzò le dita fra le ciocche, soffiò via il nastrino che le era cascato davanti agli occhi, e si morsicò il labbro tremante. Bruciò di rabbia e umiliazione rievocando il disastroso appuntamento del giorno prima. La sera era tornata a casa talmente infuriata che, scaraventate le scarpe all’angolo della parete e sbattuta alle sue spalle la porta della camera da letto, ci era mancato poco che saltasse la cena per la quasi mancanza di appetito. Quasi mancanza di appetito.

«Passa l’intero pomeriggio a farsi scarrozzare in giro e a ciondolarmi dietro come se nemmeno si fosse ricordato il perché mi avesse invitata a uscire.» Valentina contò sulle punte delle dita ogni singolo affronto subito. «Spiccica a malapena tre frasi in croce tanto per ricordarmi che forse non è il caso che io parli così velocemente e così forte, come se lui avesse qualcosa di più interessante da dire, poi si lagna perché non vuole andare di qua, non vuole fermarsi di là, e che a forza di venirmi dietro gli bruciano i piedi e gli fanno male le orecchie. Non fa altro che fissare l’orologio senza nemmeno degnarsi di prendermi per mano una singola volta. E poi che fa?» Sventolò la mano per aria, verso il soffitto. «Mi scarica sulla porta di casa, si toglie il berretto mostrando una di quelle sue facce così mortificate che ti verrebbe da prenderlo a schiaffi, e se ne esce con una battuta del tipo: oh, sai, Tina, è stato bello passare il pomeriggio assieme – eccetera, eccetera –, ma forse è il caso che non andiamo oltre – eccetera, eccetera –, perché mi sa che oggi non è andata esattamente come speravo.» Si conficcò le unghie nei palmi. Risucchiò il fiato fra i denti per cacciare indietro un’amara ondata di lacrime che già sentiva pizzicare agli angoli delle palpebre. «Be’, indovina per chi altri non è andata esattamente come sperato, sporco farabutto che non sei altro!» Incrociò le braccia al petto, raccolse la catenina della collana e ci giochicchiò arrotolandola fra i polpastrelli. «Mi avesse almeno offerto un gelato avrei anche potuto perdonarlo e farmene una ragione.»

Lo sguardo le cadde su un paio di pescatori seduti al bancone, su quelli che si erano voltati verso di lei, attirati dalla sfuriata che era rimbalzata fra le pareti dell’osteria.

Valentina corrugò la fronte, ricambiò gli sguardi di disapprovazione, poi però si arrese a un sospiro. Gli occhi si schiarirono. La rabbia defluì dalle guance, lasciandole sulla pelle un freddo senso di tristezza e delusione. «Forse avrei potuto perdonarlo e farmene una ragione.»

Sara riappoggiò i fogli sul tavolo, pareggiò quelli che erano svolazzati fuori dalla risma, e si coprì la bocca con il dorso della mano sporca di carboncino per non rendere palese la sua ridacchiata. «Se tutti i ragazzi che ti scaricano ti offrissero un gelato sarebbe un buon compromesso.» Sospirò anche lei, compassionevole. «Considerato che è già la terza volta che succede.»

«La quarta.» Valentina sfilò lo strofinaccio dal grembiule, sollevò la brocca e pulì lì dove si era spanta qualche chiazza d’acqua. Tese l’udito al di là delle rauche chiacchiere dei pescatori seduti ai tavoli, oltre il trillo dei bicchieri, il gorgoglio della macchinetta del caffè, e il raschiare di qualche seggiola che veniva spostata.

Quel poco di senso di dovere in suo possesso le pizzicò l’orecchio, le suggerì che forse sarebbe stato il caso di rimettersi al lavoro e di occuparsi dei clienti, invece che trascorrere il resto del pomeriggio a lagnarsi con Sara. E forse avrebbe anche dovuto sistemare il giradischi, dato che era già la seconda volta che ricominciava daccapo, e che gli acuti di Madama Butterfly stavano cominciando a spazientirla. Ma tristezza e demoralizzazione le schiacciarono le spalle, le curvarono la schiena e le appesantirono i muscoli delle gambe, inchiodandola lì sul posto. A conti fatti, considerò una conquista il solo fatto di essere riuscita a trascinarsi giù dal letto e di essersi presentata al lavoro di mattina buonora.

«Sempre così va a finire.» Valentina ripiegò lo strofinaccio, lo infilò sotto il laccio del grembiule, poggiò il fianco sul tavolo dov’era seduta Sara e si rimise a giocherellare con la collana, a grattare le unghie sull’incisione a V forgiata sulla chiave appesa alla catenella. Un gesto che la accompagnava sempre quando era nervosa. E quel giorno lo era parecchio. «Mi faccio sempre ammaliare da qualche parolina dolce, da qualche complimento. Ogni volta penso: stavolta sarà diverso. E invece ogni volta rimango fregata.» Sbuffò di nuovo, e il nastro sciupato fra i capelli le dondolò sulla punta del naso. «Basta che un ragazzo mi conosca un po’ meglio che subito scappa a gambe levate. Manco avessi la peste, Santo Dio.»

Sara scosse il capo e sfogliò il blocco da disegno in cerca di una pagina bianca. Accostò il carboncino alla brocca d’acqua, socchiuse un occhio, prese le misure, e flesse il capo di qua e di là per catturare i giochi di luce che battevano sul vetro. «Non vederla come una fuga» disse. «Pensala più come una…» Si strinse nelle spalle e fece mulinare la mano. «Divergenza di interessi.» Graffiò qualche colpo di carboncino sul foglio bianco ed ecco che già aveva delineato i contorni della brocca. «Io non la vedrei così tragica, se fossi in te. Meglio che certe cose muoiano sul nascere, piuttosto che coltivare un’illusione…»

«Una volta tanto mi piacerebbe anche credere a un’illusione piuttosto che incassare una delusione dietro l’altra. Se è così facile stufarsi della mia compagnia…» Valentina raccolse il bicchiere vuoto da cui Sara non aveva ancora bevuto. Lo portò sotto la luce del sole che penetrava le tendine tirate davanti alle finestre – le avevano lasciate aperte per far circolare l’aria, dati i fumi speziati che cominciavano a ribollire dalla cucina – e si specchiò sul vetro. Si affacciò alla sua immagine deformata. Allontanò dalla fronte il cespuglio di capelli crespi tenuti fermi dal nastrino che comunque continuava a sciuparsi e a caderle sul naso. Percorse le curve del viso, le lentiggini che stavano cominciando a sbocciare assieme all’arrivo dell’estate, e poi il suo tocco scese soffermandosi sul petto, dove cadeva la chiave scintillante. Sospirò, più amareggiata di prima. «Forse è vero che non c’è niente di così interessante in me.»

Sara fermò il tratto di carboncino, alzò lo sguardo dal disegno, e per la prima volta sembrò davvero distogliere l’attenzione dal suo lavoro. Flesse le sopracciglia e fece quello sguardo addolorato da mammina apprensiva che avrebbe potuto commuovere anche gli scogli. «Oh, Tina…» Si girò, attirata da una risata più sfacciata proveniente da uno dei tavoli occupati dai pescatori in pausa dal lavoro. Scosse il capo e non ci badò. «Non dire così, su. Vedrai che prima o poi…»

«No, no» controbatté Valentina, più determinata che mai. «Prima o poi un fico secco.» Riappoggiò il bicchiere sul tavolo. «Ne ho proprio abbastanza dei ragazzi, delle loro moine, dei loro inutili corteggiamenti e delle loro stupide bugie. Non uscirò mai più con un ragazzo.» Sollevò il mento e annuì a se stessa. «Mai. Più.»

«Sì, certo, Tina.» Sara soffiò sul foglio, spolverò via una nera nuvoletta di carboncino, e si rimise a disegnare. «Lo dici ogni volta, e ogni volta eccoci sempre qui a fare lo stesso discorso.»

«No ma questa volta faccio proprio sul serio, lo giuro.» Valentina sollevò una mano aperta, spinse il petto all’infuori, e invocò un giuramento solenne. «Non mi farò fregare un’altra volta, e non mi innamorerò mai più per tutto il resto della mia vita.»

«Quello non è innamorarsi, Tina. Quello è…» Sara usò il pollice per sfumare l’ombra attorno alla pancia della brocca che stava prendendo forma sul blocco da disegno. «Quello è solo prendersi una cotta o una sbandata.»

«Bene» annuì Valentina. «Vorrà dire che non mi prenderò mai più una sbandata per il resto della mia vita.»

«Come no. Tu non ti prenderai mai più una sbandata…» Sara rivolse il carboncino fuori dalla finestra, verso gli spicchi di cielo azzurro visibili fra le tendine. «E quello stesso giorno i pesci smetteranno di nuotare e i gabbiani smetteranno di fare cra-cra

«Com’è che fanno i gabbiani, scusa?»

«Cra-cra. Lo sai…» Sara unì le due mani per simulare un battito d’ali. Increspò le sopracciglia nella stessa espressione assorta e concentrata che le si materializzava sul volto ogni volta che disegnava. «Quando si mettono a volare in cerchio giù al porto e starnazzano facendo cra-cra

«Ma che dici?» sbottò Valentina. «Sono i corvi a fare cra-cra.» Si schiarì la voce. «I gabbiani fanno più kai-kai

«No, fanno cra-cra

«Kai-kai

«Craaa-craaa

«Kaiii-ka»

«La volete finire, voi due?» Angelo picchiò la pattumiera per terra – le due ragazze trasalirono e smisero di sbraitarsi addosso. Il vecchio oste si infilò la scopa sottobraccio, scosse il capo mostrando una scura aria di disappunto, e finì di passare lo strofinaccio lì dove Valentina non aveva nemmeno cominciato il lavoro. «Con tutto il baccano che fate finirete per far scappare i clienti.» Fece per raccogliere la brocca d’acqua dal tavolo di Sara.

«No, no, aspetta, aspetta!» Ma lei si sporse per bloccarlo. «Non portarla ancora via.» Si rimise seduta. Pescò un carboncino nuovo dall’astuccio di latta e tornò al lavoro sul disegno. «Fammi solo finire di disegnarla, ho quasi finito, lo giuro.» Inclinò la testa di lato, diede due colpetti sul fianco di Valentina per farla uscire dall’ombra. «E spostati un po’ più a destra, grazie, sennò mi blocchi la luce.»

Angelo guardò la brocca che aveva già afferrato per il manico, corrugò la fronte, scosse le spalle, e la lasciò lì dov’era, anche se gli rimase addosso un’espressione perplessa, la stessa che mostravano tutti gli abitanti del paese davanti alle bizzarrie di Sara. «Sara, sai che mi fa piacere averti qui» le disse, «ma quante volte te lo devo dire di non venire proprio mentre Tina sta lavorando?» Scoccò a Valentina una frecciatina di rimprovero, senza però nascondere la virgola di un sorrisetto sbocciato sotto i baffi. «Come se non fosse già abbastanza facile farla distrarre…»

«Ehi!» Valentina strizzò i pugni. Un cupo rossore salì a bruciarle le guance e la fronte. «Non è vero che mi ero distratta. Stavo solo…»

«Non sono qui per distrarre Tina, lo giuro.» Sara allontanò un ricciolo dalla guancia, sporcandosi il viso con la polvere di carboncino, e intrecciò le mani sotto il mento. Dopo un sospiro, allungò lo sguardo sognante verso l’anticamera dell’osteria. Uno sguardo davvero simile a quelli sfarfallati da Valentina quando si metteva a fantasticare sui suoi appuntamenti. Prima che andassero a rotoli. «Sto solo aspettando Massimo. Arriverà qui per ora di pranzo, dato che lui è uno di quelli incaricati di accompagnare gli stagionali.»

Gli occhi di Valentina si illuminarono come smeraldi. «Ooh.» La luce che le brillò addosso diede al suo sguardo un aspetto fin troppo familiare. «È vero.» Batté le mani e compì un piccolo saltello d’entusiasmo. «Oggi arrivano gli stagionali.» E quella prospettiva compensò tutto il lavoraccio che le era cascato sulla groppa già di primo mattino.

Appena arrivata al Gabbiano d’Argento, combattuti gli sbadigli di un pessimo risveglio, Valentina si era occupata di rassettare le camere al piano di sopra, quelle che mettevano a disposizione solo durante la stagione estiva per i braccianti che venivano da fuori. Aveva cambiato le lenzuola, sbattuto i cuscini, dato una spolverata ai pavimenti, e fatto prendere aria agli armadi. Poi era scesa fino alla cantina dell’osteria per portare su le cassette di vino arrivate all’inizio della settimana. Il resto della mattinata lo aveva trascorso china sul lavello della cucina a strofinare posate, tazzine e piatti – tutto il corredo di cui avrebbero avuto bisogno per servire l’orda di clienti in arrivo. Tutti quei ragazzi, quelle facce nuove…

A Sara bastò un singolo colpo d’occhio per riconoscere l’aria sognante e inebetita che si era spalmata sulla faccia di Valentina. «Non ci posso credere.» Sgranò un’espressione inorridita, anche se non ne fu poi così sorpresa. «Ci stai già ricascando?»

«Chi?» sbuffò Valentina, cadendo dalle nubi. «Io?» Si posò una mano sul petto. «Ma non sto mica pensando ai ragazzi e al fatto che avremo decine di facce nuove con cui socializzare per il resto dell’estate, lo giuro. Sto pensando alle mance.» Finse di rimettersi al lavoro strofinando un angolo del canovaccio su una chiazza di vino fossilizzata sulla superficie del tavolo affianco. «Gli stagionali sono sempre quelli che si fanno meno problemi a cacciare soldi e a prosciugare un’ordinazione dietro l’altra. Chissà perché, poi.»

Angelo finì di passare la scopa fra le gambe delle seggiole e fece spallucce. «Forse perché non sono liguri.» Raccolse la pattumiera e tornò dietro il bancone.

Sara scosse la testa. Affondò una mano fra i capelli per pettinarli dietro l’orecchio – un’altra sbavatura nera le chiazzò la guancia – e si rimise a disegnare. «Tina, lo sai che io sarei la prima a incoraggiarti, in una simile situazione» disse. «Ma non ti sembra che…»

«Non mi serve nessun incoraggiamento.» Valentina sbatacchiò lo strofinaccio e innalzò una bianca nuvoletta di polvere. «Te l’ho detto: ormai non hai di che preoccuparti né di che difendermi, perché non penserò mai più ai ragazzi. Sono determinata, sul serio. Da ora in avanti…» Strinse i pugni. I suoi occhi scintillanti brillarono di una luce fresca e rinnovata. Una luce che nemmeno le chiacchiere sui ragazzi riuscivano a proiettarle addosso. «Lavorerò sodo e mi concentrerò solo sul guadagnare tanti bei soldini e mettere da parte i risparmi per comprarmi la moto dei miei sogni.»

«Chi è che sta parlando di prendersi una moto?» Eros emerse dall’anticamera dell’osteria – dalla porta che Angelo aveva lasciato spalancata per far entrare sole e aria fresca –, sorrise all’oste, inviò un saluto volante ai pescatori seduti al tavolo dove si giocava a carte, e andò ad avvolgere un braccio attorno alle spalle di Valentina. Le pizzicò un buffetto sulla guancia. «Cos’è che non smetto mai di ripeterti dal giorno in cui sei nata?» Un grugno di finto rimprovero gli indurì i tratti del volto. «Esiste solo una cosa più pericolosa delle moto, ossia…»

«Ossia i ragazzi che guidano le moto.» Valentina si mise a braccia conserte e alzò gli occhi al soffitto. «Lo so, lo so.» Sgusciò fuori dal suo abbraccio e si diede un’aggiustata alla gonna sgualcita. Non era più una bambina piccola, che diamine! «E infatti la moto la guiderò io, pa’, mica un ragazzo.»

«Ecco» puntualizzò Sara, rivolgendole il carboncino contro. «Allora aggiungiamo “Tina che guida una moto” in cima alla lista delle cose più pericolose che possano capitare sul suolo di tutta Portorosso.»

Eros annuì. «Sara ha ragione.» Il suo tono di voce si aggravò. Lo sguardo paterno e protettivo. «Come credi che mi sentirei nel sapere che la mia bimba se ne va in giro in sella a una di quelle bombe su ruote?»

Valentina allontanò gli occhi per non farsi impietosire. Arrotolò l’indice attorno al nastrino che continuava a cascarle dai capelli. «Dai, pa’, possibile che ogni occasione è buona per rifilarmi quella ramanzina?» Arricciò la punta del naso. «E poi quante volte ti ho detto che mi dà fastidio se vieni in osteria proprio quando sto lavorando?»

«Sono solo venuto a bere un goccio prima di tornare al lavoro.»

«Eros!» Si innalzò un braccio che lo chiamò verso il tavolo da gioco. «Noi diamo le carte, eh! Guarda che cominciamo senza di te.»

Eros ricambiò lo sventolio di mano ma fece cenno di aspettare. «E, comunque…» Squadrò Valentina con aria dubbiosa. Inarcò un sopracciglio e arruffò i baffi per non far trapelare una palese risatina. «Non mi sembra che tu ti stia dando poi molto da fare.»

«Colpa mia.» Sara alzò le mani sporche di carboncino. «Colpa mia, Eros. Sono io che la sto facendo distrarre più del dovuto. Ma fra poco dovrebbe arrivare l’orda degli stagionali.» Da sotto il tavolo, sgambettò due colpetti furtivi sulla caviglia di Valentina. «Vedrai che Tina avrà tanto di quel lavoro fra le mani che le moto diventeranno le ultime delle sue preoccupazioni.»

Valentina increspò le sopracciglia e le scoccò un’occhiataccia rovente e sfrigolante. Traditrice.

«Ooh, giusto, giusto» sospirò Eros. «Gli stagionali arrivano oggi.» Scostò la tendina della finestra più vicina e volse lo sguardo alla strada che ramificava verso la piazza, al verde che germogliava sulle terrazze del vicinato, al cielo azzurro come smalto. «Ecco perché c’è tutto quel trambusto giù al porto. Era anche ora, dato che siamo già – che giorno è? Il dodici?» Si strofinò il mento sbarbato. «Be’, sarà interessante vedere qualche faccia nuova. E Massimo è già al lavoro con quelli nuovi?»

Sara sorrise, tutta fiera e impettita. «Sì, ma comunque arriverà qui per ora di pranzo, per questo mi sono fermata ad aspettarlo. Lui è uno di quelli incaricati di guidare le squadre del porto, ma una decina di loro credo saranno impiegati solo per tirare su i ruderi della chiesa e della piazza, per questo ne hanno assunti più del solito, ‘sta estate. Non si può certo dire che saranno mesi noiosi.» Sospirò, tamburellò il carboncino sull’orlo del blocco da disegno. «Anche se…»

Un’ombra si allungò dal corridoio d’entrata, inghiottì la luce dell’anticamera. Un ruzzolio di passi riecheggiò fino al soffitto e fece vibrare i quadretti appesi alle pareti, il grosso vociare dei pescatori rimbalzò dentro l’osteria accompagnato da qualche risata, dallo strofino delle suole che grattarono lo zerbino d’ingresso.

«… colpa della gamba che mi sta uccidendo, proprio quando mi ero appena sbarazzato dei dolori alla schiena.»

«Colpa tua che stai diventando proprio un vecchio catorcio.»

«Colpa dell’umido, altroché.»

«Sì, sì, sempre colpa degli altri.»

L’orda di pescatori e di braccianti si riversò nel locale, abbondante e indomabile come un guizzante banco di pesci che si rovesciano da una rete gonfia e tranciata di netto.

Chiacchiere e risate arrochite dall’aria di mare si sovrapposero al rimbombo dei passi. «… una fame da mangiarmi almeno quindici panini alla mortadella», «Non dirmelo, io è da stamattina che non metto qualcosa sotto i denti». Alcuni dei nuovi arrivati si sfilarono le giacche, altri si tolsero i berretti, si fecero aria al viso e si asciugarono il sudore dalla fronte e dal collo. «Fa già un caldo boia, eh?», «L’estate più calda del secolo», «Lo dicevano alla radio l’altro giorno», «Bah, e tu gli credi anche? Lo dicono ogni anno». Gli ospiti dell’osteria lasciarono cadere i borsoni e i bagagli ai piedi delle scale che conducevano ai piani di sopra. Un paio di loro imboccarono il corridoio sul retro, «Il bagno di qua, giusto?», altri si precipitarono a occupare i posti migliori, quelli al bancone del bar, oppure si unirono ai pescatori già seduti ai tavoli, si salutarono con energiche pacche sbattute sulla spalla, si lagnarono della fame, del troppo caldo, «… e non ho intenzione di scollarmi da qui almeno fino alle tre, altrimenti finisco arrosto peggio di una sogliola

Ben presto le note di Madama Butterfly vennero inghiottite da quell’oceano di voci estranee e familiari che avrebbero popolato il Gabbiano d’Argento fino al termine dell’estate.

Valentina raccolse la fronte fra le mani e fece cascare il capo in avanti, i capelli arruffati le si rovesciarono sulle guance. «Ci siamo.» Si abbandonò a uno sbuffo scoraggiato. «Lavoro in arrivo.» Era facile immaginare che quella sarebbe stata una scena ricorrente per tutta la durata della stagione.

Anche Eros si unì ai pescatori che l’avevano chiamato da uno dei tavoli ormai assediati.

Da dietro il bancone giunse un rimprovero di Angelo. «Tina, ti dai una mossa o no?» Sistemò le oliere, le ciotole di pistacchi, dispose i bicchieri puliti davanti ai clienti, e spinse la porta della cucina con una spallata. Lo circondò una nube di vapore che profumava di pesce, di soffritto e di sugo al pomodoro. «Stai tu qui dietro il bancone, io intanto vado a vedere se in cucina hanno già messo a bollire l’acqua per gli gnocchi. Dai da bere a tutti e vieni a chiamarmi se non c’è abbastanza vino, dato che l’ultima volta che ho controllato stavamo a corto di Merlot.»

Valentina si rimboccò le maniche. «Subito.» E, incoraggiata da una pacca di Sara, pescò i bicchieri sporchi e i piatti vuoti che non aveva ancora ripulito dai tavoli che si stavano affollando uno dopo l’altro.

Sara si alzò dalla sua seggiola, premette i palmi sul tavolo, per la prima volta non preoccupandosi di star stropicciando i disegni, e sporse lo sguardo al di là dell’orda di estranei, in cerca di un unico viso familiare. «C’è Massimo?» Lo trovò in mezzo al gruppetto ancora radunato fra il bancone e la tromba delle scale, anche lui appena emerso dalla penombra dell’anticamera. Non che fosse necessario un grande sforzo per individuarlo al di sopra delle altre teste imberrettate. «Oh, eccolo.» Le guance di Sara si spolverarono di rosso, i suoi occhi scintillarono di contentezza. «Massimo!» Rimbalzò con le ginocchia sulla seggiola e sventolò le mani per aria. «Massimo, siamo qui! Quaggiù, quaggiù!»

Massimo girò lo sguardo, attirato dal richiamo, e le sorrise. I suoi occhi brillarono della medesima luce. Salutò i colleghi, schivò quelli che erano arretrati per fargli spazio mentre passava in mezzo a loro, e si diresse al tavolo delle ragazze.

Da parte degli stessi pescatori che accompagnavano Massimo, soprattutto quelli più anziani, giunse qualche occhiata storta, qualche cipiglio di disapprovazione, lanciato nei riguardi di Sara. Non era una novità. Sara era l’unica ragazza del paese a indossare i pantaloni, l’unica che studiava fuori città, l’unica che di domenica non andava in chiesa, e l’unica capace di respingere certe critiche con la facilità con cui si scaccia il ronzio di una mosca fastidiosa. Valentina la ammirava e la invidiava per questo. Lei non avrebbe mai avuto il coraggio di mandare al diavolo gli adulti e di vivere come le pareva.

Massimo si sfilò il basco, sorrise a entrambe, timido e dolce come non aveva mai smesso di essere da quando era bambino. «Ragazze.»

Valentina ricambiò lo sguardo sorridente, sentendosi scaldare dalla sua semplice presenza così rassicurante. «’giorno, Massimo.»

Sara saltò con i piedi sulla seggiola, circondò le spalle di Massimo e gli schioccò un bacio sulla guancia. «Tanto lavoro, oggi?»

«Anche per te, mi sembra.» Le strofinò la punta del naso e rinnovò il piccolo sorriso. Il pollice gli rimase sporco di nero. «Sei sporca di grafite.»

«È carboncino.» Sara cedette il posto a Massimo e si accoccolò sulle sue ginocchia. Le braccia ancora avvolte alla sua spalla. «Sono passata vicino al porto, stamattina, quando sono tornata dalle lezioni, ho visto tutto quel trambusto e ho immaginato subito che stessero arrivando gli stagionali.»

«Ci stiamo ancora suddividendo per stabilire i turni.» Massimo scostò la tendina e guardò fuori dalla finestra socchiusa come aveva fatto Eros poco prima. «Probabilmente la soluzione migliore sarà quella di alternare i turni di settimana in settimana, un po’ al porto e un po’ in piazza, dato che le ricostruzioni hanno la precedenza. Stiamo già pensando di tenere qualcuno anche per la vendemmia di settembre, altrimenti sarà impossibile cominciare in tempo con tutto il lavoro che avremo da fare in paese.»

«Visto, Tina?» Sara strizzò l’occhiolino in direzione di Valentina. «Sarai fortunata. Tanti soldini in arrivo.»

Valentina si portò una mano al fianco e corrugò la fronte di nuovo incupita di malumore. «Che fai?» Ma un piccolo ghigno le solleticò l’angolo delle labbra. «Ricominciamo la solfa?»

Massimo si impensierì nel percepire quella nuvoletta di ostilità brontolare fra le due. «Mi sono perso qualcosa?»

«Oh, nulla di grave» lo tranquillizzò Sara. «Ma evita di tirare fuori il discorso del lavoro di quest’estate e anche il discorso…» Aprì una mano davanti alla guancia e accostò le labbra al suo orecchio. «Ra-gaz-zi. Tina si sta riprendendo dall’ultima brutta esperienza.»

«L’appuntamento di ieri?» Gli occhi di Massimo si avvilirono, sinceramente costernati. «Sul serio, Tina? Ma credevo…»

«Uh-uh.» Valentina scosse il capo e fece segno di cucirsi la bocca. «Non. Una. Parola. Ne ho già sentite abbastanza. Come se fosse colpa mia se tutti quelli con cui esco sono dei grandissimi…»

«Eh-ehm!» Sara tossicchiò, mettendola a tacere prima che potesse pronunciare qualcosa di inappropriato, e pareggiò tutti i fogli che aveva tappezzato di schizzi e disegni.

Massimo nascose una risatina sotto i baffi. Gli occhi, di nuovo rasserenati, gli caddero sui disegni di Sara. «Sono disegni nuovi?»

«Ah!» Sara se li premette al petto – un carboncino rimbalzò sul pavimento –, pescò una pagina che stava per svolazzare giù dal tavolo e stropicciò anche quella sotto i palmi. «No, no, no, aspetta, non guardarli ancora, questi non sono finiti.» I capelli le scivolarono sulle guance diventate della stessa tonalità di rosso, ma in fondo agli occhi si accese una scintilla di fierezza e soddisfazione. «Sto ricominciando a usare il carboncino.» Raccolse una ciocca e la pettinò dietro l’orecchio. Le gambe dondolarono su quelle di Massimo. «Era così tanto che non lo facevo, e sono un bel po’ arrugginita. Oggi a lezione ho combinato un disastro, per questo mi sono messa a esercitarmi. Quando sfumo le ombre le impasticcio senza riuscire a creare nessun vero contrasto. Vedi…» Staccò i fogli dal petto e ne posò un paio sul tavolo, indicando a Massimo il ritratto della brocca e anche quello del bassorilievo a forma di pesce-spada che aveva catturato da uno dei murali del porto. «Come in questo punto qui.»

«Sono bellissimi.» Massimo ne sfogliò un paio, attento a non spiegazzare neanche un angolino di carta. Si soffermò sul disegno composto da una spirale di delfini che sguazzavano nella schiuma di mare. Le gocce di spuma più grosse, allontanandosi dai delfini, si trasformavano in pesciolini ridenti. «Fammi vedere meglio, dai.»

«Oh, ecco, l’unico di cui posso dire di andare almeno un pochino fiera è questo.» Sara sfilò un foglio da sotto gli altri, quello su cui era raffigurato un intreccio di ancore, tutte di dimensioni diverse. Le sfumature del carboncino, alcune più chiare e altre più nitide, davano l’impressione che fossero forgiate con metalli diversi. «Vedi, ho studiato quel soggetto per il tatuaggio che avevamo programmato, anche se eri ancora indeciso fra un’ancora, o un tridente, o un arpione. Per questo sono andata al porto, stamattina, dopo le lezioni. Sto prendendo spunto dai bassorilievi che sono scolpiti sulle case e anche sui nuovi poster che hanno appeso fuori dalla pescheria. Mi sentivo un sacco ispirata.»

«Si vede» annuì Massimo. «Oggi a scuola hai imparato qualcosa di nuovo?»

«A parte che sono negata con il carboncino?» Sara rise di gusto. «Ma c’è quella nuova insegnante di ceramica che non è male, anche se io preferirei che ci programmassero più lezioni pratiche sull’anatomia e sulla paesaggistica. Oggi abbiamo provato a plasmare un vaso, o un’anfora, e ti giuro che non avrei mai creduto fosse così difficile. Al primo tentativo ho bagnato troppo l’argilla, non riuscivo proprio a farla stare in piedi, si squagliava ogni volta in cui provavo a toccarla sui bordi, e ne è uscito un obbrobrio degno di questo nome.»

Massimo sfogliò un’altra pagina, sporcandosi anche lui le dita di nero, e rimase incantato davanti al ritratto di una sirena che cullava in grembo una perla di mare. La coda ritorta in una spirale di bolle, intrecci di coralli a ingioiellarle le braccia, lunghe ciglia da cerva e creste pinnate al posto delle orecchie. «Sono sicuro che ti serve solo un po’ più tempo per fare pratica.»

«Me l’ha detto anche lei.» Sara pescò da terra il carboncino che le era caduto e lo riordinò assieme agli altri nell’astuccio di latta. «L’insegnante è stata fin troppo comprensiva, in realtà. Ha detto che il mio vasetto potrebbe essere considerato un pezzo d’arte moderna, ma secondo me era da buttare e basta. Ah!» Batté le mani, fulminata da una scossetta di entusiasmo. «Ma sai cosa mi hanno anche detto? Che a settembre…»

«Ti porto qualcosa da bere, Massimo?» Valentina diede una lucidata al tavolo, stando attenta a non umettare con lo strofinaccio i disegni di Sara, e indossò quel sorriso di circostanza che aveva imparato a sfoggiare durante le ore di lavoro. «O magari un piatto di gnocchi? Abbiamo appena messo a bollire l’acqua, e tu avrai una fame da lupi.»

Massimo scosse la testa. «Non ti preoccupare, sarai già abbastanza occupata con gli altri.»

«Ehi, ma ricorda che fa parte del suo lavoro.» Sara si strinse a lui e gli pizzicò una guancia. «Non fare troppo il gentile. Tina è già abbastanza viziata e coccolata anche senza il nostro aiuto.»

Valentina le fece la linguaccia. «Grazie del sostegno.» Con un sospiro, sbirciò a malincuore la folla che si era ammassata al bancone, i gesti con cui i pescatori inclinavano le ceste del pane già saccheggiate, e gli sguardi affamati che si tendevano verso le porte della cucina. «Vi porto subito qualcosa» disse Valentina. «Un tagliere di affettati può andare? Pane o grissini?»

Massimo strinse le spalle. «Quello che ti è più comodo andrà benissimo.»

«Per me i grissini.» Sara sventolò un braccio per aria e fece dondolare le gambe dal grembo di Massimo. «Quelli con il rosmarino e i granelli di sale grosso, grazie.»

«Agli ordini.» Valentina scivolò di un passo di lato per passare fra due tavoli senza prendersi lo spigolo nell’anca, e si diresse al bancone.

Nonostante il baccano che era crepitato fra le pareti della sala, nonostante lo stridere delle seggiole e le risate più aspre di quelli che stavano già trangugiando un bicchiere di vino dietro l’altro, le era ancora possibile tendere l’orecchio verso i mormorii dei suoi amici rimasti seduti al tavolo.

«… anche questa volta?» Massimo sospirò, sinceramente costernato. «Poverina. E pensare che era tanto contenta di uscire assieme a lui.»

«Lo so, lo so.» La voce di Sara si ridusse a un bisbiglio, ancor più flebile dello sfogliare dei disegni. «Tu non dirle niente, ma io sono già stata da lui e gli ho fatto una lavata di capo che gli farà fischiare le orecchie per un mese intero, garantito. Non si tratta così la mia Tina.»

«Vorrei poter fare qualcosa di più anch’io.»

«Non possiamo fare tanto altro, mi sa. Più di consolarla…»

«Forse Tina ha ragione» considerò Massimo. «Forse dovrebbe conoscere qualcuno anche al di fuori di Portorosso.»

«Eggià, qui mica sono tutti come te.»

Risero assieme.

«Ma quale hai detto che era la novità di settembre?» domandò Massimo.

«Ah, sì, giusto!» La voce di Sara riguadagnò il solito entusiasmo e, anche se le dava le spalle, a Valentina parve proprio di intercettare un bagliore di luce lampeggiare da quel suo sguardo che vedeva più lontano di tutti. «In pratica, mi hanno detto che a settembre una delle nostre insegnanti dovrà assentarsi per tutto il trimestre perché l’hanno chiamata per delle ristrutturazioni a Paestum, e che quindi potrò essere io a tenere qualche lezione al posto suo.»

«Quindi ti farebbero insegnare?»

«Be’, non precipitiamoci troppo. Si tratterebbe solo di un paio di lezioni, e solamente sulla ritrattistica delle nature morte, ma girano voci che potrebbe liberarsi un posto di insegnante di disegno alla scuola elementare. Cadrebbe nel periodo giusto, dato che ormai avrò dato anche gli ultimi esami di Storia dell’Arte e che quindi sarò più libera. E lo so che fare l’insegnante non è esattamente il mio sogno, però pensa a quante altre occasioni potrebbero presentarsi se cominciassi a frequentare ambienti del…»

Allontanandosi, Valentina sorrise, e fu il suo sorriso più limpido e sereno da quando era cominciata la giornata. Si consolò pensando quanto Sara e Massimo si preoccupassero per lei – sapeva che non avrebbe mai dovuto sentirsi sola, potendo contare sulla loro amicizia –, e si rallegrò sapendo che almeno loro due potevano godere di qualche gioia da condividere. Una dolce e appagante storia d’amore, anche se poco convenzionale. Un futuro luminoso, una vastità di orizzonti spalancati dinnanzi al sole della loro giovinezza, e un lavoro che entrambi amavano. Riflettendoci scrupolosamente, Valentina non aveva nulla di tutto ciò. Eppure era felice per loro. E poi, anche lei aveva un sogno da conquistare.

Una moto tutta mia…

E la moto era davvero il più glorioso dei sogni, dolce e invitante come il profumo di una crostata di mattina buonora, e piacevole come il bacio del primo sole estivo. Adesso che aveva deciso di smettere di pensare ai ragazzi e agli appuntamenti, sarebbe stato più facile concentrarsi sull’accumulare i risparmi di cui avrebbe avuto bisogno per comprarsi una motocicletta. I risparmi che sarebbe riuscita a non spendere in abbuffate di gelato, per lo meno. E in barba anche a quello che diceva papà! Valentina si sarebbe comprata una moto – magari una bella BMW, come l’ultima che Eros aveva tenuto in officina per quasi un mese –, ci sarebbe salita in sella, e sarebbe sgommata via dicendo finalmente addio a quel minuscolo e barboso paesino di pescatori nel quale si sentiva soffocare come le volte in cui indossava una camicetta troppo aderente.

Perciò al lavoro, Tina!

«Allora, signori…» Valentina si fece largo fra i clienti, aggiustò la cinta del grembiule, e trotterellò dietro il bancone. «Chi ha più fame?» Piegò la testa per non sbattere sui mestoli che pendevano da una delle mensole, dispose i primi bicchieri e sventolò gesti d’incoraggiamento verso gli uomini appollaiati sugli sgabelli. «Su le mani, su le mani.»

«Di qua!» Lo sventolio di braccia e di sguardi affamati non tardarono ad arrivare. «Per di qua, noi ci siamo seduti per primi.»

«Un giro di rosso per noi.»

«E tu berresti il rosso con il caciucco? Ti si è svitata la testa o cosa?»

«Calmi, calmi» li rabbonì Valentina. «Ora arriva tutto…» Finì di distribuire i bicchieri puliti e si destreggiò con il taccuino degli appunti per scribacchiare le ordinazioni. «Dunque abbiamo detto un giro di rosso, bianco a chi prende il pesce…»

«Tre zuppe d’orzo quaggiù!»

«Niente orzo.» Valentina scosse il capo, senza smettere di scrivere, e soffiò via una ciocca spettinata che le era cascata davanti agli occhi. «Oggi c’è solo quella di lenticchie.»

«Noi siamo ancora senza pane.»

«Qui sono finiti i grissini.»

«Tina!» Una voce più grossa la chiamò da uno dei tavoli apparecchiati sul fondo della sala, quelli allineati contro la parete decorata dalle reti da pesca e dalle stelle marine essiccate. «Tina, avete la farinata come quella dell’altro giorno? Quella con il rosmarino!»

«Io spero ci siano i ravioli, quelli col prosciutto.»

«Sì» annuì Valentina. «La farinata è fresca di stamattina.» Ma sventolò la matita in segno di diniego. «Però niente ravioli. Oggi gnocchi al ragù.» Arricciò un’espressione d’improvviso dubbiosa, si grattò la tempia con la punta della matita. «Mi sembra.» C’erano gli gnocchi o c’erano le trofie?

«Ah» sbuffò uno dei pescatori, rimettendosi seduto. «Allora anche io prendo un quarto di rosso, niente bianco.»

«Un momento, un momento.» Valentina sfogliò una pagina del taccuino. «Gnocchi e un quarto di rosso.» Ricominciò a scribacchiare una colonna dopo l’altra. Il sudore colato fra le dita sbavò le parole. «Poi tre piatti di zuppa di lenticchie…» Pensa alla moto, Tina, pensa alla moto, pensa alle mance, pensa che fra un po’ questa vita sarà solo un ricordo. «E mancavano i grissini, avete detto? Angelo!» Picchiò due volte il pugno sulla porta della cucina, aprendo uno spiraglio di luce e vapore. «Angelo, i grissini! Dov’è che abbiamo messo i grissini?»

«Sotto il bancone, Tina.» La voce di Angelo suonò ovattata attraverso la nube di fumo che sommergeva i fornelli. «Dietro le casse di acqua frizzante.»

«Ho già cercato, non li trovo!»

«E allora cerca meglio! Li ho visti stamattina.»

«Ma ti dico che non…»

«Tina, ci porti un tagliere di formaggio?»

«Formaggio e anche qualche affettato di qua!»

«Fermi, fermi…» Valentina si piegò sotto il bancone e inclinò le bottiglie d’acqua in cerca delle confezioni di grissini. «A quanti il formaggio e a quanti gli affettati?»

«Da noi solo salame.»

«A noi solo il Parmigiano per la zuppa.»

«Nel caciucco ci sono anche le vongole?»

«No» rispose Valentina. «Solo –»

Crash!

Un bicchiere cadde in frantumi, e le schegge più piccole tintinnarono fra le gambe delle seggiole e dei tavoli.

Qualcuno se la rise e applaudì, «Ecco il primo!», qualcun altro s’incazzò, «Hai le mani di burro o cosa?».

«Occhio a non tagliarti, non tirarli su così.»

«Tina, qui abbiamo un bicchiere rotto!»

Valentina grugnì uno sbuffo esasperato ed emerse da sotto il bancone. «Arrivo, arrivo.» Si mise in marcia, «Solo…», e si scontrò con Angelo appena uscito dalla cucina con in mano due scodelle di zuppa di lenticchie. Giusto in tempo. «Bicchiere rotto al Tavolo Cinque.» Valentina gli prese le scodelle dalle mani e gli fece cenno col capo. «Penso io alle zuppe.»

Angelo alzò gli occhi al soffitto. «Cominciamo bene.»

Non me ne parlare.

Valentina servì le zuppe al tavolo. Tornò al bancone, distribuì i mazzi di grissini nelle ceste, dispose il tagliere, e si mise ad affettare le ciabatte di pane tiepido e ancora croccante. E intanto già non vedeva l’ora di tornare a casa, di togliersi le scarpe, di sfilarsi le calze, di indossare una gonna più leggera e magari sdraiarsi sul letto a schiacciare un pisolino. Poi magari sgattaiolare in cucina e sgranocchiare i biscotti alle nocciole che la mamma aveva preparato il giorno prima, andare giù alla spiaggia a prendere il sole e a sguazzare a piedi nudi sul bagnasciuga. Però non era quella l’immagine su cui doveva concentrarsi per darsi forza e coraggio fino alla fine del turno.

Pensa alla moto, pensa alla moto, Tina, pensa alla moto…

Valentina strizzò le ciglia e ne visualizzò ogni componente – il telaio tubolare, le carene scintillanti, i rombi della marmitta, il sellino di pelle nuova e profumata, i suoi pugni aggrappati al manubrio di cuoio, i capelli sferzati al vento, la scia di fumo che si sarebbe ingrossata attorno alle ruote a ogni frenata, il tachimetro da spingere fino ai cento all’ora, lo squisito odore di benzina, quello dell’olio per i freni e quello della gomma bruciata.

Dall’angolo del bancone dove era seduto Eros, la raggiunsero borbottii più quieti rispetto a quelli degli altri clienti.

«Ma non mi dire che… ma no, è proprio Valentina?»

«Miseriaccia se è cresciuta.»

Un bisbiglio sussurrato al vicino. «È la figlia del meccanico, quello che ha la bottega dietro la cartoleria.»

«Io a malapena la riconoscevo. L’avrò vista l’ultima volta – quando? Due anni fa? L’ultima volta che mi sono fermato per fare la stagione.»

«Sì, ma andava ancora a scuola, oppure – no, no, ora che ci penso aveva già cominciato a lavorare in panificio.»

Qualcuno colpì Eros con una spallata e gli strizzò l’occhiolino. «Adesso avrà la fila sotto casa, eh, Eros?»

Eros alzò le mani come per difendersi, o come in segno di resa. «Ah, io di queste cose non so niente. Lei fa tutto da sola. Nemmeno con sua mamma ne parla.»

I pescatori che gli sedevano affianco si riempirono i bicchieri di vino, sgranocchiarono i pistacchi dalle ciotole, e risero scuotendo le teste.

«I giovani d’oggi…»

«E la tua bella signora come sta?» Uno di loro spaccò un pistacchio sotto il pugno. «Poi passerò a salutare anche lei. È tanto che non la vedo.»

«Oh, ultimamente la vedo un po’ infiacchita, povera anima.» Eros bevve dal suo bicchiere. Schioccò la lingua e fece oscillare quel che era avanzato del vino. «Pensavo di farle una sorpresa, magari per il suo compleanno, dato che ho qualche risparmio da parte. Magari portarla a fare un viaggio. Nulla di eccessivo, ma è da anni che non usciamo da Portorosso, e lei mi ha sempre detto che le sarebbe piaciuto visitare…»

Valentina finì di affettare il pane, ripulì tagliere e coltello e si allontanò per sviare quel discorso. Non aveva proprio alcuna voglia di sentir parlare della mamma, dato che ci aveva litigato giusto il giorno prima. Secondo lei, Valentina si era vestita male per uscire, e come al solito non si era curata abbastanza i capelli. La mamma l’aveva poi rimbeccata per essere rimasta fuori fino a tardo pomeriggio e per non aver dato una mano con le faccende di casa nemmeno dopo essere rientrata. Quella mattina, a colazione, non si erano nemmeno rivolte lo sguardo.

Tornata al lato del bancone occupato dai gruppetti degli stagionali che stavano familiarizzando con i pescatori del luogo, Valentina diede una passata con lo strofinaccio – le chiazze di vino già si stavano accumulando e seccando sul legno impolverato di briciole –, e intanto ne approfittò per tendere l’orecchio e spiare le loro chiacchierate.

«… sì, sì, tu lasciala pure quaggiù, poi stasera quando sali in camera ti sistemi con calma.»

«Ah, non lo so… avremo da lavorare almeno fino alle otto, ma dipende da come ci organizzeranno. Certe volte la mattina si comincia anche alle cinque, ma solo per la pesca. Quest’anno c’è la ristrutturazione della chiesa, non so se ti hanno già detto. Se ti mettono a lavorare qui in piazza, allora avrai orari tipo…»

«Ma sei venuto qui solo con quel bagaglio?» Uno di loro si sporse dallo sgabello per adocchiare il mucchio di borsoni ammassati ai piedi delle scale. «D’accordo che gli abiti estivi ingombrano poco, ma forse avresti dovuto aggiungere un po’ di peso.»

«Ti dico io a cosa dovrebbe aggiungere un po’ di peso: a queste braccia.» Uno dei pescatori sollevò il braccio del ragazzo che, seduto fra i due, se ne stava rintanato nella penombra. Rise e lo mostrò anche agli altri come se si fosse trattato di esibire un branzino appena estrapolato dalla rete. «Dovresti cominciare seriamente a mettere su un po’ di muscoli su queste ossa. Guarda che io non ti vengo a raccogliere se mi svieni durante il lavoro, eh.»

«Starò benissimo.» Fu questa la prima frase che Valentina gli sentì pronunciare. Uno degli stagionali – il più giovane e taciturno – si strinse nelle spalle e si rimpicciolì sullo sgabello, isolandosi dal baccano che gli crepitava attorno. «Non ho mai avuto di questi problemi, e di certo non comincerò ad averne adesso.»

Valentina inclinò la bottiglia di vino sul bicchiere che le avevano allungato, ma le bastò quell’attimo per distrarsi e volgere lo sguardo alla figura del giovane straniero. La sua era una voce rauca ma non profonda. Serbava una certa dolcezza, come una cruda cucchiaiata di miele di castagno, o un morso dato a un mandarino ancora poco maturo. Una voce così insolita. Come era insolito anche l’aspetto del giovane. La schiena ricurva, le spalle sporgenti e ossute, le braccia magroline, la camicia cadente e scolorita, sicuramente vecchia di almeno un paio di stagioni. Lo sguardo del giovane non si faceva trovare. Era fisso sul bicchiere d’acqua ancora vuoto che lui rigirava fra le dita nodose e incerottate.

Una folta massa di riccioli color cioccolato gli cadeva sulle guance dalla pelle scura su cui erano intagliati lineamenti tipici del Sud Italia. Tratti incisi che però non sembravano nemmeno maturi se accostati a quel musetto da bambino che dava l’impressione di star ancora crescendo un pezzo alla volta.

Il giovane straniero non somigliava affatto ai soliti stagionali, e nemmeno ai pescatori di Portorosso. Non sembrava nemmeno maggiorenne. Sembrava un ragazzino, uno di quelli che, appena usciti da scuola, montavano in bici per andare a rincorrersi fra i vigneti, o per andare nei campi a esercitarsi con la fionda, o per raggiungere la spiaggia e trascorrere il pomeriggio a tuffarsi dagli scogli.

Lo straniero fece tamburellare le dita incerottate sul bicchiere vuoto e alzò lo sguardo verso il soffitto. «Le camere sono quassù, vero?» Spinse un ricciolo lontano dalla fronte. Gli occhi rimasero nascosti, celati dal gesto della mano. «Dovrei andare a sistemarmi prima del lavoro di ‘sto pomeriggio.»

«Oh, ma non ti preoccupare per quello» lo rassicurò il suo compare. «Tu lascia il bagaglio ad Angelo e lui te lo fa trovare in camera entro stasera. Eccoti…» Gli allungò la cesta del pane appena affettato. «Prima piuttosto mangia qualcosa, sennò va a finire che mi svieni in mano.»

«Dov’è che hai lavorato, la scorsa stagione?»

«Ufficialmente stazionavo a Mestre» rispose il giovane. «Ma ci spostavano di continuo.» Pescò la fetta di pane più piccola, la spezzò e la smangiucchiò piano, a piccoli morsi, come un uccellino che becca. «Chioggia, Lido di Jesolo, Quarto d’Altino. Una volta al mese ci portavano persino fino a Padova.» Di nuovo spezzò la crosta di pane, ma sgranocchiò solo la mollica. «Gli altri anni però di solito lavoravo in Emilia, negli stabilimenti balneari, quelli che hanno appena cominciato a costruire. Mi avevano anche proposto di andare a lavorare nelle cave di pietra in Carnia.» Fece spallucce. «Magari nei prossimi anni…»

«Ne hai fatta di strada, eh?» Quello che gli sedeva vicino gli batté la mano sulla schiena, ma non troppo forte, come per timore di spezzargliela. «Qui ti troverai bene, anche se Portorosso non è di certo movimentata quanto Padova o quanto Rimini. Io è già la terza stagione che faccio qui.»

«Starò bene.» Il giovane straniero tirò su la spallina della camicia che gli cadeva larga. «Non ho grandi pretese.» E, scostandosi di nuovo i riccioli con una mano ossuta e bendata, per la prima volta portò gli occhi alla luce. «Mi basta avere un tetto e di che sfamarmi e sono a posto così.»

Valentina ingoiò un piccolo singhiozzo che le strappò il fiato dalla bocca. Il suo cuore batté un tonfo che propagò un caldo formicolio dal petto fino alle guance diventate di botto rosse come il vino.

Il giovane straniero aveva occhi scuri e misteriosi, profondi come il mare di notte, nebbiosi e impenetrabili come la bruma che d’inverno si innalzava dai piloni del porto. Valentina non riuscì a staccarsi da quegli occhi, dal brivido che le avevano provocato, dalla sensazione di pace e di abbandono nella quale l’avevano risucchiata. Non riuscì a farlo nemmeno quando i rigagnoli del vino che stava versando cominciarono a colarle fra le dita.

«… il merluzzo più grosso che sia mai uscito dal mare, te lo giuro» si vantò uno dei pescatori seduti al banco. «Sarà pesato almeno due ton – Tina!» Lui e i compari vicini si affrettarono ad ammassare fazzoletti e tovaglioli sulla macchia di vino che si stava dilatando sotto i bicchieri, le brocche e i piatti. «Tina, il vino! Si sta versando!»

Valentina sfarfallò le ciglia, «Co-cosa?», si riprese dallo stordimento e abbassò lo sguardo fra le sue mani. Il vino continuò a spandersi dalla bottiglia al bicchiere, sbrodolando fra le sue dita già inzuppate. «Ah!» Pure lei agguantò un canovaccio pulito e si mise a strofinare e a catturare le gocce che stavano piovigginando dal banco. «Cavoli, cavoli, cavoli…»

Gli altri la aiutarono con i tovaglioli e anche con le maniche delle camicie. Se la risero per tirarla su di morale. «Dove hai lasciato la testolina, stamattina?» le fecero. «Sul cuscino?»

Valentina sbuffò e mostrò loro una linguaccia. «La tua se l’è mangiata un mostro marino, invece.»

I pescatori risero. Angelo invece, valicata la porta della cucina, la rimproverò con un’occhiataccia. «Piano con le parole, Tina.»

«Hanno cominciato loro!»

«Ma cos’hai combinato, qui?» Angelo aiutò ad asciugare il banco e ammassò nel lavello i bicchieri e le posate sporche di vino. «Scusate, signori. Ora vi porto dei bicchieri puliti. Tina, va’ in dispensa e porta altri tovaglioli e altre posate. E cambiati il grembiule.»

E Valentina non poté fare altro che sospirare e obbedire. «Sì, subito.» Grandioso. Il turno è appena iniziato e io ho già combinato un pasticcio nonostante i propositi. Cominciamo bene sul serio. Si prospetta proprio una stagione favolosa.

Si slacciò il grembiule sporco prima che macchiasse anche la gonna. Fece per andare alla dispensa e prendere altri bicchieri puliti, altre posate, ma fu incapace di resistere, di ignorare un formicolio che era sceso a pizzicarle la nuca. Si girò un’ultima volta verso il posto occupato dal misterioso straniero, in cerca di quegli occhi così sfuggevoli.

La chiazza di vino si era allargata fino a lì. Un rigagnolo color prugna piovve dall’orlo del banco e picchiettò sullo sgabello ormai vuoto. Il misterioso straniero era scomparso.

   
 
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