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Autore: Evali    13/12/2022    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Un diamante in un mare di vetro
 
 
Il prato in cui si trovava era estesissimo.
Sembrava quasi di essere nel leggendario Eden.
Ma no, non era l’Eden.
Quello non era un Paradiso, non vi erano angeli, non vi erano dèi, o i progenitori dell’umanità.
Era un luogo umano, tangibile, reale, pieno di esseri umani imperfetti, come lei.
Judith sorrise, poggiando i palmi sull’erba morbida e tirandosi su con la testa, guardandosi intorno.
Il suo pancione era sparito.
Si tastò il ventre piatto e morbido, avvertendo uno strano senso di nostalgia.
Non la ricordava quasi più, la sensazione di non sentirsi niente dentro.
- Dove siete, bambini? – cominciò a chiedere, nonostante nessuno potesse udirla.
“Sono morta?” si ritrovò a pensare.
Improvvisamente, le si avvicinò un giovane, dai capelli folti e tanto chiari da somigliare al colore della luna.
Lo riconobbe e sgranò gli occhi. – Folker…? – gli domandò, confusa. – Allora sono morta davvero?
Il ragazzo le si accovacciò dinnanzi, poggiando gli avambracci alle ginocchia, e il mento sulle braccia.
Le sorrise e, nel farlo, illuminò tutto quanto.
Judith si rese conto che non avevano avuto modo di dirsi addio, loro due: quando lui si era tolto la vita, Judith non aveva ancora riacquisito i suoi ricordi. Era pressocché uno sconosciuto per lei.
Ora, invece, ricordava.
Ricordava di averlo convinto a confessare qualcosa che non doveva confessare, qualcosa che non era.
Ricordava di averlo costretto a fidarsi di lei.
E lui lo aveva fatto.
Pagandone amaramente le conseguenze.
Un intenso senso di colpa le risalì lungo la gola, mentre lo guardava. – Mi dispiace – gli disse. – Mi dispiace tanto.
Folker, di contro, alzò le spalle, come incurante. – Non fa niente – poi spostò gli occhi di giada altrove. - Guarda com’è bello qui… - sussurrò, con voce leggera come il vento.
Judith seguì la traiettoria di quegli occhi e osservò il prato esteso a sua volta. – Dove siamo?
- Tu dove vorresti essere? – le domandò lui.
- In un luogo lontano da Bliaint.
Ma dove sono i miei bambini?
- E i tuoi progetti?
- Non mi importa più dei miei progetti.
Voglio solo andarmene.
Non mi hai detto dove sono i miei gemelli.
Folker si sedette accanto a lei. – Ero una brutta persona. Me lo dicevano spesso, quando ero ancora tra i vivi – riprese il ragazzo. – Dicevano che ero tanto bello fuori, quanto brutto dentro. Irascibile, aggressivo, egoista, maleducato. Ho avuto quello che mi meritavo, alla fine.
Judith guardò il suo profilo, provando un’intensa esigenza di portarlo su un luogo ancora più bello di quello, un luogo bello quanto erano belli il cielo, e il famoso mare che non aveva mai visto.
E che mai avrebbe visto.
Le venne voglia di vedere il mare, improvvisamente.
- Non viviamo perché meritiamo di vivere – gli rispose. – Viviamo perché siamo nati. Siamo nati e basta. Ciò che decidiamo di fare con la nostra vita sta a noi.
- Si piange la morte di chi merita di vivere. Non si piange quella di chi non meritava niente.
- Si piange la morte di chiunque si ami, indistintamente – replicò la ragazza. – E tu eri amato. Sei amato. Nonostante tu abbia creduto di non esserlo, nonostante abbiano provato a farti credere di non esserlo… tu sei amato.
Folker si voltò verso di lei, a guardarla. – Non bisogna guadagnarsi la vita, dunque?
- Che tu sia una brutta persona o una bella persona, non importa.
La vita non va guadagnata. Nessuno riesce a comprendere questo, nemmeno io.
Lo dico, lo credo… ma non lo comprendo mai.
Però posso comprendere che non si può scegliere chi amare.
- Nessuno giudica, nessuno merita. Così dovrebbe essere – rispose lui.
- Te ne sei andato troppo presto. Quattordici anni sono pochi, Folker.
- Per quale motivo sarei dovuto rimanere?
Per guardare la rovina del nostro villaggio?
O peggio: per rimanere nel nostro villaggio e continuare a viverci dentro, come è sempre stato?
- Hai ragione.
Ammiro il tuo coraggio.
Non è da tutti scegliere di sfidare le norme dei due signori, di rischiare di finire nell’aldilà ed essere odiato da entrambi perché si è commesso un tale atto di disprezzo nei confronti della vita.
Egli sorrise ancora, genuinamente. – Quattordici anni non sono pochi, Judith. Ho capito tutto quello che dovevo capire in quattordici anni.
- Se non fossimo nati a Bliaint le cose non sarebbero andate in questo modo – disse lei, chiudendo gli occhi.
“Blake aveva ragione…
Ha sempre avuto ragione…
Me ne sarei dovuta andare quando ero in tempo per farlo.
Sarei dovuta fuggire. Con lui.”
E mentre pensava tutto ciò, lo scenario mutò: quando riaprì gli occhi, si ritrovò in quel maledetto bosco fitto, al chiaro di luna.
Blake la guardava a distanza, gli occhi di un dio caduto. – Che cos’hai fatto…? – le domandò in un fil di voce. – Che cos’hai fatto, Judith?
“Ho sbagliato” avrebbe voluto dirgli.
“Ho sbagliato, in tutto.
Ho sbagliato persino quando, a sei anni, dopo aver ammazzato quel porco, ho trovato rifugio tra le braccia di bestie crudeli quanto lui, mascherate da padri, madri e benefattori.
Ho rovinato il nostro progetto.
Ho rovinato te.
Se ho davvero una strana bestia dentro… non c’è dubbio che Bliaint l’abbia scatenata.
Forse, se avessimo vissuto lontani da qui…”
Judith gli si avvicinò, mentre si ripeteva mentalmente tutto ciò.
E mentre avanzava verso di lui, lo scenario mutava ancora, mutava sempre.
Eppure Blake era ancora lì.  A guardarla a distanza, con un’espressione diversa ora.
Judith avrebbe voluto dirgli che poteva piangere, che doveva piangere.
Ma non gli disse nulla. Gli si avvicinò, e quando gli fu dinnanzi gli prese le mani e alzò la testa per guardarlo. – Ho deciso che voglio venire con te. Voglio scappare via.
- E dove vuoi andare? – le domandò lui, con sguardo calmo, sereno, la voce calda e rassicurante che usava quando sussurrava alle sue orecchie di prima mattina, svegliandola nel migliore dei modi. Amava la sua voce.
- Lontano. Voglio solcare l’oceano. Visitare luoghi che non ho mai visto, completamente diversi da Bliaint.
Voglio andare dove nessuno sa chi siamo.
Voglio andare dove non siamo servi del Diavolo.
Voglio andare dove i miei bambini potranno vivere bene, anche senza di me.
Voglio andare dove tu vuoi andare.
Blake le sorrise, con quel suo sorrisino a metà, che possedeva l’eco di un dolce ghigno. - Smielata.
Judith sorrise in risposta, e poi rise, ad alta voce, tanto era felice.
- E quali saranno i nostri nuovi nomi? – le domandò il suo amore.
- Saranno i nostri primi nomi.
Even e Arley.
- Bene. Allora andiamo.
- Andiamo via ora?
- Sì, andiamo via ora – le disse lui, abbassandosi su di lei e sfiorandole le labbra carnose con il suo fiato caldo. – Dimentichiamo tutto.
Judith si sporse e le fece proprie, quelle labbra belle e morbide, che avrebbe divorato di morsi fino all’indomani mattina.
Fu un bacio che aveva davvero il sapore dell’ultimo.
Un bacio che le fece tremare il cuore per un miliardo di ragioni diverse.
Senza l’impedimento del pancione, ora poteva finalmente sentirselo tutto addosso, come se non sapesse più dove finisse lei e dove iniziasse lui.
Fece un salto e gli salì in braccio, circondando i suoi fianchi con le gambe.
Blake la abbracciò e la tenne ancorata a sé, stringendole la schiena; e lei fece altrettanto, gli circondò le spalle, gli strinse i capelli e approfondì il bacio, non stancandosi mai, mai di assaporare il suo sapore, il suo calore, la sua essenza.
Tutto era familiare.
Qualsiasi cosa di lui.
Persino la velocità con cui batteva il suo cuore. Un cuore che ora batteva anche sul petto di Judith, sovrapponendosi al suo, tanto erano vicini.
Non importava quanto fosse anaffettivo, Blake riusciva sempre a dimostrarle quanto lei fosse importante, quanto fosse felice nell’averla accanto e addosso.
Blake si staccò dalle sue labbra con un lungo sospiro, poi fece qualcosa di inaspettato: le diede un lento bacio sulla guancia morbida, poi sull’altra, come avrebbe fatto con una bambina.
Ciò non fece altro che animare ancor di più il fuoco che ella aveva dentro.
Ricambiò, dandogli due baci sulle palpebre chiuse.
- Sei pronta per andare? – le domandò lui.
- L’amore che provo per te è troppo grande – rispose lei. – Non posso perdonarmi quello che ti ho fatto.
- Non esiste un amore grande e un amore piccolo – replicò il ragazzo, guardandola con occhi pieni di dolcezza e di devozione. – Esiste solo l’amore. Se è piccolo non è amore. Non puoi amarmi troppo.
- Sei tu… - realizzò improvvisamente Judith, carezzandogli i capelli, piena di lui, e al contempo mai sazia.
Blake la guardò spaesato. – Che cosa?
- Il diamante in un mare di vetro.
Sei tu.
Non appena disse ciò, lo scenario cambiò ancora e Blake le svanì via dalle braccia.
Si ritrovò di nuovo in quel meraviglioso giardino, in mezzo ad una radura.
Stavolta, però, non era con Folker: a qualche metro da lei, si trovavano tre bambini, alti uguali, voltati di spalle, intenti ad osservare l’oceano. L’immenso mare, che Judith non avrebbe mai veduto.
Il vento salino scompigliava i loro capelli, ugualmente lunghi: ai lati, le due bambine avevano i capelli rossi come le fiamme; in mezzo a loro, un bambino con i capelli neri corvini.
“- Sono due femmine e un maschio.
- Vi avevo detto che non volevo saperlo!
- Non volete tenervene neanche uno?
- Che senso avrebbe?
- Per una madre avrebbe senso.
- Io non sono una madre. Non voglio nessuno dei tre. Cosa vorreste incoraggiarmi a fare? A prendere con me l’unico maschio?
- No! Non il maschio. Quello lo voglio io.
- Avevate detto di non amare la compagnia degli uomini.
- Difatti è così. Eccezion fatta per gli uomini che posso crescere interamente io.
- Dunque abbiamo un accordo?”

Judith camminò verso di loro, sentendo il proprio ventre vuoto reclamare la loro presenza.
“Non dovrebbero essere già fuori…
Dovrebbero essere ancora dentro.
Dovrei partorirli, prima.”
Era come se il proprio ventre se li volesse rinfilare dentro.
Come se il suo corpo la stesse spingendo a mangiarseli, per ingoiarli e rimetterseli dentro, dove avrebbero dovuto essere.
“Lo siete anche voi.
Anche voi siete diamanti… in un mare di vetro”
Si fermò, prima di raggiungerli.
Non li richiamò.
Non sapeva come chiamarli.
Non aveva pensato ai nomi, eccetto che per…
- Maren! – chiamò l’unico nome che conosceva, l’unico nome che aveva pensato Blake, al suo posto.
All’udire tal nome, si voltarono tutti e tre.
Ma prima che potesse vedere i loro volti… Judith si svegliò da quel lucido sogno.
Si trovava dentro la sua stanza, priva di forze, il corpo stremato da una serie di falsi travagli che l’avevano colpita negli ultimi giorni, costringendola a letto.
Quasi cinque giorni, trascorsi immersa nel proprio sudore, lavata, servita e riverita, immobile a letto.
Sette giorni dal matrimonio di Hinedia e Naren.
Un matrimonio che si era guadagnato a pieni voti il titolo di “maledetto”, surclassando il famoso matrimonio di nove mesi prima.
Judith fece ricadere la testa colma di capelli scarmigliati sul cuscino bianco, ansimando lievemente.
Il pancione enorme era di nuovo al suo posto ora, più presente e ingombrante che mai.
Qualcuno bussò alla porta.
- Judith, cara – la voce carezzevole di padre Petrit la raggiunse dalla soglia. – C’è padre Craig qui per te. Vuole vederti.
- Fallo entrare… - gli diede il permesso la ragazza, ancora col fiatone.
- Tutto bene, cara? Vuoi che ti porti qualcosa? – le domandò preoccupato il monaco.
- Sto bene – lo zittì bruscamente lei, attendendo che il suo più caro amico, nonché l’uomo più buono e fedele che conoscesse, facesse la sua comparsa dalla porta.
A padre Craig erano cresciuti i capelli, in quei nove mesi, si rese conto Judith in ritardo: ora li portava legati in un codino basso. In più, in quella settimana si era lasciato crescere lievemente anche la barba, che era più che altro peluria rossiccia sul mento, sulle mascelle e sulle guance.
Sembrava stranamente più giovane, grazie a questi piccoli particolari.
Più giovane, nonostante l’espressione sul suo viso suggerisse che avesse vissuto cento anni, racchiusi in un anno.
L’uomo, che oramai aveva abbandonato completamente la tonaca, entrò nella stanza e si richiuse la porta dietro di sé.
Si avvicinò con una sedia al letto della ragazza, e si accomodò.
Il modo in cui esordì, dopo una settimana di silenzio, Judith non se lo sarebbe mai aspettato:
- Secondo le predizioni di Ephram, Ruben arriverà qui con le truppe entro una settimana massimo.
Tu entro una settimana partorirai… avrai i gemelli, e al contempo la salvezza garantita per Bliaint. È il massimo a cui avremmo mai potuto sperare. Non credi? – concluse quel pensiero alzando lo sguardo su di lei, rivolgendole un sorriso dolce, innamorato, e al contempo impietosito. – Come ti senti?
- Sento che i bambini vogliono uscire… - esordì lei, invece. – Che non ce la fanno più a lottare per il poco spazio che c’è a disposizione lì dentro. Sono grossi, ingombranti, il che è un bene perché sono in salute – disse poggiandosi una mano sul pancione enorme, coperto dalla vestaglia larga e bianca.
Padre Craig poggiò una mano sul suo pancione a sua volta, e li avvertì subito scalciare.
Sorrise lievemente, senza ritirare la mano. – Vorrei tanto vederli…
- Li vedrai. Presto. Se si decideranno ad uscire, senza ammazzarmi prima.
- No, non li vedrò, purtroppo – le rispose, confondendola non poco.
- Che cosa intendi?
Padre Craig abbassò lo sguardo. Fece passare diversi minuti, senza dire niente, respirando solo l’aria stantia che c’era in quella stanza. Poi, le prese la mano e la strinse nella sua. – Me ne vado.
Quelle tre parole furono in grado di stordire Judith più del sogno da cui si era appena risvegliata.
Come se le colonne portanti dell’universo stessero improvvisamente tremando, fossero divenute pericolanti.
- Che cosa vuol dire che te ne vai…? Te ne vai a fare una passeggiata di qualche giorno, fuori di qui, per farti una gita fuoriporta?
Padre Craig sorrise amaro, con una tristezza talmente evidente e ingombrante, da paralizzarla al solo guardarlo. – No. Me ne vado per sempre. Da Bliaint. Ho deciso di tornare nel mio villaggio natio, ad Armelle.
- Dopo tutto questo tempo… hai deciso di tornare ad Armelle? – gli domandò costernata.
- Prima o poi sarebbe dovuto succedere. No?
Sarei dovuto tornare già diversi mesi fa.
- Invece sei rimasto.
- Invece sono rimasto.
- Dunque, ora non ha più senso tornare indietro. Per quale motivo vuoi lasciarci?
Sì, le cose andavano chiamate con i loro veri nomi: Craig non voleva tornarsene ad Armelle, non c’era nulla che lo legava ad Armelle. Craig voleva lasciarli.
Poi, un moto di realizzazione colpì in pieno la fanciulla, la quale scostò involontariamente la mano da quella dell’amico.
- Giusto. Che domande.
Dovrebbe essermi stato già chiaro.
È per quello che è accaduto nove mesi fa, non è vero? Aver scoperto cosa è successo… è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Non sei più tu da quando sei qui, ma sembravi averlo pienamente accettato.
- Quella notte io vi ho fatto del male.
A tutti e due.
Questo non potrò mai e poi mai perdonarmelo.
- Tra tutti quelli che ci hanno toccato quella notte… tu sei l’unico che non ci ha fatto del male.
Tali parole ebbero il potere di lasciare l’uomo boccheggiante.
- Craig..? – lo richiamò la ragazza, per la prima volta senza l’appellativo sacro.
Lo richiamò come se volesse attirare la sua attenzione, come se non la stesse già guardando, quando, in realtà, la sua attenzione era già tutta per lei.
- Sì?
- Tu non mi hai perdonata, per quello che gli  ho fatto quella notte, vero? – domandò, percependo i propri occhi già lucidi, come succedeva ogni volta che ci ripensava.
Che ripensava a tutto il male che aveva fatto all’uomo che amava.
Craig resse il suo sguardo, fissandola dritta negli occhi. – No, non ti ho perdonata – confermò, ma non attese un secondo per aggiungere altro: - Ma al cuor non posso comandare. Lo sai.
Detto ciò, le strinse di nuovo la mano.
- Io ti amo, Arley Judith.
Non posso fare nulla per evitarlo.
Posso non perdonarti, ma continuarti comunque ad amare.
Ho scoperto questo.
Judith gli strinse la mano a sua volta, trattenendo le lacrime, ricacciandole selvaggiamente indietro.
Basta piangere.
Era stanca di piangere.
Avrebbe dovuto conservare le lacrime rimastele per il parto. Lì ce ne sarebbero volute in abbondanza.
Eppure, Craig era una delle poche persone al mondo che si meritavano le sue lacrime.
Perciò le lasciò andare. Per lui.
Non appena la vide piangere, l’uomo gliele asciugò tutte, passandole le dita delicatissime sulle guance.
- Mi dici che mi ami perchè non riesci a dirlo a lui? – gli domandò lei. – Sei riuscito a dirlo anche a lui?
Come immaginava, Craig rimase in silenzio, un silenzio che non significava affatto assenso, ma tutt’altro.
- Dovresti dirglielo. Prima di andartene. Merita di saperlo.
- Non posso, Judith.
Non posso.
- Perché?
- Perché ho vanificato e sminuito tutto quello che provo chiamandolo “desiderio”, davanti a lui; facendolo sentire un blando pezzo di carne, esattamente come l’avete fatto sentire tu e Naren quella notte.
Perché non servirebbe a nulla.
E perché sono stanco.
Judith comprese che, in quel momento, l’uomo le stesse esponendo le motivazioni per cui aveva deciso definitivamente di andarsene, di lasciarli.
- Bliaint è al sicuro, ormai.
I soldati del conte non si sono ancora mossi da Carbrey. Probabilmente il piano di Quaglia ha funzionato davvero.
- Bliaint non è mai al sicuro - contestò lei. - Non trovare una scusa, non cercare di ripeterti questo, per sentirti meglio. Se te ne vuoi andare, vai, nessuno te lo impedirà. Ma dimmi la verità, dimmi che lo stai facendo per te stesso. Sarebbe anche ora che tu pensassi a te stesso, amico mio, dopo una vita intera che hai trascorso a pensare prima al bene degli altri.
Craig le sorrise, pieno di affetto, di malinconia, di adorazione. - Non so neanche se avrò la forza di salutarlo.
- Se te ne andrai via senza salutarlo, te ne pentirai per il resto della tua vita.
Craig accolse il prezioso consiglio e si calò su di lei, lasciandole un dolce bacio sulla fronte.
Un bacio d’addio.
- Non ti dimenticherò, Arley Judith.
Ti terrò sempre stretta al cuore.
- Neanche io ti dimenticherò mai.
 
 
Tornato a casa, Craig, con i sacchi già pronti per il viaggio, decise di affrontare Blake e Quaglia a viso aperto.
Ioan dormiva, e sperò che continuasse così: meglio risparmiargli un ennesimo pianto.
Di Heloisa, invece, non vi era traccia da una settimana.
Non l’avevano cercata quanto avrebbero dovuto, Blake neanche.
Erano accaduti troppi eventi, troppo scompiglio, la tensione e la preoccupazione per la delicata situazione in cui Bliaint versava aveva tenuto la loro mente sin troppo occupata.
Blake si ripeteva che fosse scappata, magari in cerca della cugina, e che sarebbe tornata presto.
Ioan non chiedeva mai di lei. Al contrario, talvolta pronunciava il nome del padre, nel sonno.
Craig prese il suo sacco e lo poggiò sopra il tavolo, appena dopo aver comunicato loro l’angusta e inaspettata notizia.
- Mi sono fatto prelevare diverse quantità di sangue in questa ultima settimana, mi ha aiutato il medico – esordì, guardando Blake. – Il mio sangue è ben conservato. Ioan potrà usufruirne per terminare il ciclo, come gli scritti dicono, a intervalli regolari, come è stato finora. Non vi sarà alcun bisogno della mia presenza qui – notificò. Aveva pensato a tutto, ovviamente: non avrebbe mai e poi mai lasciato Ioan senza la sua fonte primaria di salute e guarigione. Al ragazzino, che oramai considerava come un fratellino a sua volta, il suo sangue serviva ancora, e lui glielo avrebbe concesso e donato volentieri. La salute di Ioan veniva prima del suo egoismo, della sua esigenza di distaccarsi da tutto quello, da quella che oramai era diventata la sua vita.
Blake non ebbe nulla da dire a riguardo, mentre Quaglia cercava di spiccicare parola, ma senza successo, a causa dello sbigottimento amaro che lo aveva colpito.
Dunque, Craig continuò: - Mi sono permesso di prendere le provviste che ho trovato nella dispensa, per il viaggio che mi attenderà: frutta, verdure, pagnotte.
- Quindi te ne vai davvero…? Fai sul serio?? – arrivò l’attesa replica di Quaglia, il quale aveva allargato le braccia, e lo guardava con sguardo contrito, ferito, e al contempo tremendamente dispiaciuto e sbigottito.
Gli sarebbe mancato anche lui. Molto.
Quaglia si era sempre dimostrato un vero amico.
Lo aveva sempre sostenuto e aveva mantenuto il suo segreto sempre, senza battere ciglio.
Era leale, coraggioso, intelligente, affidabile.
Craig gli sorrise e si avvicinò a lui. – Vieni qui – lo incoraggiò, allargando le braccia.
A ciò, Quaglia, fintamente stizzito, fintamente sostenuto e offeso, alla fine cedette alle emozioni che lo stavano pervadendo all’idea di non rivedere mai più uno degli uomini che stimava e apprezzava di più al mondo: lo abbracciò stretto e si lasciò abbracciare.
Non avrebbe usato lo stesso calore neanche nel salutare un fratello.
- È stato un onore conoscerti, amico mio – gli sussurrò all’orecchio, facendogli scaldare il cuore e salire le lacrime ai lati degli occhi.
- Anche per me… abbi cura di te, Quaglia. Saluta Ruben per me e fa’ pace con lui. Meriti di essere felice.
- Tu sei quello che lo merita più di tutti.
Non temere, ad ogni modo: avrò cura di lui. E ne avrò anche di Judith, per quanto mi sarà possibile.
Rimarrò al loro fianco, fino alla fine.
Padre Craig trattenne un singhiozzo di gioia e tristezza misti insieme, e affondò il volto nella sua spalla, per poi distaccarsi dall’abbraccio strappalacrime.
Poi, Quaglia si voltò verso Blake, e di nuovo verso di lui. – Vi lascio soli – disse discretamente, capendo ci fosse bisogno anche di quello.
Uscì di casa, facendo calare il silenzio tra i due interessati.
Craig restò per un po’ a fissare la porta da cui era appena uscito l’amico.
Poi, si voltò a guardare Blake, il quale era rimasto nella posizione precedente, con il fondoschiena appoggiato al bordo del tavolo, le mani distrattamente aggrappate allo stesso.
Fu proprio il ragazzo a rompere il ghiaccio:
- Credevo non te ne saresti mai andato.
Il duplice significato contenuto in quella frase giunse alle orecchie di Craig. Ma l’insicurezza che l’aveva sempre caratterizzato gliene fece percepire distintamente solo uno.
- Hai fatto di tutto per farmi capire che me ne sarei dovuto andare – rispose scherzosamente, rendendosi conto che il suo tono non fosse apparso affatto scherzoso. – Beh, ora lo sto facendo.
Non ne sei contento?
Blake incassò il colpo e abbassò lo sguardo, accennando un aspro sorriso. – Hai ragione – ammise.
Poi alzò lo sguardo.
Non gli pose nessuna domanda.
Né perché lo stesse facendo, né perché proprio ora.
Era come se già sapesse, se già capisse.
Padre Craig continuò ad osservarlo, scrutandolo.
Si prese il suo tempo per farlo, dato che era l’ultima volta che ne aveva l’occasione e la fortuna.
Ripercorse tutto ciò che amava di lui, dai dettagli più superficiali, estetici, nonché tutto quanto; fino alle caratteristiche invisibili all’occhio, quelle che erano precluse a chiunque non lo conoscesse.
Si beò della sua postura, del suo sguardo, del modo in cui arricciava il naso quando qualche ciocca di capelli sfuggita dalla costrizione gli solleticava il collo.
Poi, la sua voce improvvisa lo riscosse dalla contemplazione:
- Io sono qui, ora.
Sono qui.
Sono fatto di carne, sangue e ossa.
Non sono un rimorso, un rammarico, non sono l’immagine astratta della tua colpa.
Non rappresento il tuo peccato. Forse non hai fatto altro che vedermi così, per mesi: come la personificazione del tuo peccato, del tuo allontanamento da dio.
Ma io non sono questo.
Io posso ascoltare. Anche se non ti ho mai incoraggiato ad aprirti con me, tutt’altro…
Non sono un’entità da proteggere, una meta a cui aspirare, né una figura intoccabile, da non macchiare, non plagiare, non guardare.
Io non rappresento il proibito.
Forse mi hai sempre visto solo così, e io ho contribuito, non volendo, a fartelo credere.
Ma ora voglio che, per una volta, tu mi guardi per come sono davvero: un ragazzo di diciassette anni, che deve ancora imparare a vivere, ad affrontare il mondo; che sbaglia, continuamente, e che non deve essere posto su un piedistallo.
Uno stolto che non è superiore a nessuno, uno stupido sovversivo che cerca solo di trovare il suo posto in una vita che sente non appartenergli.
Guardami per quello che sono, per la prima volta – terminò, catalizzando tutta la totale attenzione dell’uomo su di sé.
Craig aveva finito le parole.
Aveva finito le lacrime, così come aveva finito le reazioni da manifestare.
Lo guardava semplicemente, come lo aveva sempre guardato, come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto.
Perché lo era, lo era davvero.
E fu come se Blake se ne rendesse conto, per la prima volta.
E capisse, capisse finalmente, di essere oggetto di un amore talmente estremo, talmente incommensurabile, talmente distruttivo e incontenibile, da meritare un posto negli scritti storici.
Padre Craig avrebbe voluto dirgli che no, non poteva guardarlo come lui gli aveva chiesto di guardarlo.
Sarebbe stato impossibile per lui. Perché il suo amore filtrava tutto, qualsiasi cosa, e lo rendeva qualcosa di completamente diverso ai suoi occhi.
Invece, Blake, di contro, era riuscito a vederlo per la prima volta per quello che era.
Vorrei che tu ti vedessi come ti vedo io.
Anche solo una volta.
E capiresti.
Eppure, Blake aveva ragione: era fatto di carne e sangue.
Era reale, lì davanti a lui, tangibile. Ciò voleva dire che poteva toccarlo, che poteva dirgli tutto ciò che avrebbe voluto dirgli da mesi e mesi, e lui avrebbe ascoltato.
Forse non era troppo tardi.
Se ne convinse maggiormente nel momento in cui il ragazzo distaccò il corpo dal tavolo e fece un solo passo verso di lui, con uno sguardo che non aveva mai avuto:
- Se devi dirmi qualcosa… dimmela ora.
Dimmela ora, o non potrai farlo mai più.
In seguito a quelle parole, Craig tremò come non aveva mai tremato prima.
No, ormai era deciso a partire.
Era deciso a partire, e, per una volta, doveva pensare a se stesso.
Non agli altri, solo a se stesso.
Se gli avesse confessato tutto in quel momento… probabilmente non sarebbe più riuscito ad andarsene.
Tutti i suoi sforzi di distaccarsi da quel giovane uomo che calamitava tutta la sua esistenza su di lui, sarebbero stati vani.
Per questo, decise di commettere l’ennesimo e peggiore sbaglio della sua vita:
- Non devo dirti nulla.
A tali parole, Blake non manifestò né delusione, né risentimento, né sgomento.
Accettò la sua risposta con rispetto.
Dopo di che, fece qualcosa che fece paralizzare Craig sul posto:
Si avvicinò a lui, sempre più, fino a quando non ci fu neanche un passo a dividerli.
Sapeva quanto Blake odiasse i contatti fisici, specialmente se non richiesti o improvvisi.
Sapeva bene quanto gli costasse fatica farsi accarezzare o abbracciare.
Sapeva tutto ciò. Per tale motivo rimase ancor più impietrito quando il ragazzo si sporse verso di lui e lo abbracciò.
Un semplice abbraccio, un semplice contatto che nel loro caso divenne qualcosa dalla potenza inimmaginabile.
Craig, che era sempre stato più basso di lui, si ritrovò il viso premuto contro la sua clavicola, sui suoi vestiti puliti, e le mani del ragazzo che gli circondavano le spalle.
Rimase immobile, incapace di muovere un muscolo, di ragionare o pensare, per quasi un minuto intero.
Poi, la possibilità che Blake sciogliesse l’abbraccio da un momento all’altro diventò più temibile della morte, e ciò servì a riportarlo alla realtà.
Risvegliatosi, si godette ogni sensazione, liberò ogni emozione e immagazzinò tutto nella mente, a fuoco:
Inspirò il suo profumo amato, affondando maggiormente il viso sulla sua clavicola, per poi circondargli discretamente i fianchi, ricambiando l’abbraccio.
All’inizio lo toccò timidamente. La consapevolezza di ciò che aveva fatto quella notte, sommata al terrore irrazionale e insito in lui da sempre, di toccarlo, di sfiorarlo persino, lo trattennero.
Poi si ricordò che quella fosse la prima, ma anche l’ultima volta.
Quell’unica consapevolezza gli permise di mandare all’aria ogni remore, e di circondare il busto e i fianchi del ragazzo con necessità cieca, con forza e disperazione, stringendo la sua carne sotto le dita, ancorandosi a lui.
Non seppe quanto durò quell’abbraccio.
Probabilmente troppo poco.
Quando Blake si staccò da lui, Craig iniziò a sentire un freddo innaturale, laddove la figura calda del ragazzo non comprimeva più il suo corpo. – Addio – gli disse egli, indietreggiando.
- Addio, Blake.
Addio…
 
 
Non appena le venne detto che all’interno della cattedrale del Diavolo, nella navata principale, vi fosse un’unica persona, seduta davanti all’altare, Myriam percepì  di chi si trattasse.
Era come se avesse sempre avuto un sesto senso, verso i movimenti che lui faceva, verso tutta la sua persona in generale.
Anche quando era bambino riusciva sempre a capire dove si trovasse, a distanza, e a non perderlo mai di vista.
Uscì dalla sua stanza e scese le scalinate in fretta.
Lo trovò seduto su una sedia, davanti all’altare. Lo sguardo perso e distante.
Myriam gli si avvicinò cautamente, prendendo posto accanto a lui e fissando gli occhi sull’altare a sua volta.
Era una vita che Blake non metteva piede in quella cattedrale, ma, soprattutto, era una vita che non vi entrava per sedersi e pregare.
Eppure, era certa che il ragazzo non stesse pregando.
Forse era giunto lì con tutti i buoni propositi di farlo, di provarci, ma poi non ci era riuscito.
La sua natura, che urlava ai quattro venti di non credere in alcun dio, aveva prevalso su tutto.
Oramai anche i monaci se ne erano accorti.
- Stavo venendo a cercarti – gli disse il vero. – Volevo parlarti – proseguì, continuando a guardare avanti a sé e a lanciare qualche sguardo sulle balconate di tanto in tanto, per accertarsi non vi fossero orecchie indiscrete ad udirli.
Blake non si smosse. – Sai dove si trova mia madre?
Tale domanda fece totalmente irrigidire la strega.
- Perché dovrei saperlo…? – replicò, lievemente sulla difensiva.
- Perché tu sai sempre tutto.
Volevo capire se sapessi qualcosa.
È scappata via? – le domandò, come se fosse oramai certo che la propria teoria fosse corretta.
Non aveva neanche idea di quanto si sbagliasse.
- Se credi sia scappata, allora sarà così – mentirgli non le era mai piaciuto, ma lo aveva comunque fatto diverse volte, a fin di bene. E anche ora, tale menzogna l’avrebbe salvato da una sofferenza innecessaria. E avrebbe salvato lei dall’ira e dal disprezzo del ragazzo.
- Padre Craig se ne è appena andato. È tornato ad Armelle.
- Lo dici come se una parte di te non fosse più qui.
- Perché volevi parlarmi? – domandò poi Blake, cambiando ancora discorso.
- Ho organizzato tutto.
- Cosa hai organizzato…?
- La tua fuga.
A ciò, Blake si voltò finalmente a guardarla.
- C’è una nave che vi aspetta al porto più vicino, a poco più di un giorno di cammino da qui – continuò Myriam. – Ho pensato a tutto: stanno aspettando voi, te e tuo fratello. Hai detto che te ne saresti andato solo con lui, giusto?
- È stato Ephram a dirtelo?
- Non serve che Ephram mi dica cose che già so.
L’avrei fatto comunque e, se fosse stato necessario, ti avrei costretto a partire, con le buone o con le cattive.
Tale frase fece sorridere lievemente il ragazzo, alleggerendo, anche se di poco, l’atmosfera.
- Prendi le tue cose, provviste per il viaggio, vestiti nuovi, e nascondi quell’opale sotto la maglia.
Parti oggi stesso, Blake.
- La nave ci aspetterà anche se dovessimo tardare?
- Sì, ma non rimarrà lì per più di qualche giorno.
- Come fai ad avere tali conoscenze? Anche i marinai ora sono in debito con te?
- Non fare domande.
Prendi le tue cose, prendi tuo fratello e vai, Blake.
- Perché hai tanta urgenza?
- Perché i monaci stanno solo attendendo che Judith entri in travaglio e abbassi la guardia per bruciarti su quel soppalco! - gli diede tale rivelazione voltandosi a guardarlo, con una paura e un’urgenza negli occhi, che Blake non le aveva mai visto.
Un terrore che spaventò anche lui.
- Se dovesse accaderti qualcosa, Blake, la mia vita non avrebbe più alcun senso.
Lo sai bene.
Li ho sentiti parlare, più volte, riguardo al fatto che i soldati del conte Agloveil siano partiti da Carbrey, e siano diretti qui.
Arriveranno nel giro di qualche giorno.
- Ma l’esercito del figlio di Quaglia sarà qui entro qualche giorno.
- Non sappiamo se arriveranno in tempo…!
Potrebbero arrivare prima i soldati del conte.
Nel villaggio gira tale voce, ma nessuno sembra crederci davvero.
I monaci ci credono, ed Ephram… Ephram lo ha visto.
Ma non lo ha detto a nessuno, per non seminare il panico.
Ma io l’ho visto. Ho visto il panico nei suoi occhi.
Abbiamo fatto tutto il possibile, tutto il necessario per proteggere il nostro villaggio.
Abbiamo pregato dèi, spiriti, qualsiasi entità immaginabile.
Ora siamo nelle mani dei due signori.
Ma io non posso affidarmi ai due signori per proteggerti, Blake.
Sei in pericolo sotto ogni punto di vista: i monaci vogliono ucciderti sia per non lasciarti ai soldati, sia perché stanno aspettando di ucciderti da mesi, ma non lo stanno facendo esclusivamente per non far soffrire Judith; in più, quando i soldati saranno qui, se per miracolo sarai ancora vivo, ti prenderanno loro. Devi andartene. Il più in fretta possibile. Quando Judith sarà troppo presa dal suo dolore per il parto… temo che ne approfitteranno per imprigionarti e giustiziarti.
- Serve un’accusa concreta per giustiziarmi.
- Ne hanno sin troppe, e anche se non le avessero, se le inventerebbero – detto ciò, tirò fuori un anello e glielo posò tra le mani. – Tieni. È un anello magico di tracciamento. Così potremo metterci in contatto e saprò sempre dove sei – gli strinse le mani nelle sue, cercando di non far palesare troppe emozioni: i monaci avrebbero potuto sbucare dalle balconate da un momento all’altro. – Non era così che mi immaginavo il nostro saluto…
Blake la guardò con affetto e le strinse le mani a sua volta. – Non pensavo mi avresti mai lasciato andare via.
- Preferisco saperti al sicuro, che saperti accanto a me.
Se solo potessi… ti raggiungerei. Ma fuori da Bliaint verrei riconosciuta subito come strega: i miei segni indelebili sul corpo mi tradirebbero. Non ti sarei di alcun aiuto da morta.
E poi… hai il mio anello. Se lo indosserai sempre… saprò dove trovarti e… quando tutto questo sarà finito, forse riuscirò anche a raggiungerti – concluse con voce rotta e le lacrime agli occhi.
Vedere gli occhi della strega bagnati di lacrime era un evento più unico che raro.
Blake annuì e strinse l’anello tra le dita.
Tuttavia, un cipiglio dubbioso traspariva dal suo viso.
- Che ne sarà di Judith?
Myriam lo scrutò, sorpresa. – Ci tieni davvero molto a quella donna, non è vero? – gli domandò, non riuscendo a nascondere un pizzico di fastidio nella voce. – Credevo fossi adirato con lei.
- Lo sono, lo sono molto.
Tuttavia, non posso andarmene senza saperla al sicuro.
Ho bisogno di parlarle, un’ultima volta.
- La ami davvero.
- Credevi non ne fossi capace?
- Certo che ne sei capace.
Eppure… cos’ha fatto per conquistarsi il tuo cieco amore?
Ti ha solo fatto del male, in tutto questo tempo.
- Suppongo l’amore non badi al male – rispose lui. – Ti prometto che me ne andrò – le disse poi. – Grazie di tutto, Myriam.
Una lacrima rigò il volto della strega, poi un’altra e un’altra ancora, e più cercava di trattenersi, peggio era. Blake le sorrise ancora e le baciò la mano, amorevole. – Ci vediamo presto – le diede il suo personale addio.
- Ti amo come un figlio.
Non importa cosa accadrà, ti ritroverò – promise, baciandogli una mano a sua volta, per poi vederlo alzarsi in piedi e andare via.
 
- Ripetimi cos’è che vuoi fare, per favore, non sono sicuro di aver ben capito – lo spronò Quaglia, a braccia conserte.
- Farò andare mio fratello da solo, al porto.
Avrà con sé tutto ciò che gli serve.
Dobbiamo sbrigarci ad andarcene – gli ripeté Blake, terminando di infilare le ultime cose dentro il sacco di Ioan.
- Se è così certo che i soldati del conte arriveranno qui prima di mio figlio… per quale motivo non parti con lui? – gli domandò Quaglia avvicinandosi, lo sguardo colmo di preoccupazione. – Hai detto che Myriam ha organizzato tutto per te. Per te e lui. E tu vuoi far andare tuo fratello da solo, ad intraprendere un viaggio di due giorni, fuori dai confini di Bliaint…? Non è da te, Blake.
- Lui deve salvarsi.
- Anche tu. Anche tu devi salvarti – replicò Quaglia con decisione.
- C’è una cosa che devo fare, prima.
- Si tratta di Judith, non è vero?
I monaci non la lasciano vedere a nessuno, Blake.
Dicono stia male, a causa dell’imminente parto.
Non servirà a nulla restare qui, per aspettare che te la lascino vedere.
- Devo tentare. Non posso andarmene di qui senza averle parlato – affermò il ragazzo, guardando il fedele amico dritto negli occhi chiari. – Ti chiederei di accompagnare mio fratello al porto, ma so già che rifiuteresti: sei un maledetto cocciuto, e sei tremendamente appiccicoso – gli disse, facendolo sorridere.
- Hai ragione.
Voglio restare qui e vegliare su di te, amico mio.
Sei molto più in pericolo tu qui dentro, di quanto lo sarebbe tuo fratello là fuori.
Blake gli sorrise amaro, per poi avvicinarsi a Ioan, il quale era seduto sulla poltrona da un po’, già pronto e vestito per il viaggio.
Ioan non era entusiasta di partire senza Blake, ma il ragazzo non gli aveva lasciato altra scelta.
Blake si inginocchiò dinnanzi a lui e fissò il suo visetto angustiato e spaventato.
- Poche e semplici regole, Christopher… - esordì, attirando l’attenzione del bambino. – Non dare confidenza a nessuno.
Devi seguire sempre il vento del mare, verso sud, e se dovessi perderti… puoi chiedere indicazioni a qualcuno, ma non devi mai, MAI dire da dove provieni, né tantomeno che servi il Diavolo. 
Procedi dritto per la tua strada e cammina finché puoi: prima arrivi e meglio sarà. Non preoccuparti per la stanchezza, nel sacco hai cibo in abbondanza per riprendere le forze.
Fermati solo di notte, per dormire, ma evita i villaggi abitati. Al contempo evita anche i boschi, per gli animali feroci. In ogni caso, dormirai all’aperto solo una notte, in quando dopodomani sarai già arrivato al porto.
Quando giungerai lì, dì ai marinai chi sei, loro sanno già che dobbiamo arrivare.
Poi… aspettami. Aspettami per qualche giorno, fin quando i marinai saranno disposti ad aspettare.
Se entro qualche giorno non ti avrò raggiunto… parti senza di me.
Tutto chiaro?
- Io non partirò senza di te – affermò categorico il ragazzino. – Io senza di te non vado da nessuna parte, Even. Ti aspetterò. Ti aspetterò tutto il tempo che sarà necessario. Ma tu cerca di fare presto.
Blake gli sorrise, sentendo un magone risalirgli lungo la gola come una valanga.
Era una sensazione che provava solo e solamente quando si trattava di suo fratello, la persona più importante al mondo.
Blake gli prese le mani e cercò di trovare le parole giuste, senza tuttavia mostrarsi vulnerabile o incerto: - Arriverò. Ti raggiungerò, te lo prometto. Ma se… nella peggiore e più remota delle ipotesi, io non dovessi riuscire a raggiungerti in tempo e i marinai volessero salpare in fretta… tu sali e parti con loro, senza di me. Intesi?
Ioan non rispose.
- Intesi, Chris?? Me lo giuri sulla tomba di nostro padre??
- Sì… te lo giuro sulla tomba di papà.
- Bravo il mio ragazzo – gli disse sorridendogli fiero, accarezzandogli una guancia.
Dopo di che, prese l’anello di tracciamento che gli aveva donato Myriam e glielo infilò in un dito.- Questo indossalo sempre. Così saprò sempre dove sei, qualsiasi cosa accada.
Ioan annuì, con gli occhi invasi dalle lacrime, ma determinati e intrepidi.
- Posso portare Nellie con me? – gli domandò poi, con voce rotta, indicando la micia che ronfava sul tappeto.
Blake sorrise. – Sì, puoi portarla con te. Ma dovrai nutrirla e occupartene sempre.
Ioan annuì, poi si buttò su di lui, abbracciandolo con una forza che Blake non credeva avesse, stritolandogli il collo.
Sì, stava crescendo anche lui.
Il ragazzo ricambiò l’abbraccio e cercò di non mostrarsi debole in alcun modo, di non cedere a quelle lacrime che sentiva montargli dentro da quella mattina, quando erano iniziati gli addii.
Lo strinse fortissimo e gli baciò i capelli. – Ti voglio bene, Chris.
- Più di qualsiasi altra cosa, Even.
Ti aspetterò. Fin quando sarà necessario.
Blake annuì, sorridendo, felice di sapere suo fratello al sicuro, almeno lui, nel caso in cui i soldati del conte fossero giunti al villaggio prima del previsto e avessero iniziato a saccheggiare, a depredare e a fare schiavi.
Ioan, in ogni caso, sarebbe stato al sicuro.
E questa era l’unica cosa che contava davvero.
 
Dopo la partenza del fratello, oramai era pomeriggio inoltrato e quell’infausta giornata di addii stava giungendo al termine.
Blake si diresse verso la cattedrale del Creatore, dove sapeva trovarsi Judith.
Entrò dentro e incrociò subito padre Petrit.
- Padre, ascoltatemi.
- Cosa volete? – gli si rivolse bruscamente l’uomo.
- Voglio vedere Judith.
Non ci metterò molto. Ho bisogno solo di parlarle.
- Non potete vederla.
Nessuno può vederla.
- So che state mentendo.
So che mi odiate, ma vi imploro.
Devo solo parlarle, ci metterò qualche minuto.
Poi me ne andrò.
Ma il monaco fu irremovibile.
A ciò, il ragazzo si rassegnò, almeno per quel giorno.
Ci avrebbe riprovato il giorno seguente, fin quando non gli avrebbero concesso di parlarle.
Tuttavia, prima di andarsene, una voce familiare attirò la sua attenzione:
- Blake…? – Hinedia lo richiamò, seduta su una sedia della navata, da sola.
Stava pregando.
Esattamente come la prima volta che si erano incontrati.
Il ciclo si sarebbe chiuso esattamente come era cominciato.
E Blake si rese conto che anche lei, decisamente, meritava un degno addio.
Si avvicinò alla navata e si sedette accanto alla serva del Creatore.
- Sei venuto qui per parlare con Judith? – gli domandò ella.
- Sì.
- Non preoccuparti, non sei l’unico: non la lasciano vedere neanche a me.
Dicono stia troppo male… eppure, loro possono parlarle, e anche padre Craig questa mattina ha potuto salutarla, prima di andarsene. Sembra quasi che solo i “messaggeri di dio” siano degni di rivolgerle la parola in un momento tanto critico.
- Sai già che padre Craig è tornato ad Armelle?
La ragazza sorrise amareggiata, in risposta. – Egli è un uomo che non lascia nulla al caso: mi ha lasciato una lettera, davanti alla porta di casa, questa mattina.
- Qualcuno te l’ha già letta?
- No. Immagino lui abbia pensato che me la sarei fatta leggere da te, da Quaglia o da Judith.
Anche se, molto probabilmente, sapeva mi sarei rivolta a te, in ogni caso.
- Perché ti saresti comunque rivolta a me?
Hinedia si voltò a guardarlo.
Era una domanda complessa, a cui rispondere.
Una domanda che conteneva in sé sin troppe risposte.
- Mi è sempre piaciuto ascoltarti leggere. Fin dalla prima volta che lo hai fatto per me – ammise semplicemente. – Ma, stavolta, ho deciso di non volere che nessuno me la legga.
- Per quale ragione?
- Voglio che rimanga qualcosa di sacro e segreto.
È come se… il non leggerla mi facesse sperare che, un giorno, lo rivedremo, e che potrà dirmele a voce, le parole che ha scritto su quel foglio.  
Anche Hinedia stessa percepiva l’atmosfera di addii, nell’aria.
Forse, quello era il momento giusto per confessare l’inconfessabile, e accettare qualunque punizione il ragazzo avesse voluto darle, per aver ucciso suo padre.
Per averlo ucciso senza una motivazione.
Per averlo ucciso perché avevo paura potesse farti del male.
Sarebbe mai esistita una spiegazione più difficile a cui credere?
Si erano conosciuti esattamente lì, in quella navata.
In quel periodo, sua sorella era in fin di vita.
E quel ragazzo… quel servo del Diavolo, come se nulla fosse, le si era accomodato vicino, quasi come se non esistessero differenze tra servi del Diavolo e servi del Creatore, quasi come se fosse normale, per un servo del Diavolo, sedersi casualmente vicino ad un servo del Creatore.
E da quel giorno… era cambiato tutto.
Era cambiato il suo modo di vedere il mondo che la circondava, in particolar modo.
Forse per questo Layla, la parte di lei più intima, arcana e sanguigna, era così attaccata a Blake.
Lui le aveva insegnato a credere nell’unione, nell’uguaglianza, nell’eliminazione di differenze tra servi del Diavolo e del Creatore; ed era stato grazie a ciò che aveva dato fiducia anche a Judith.
Grazie alla fiducia e alla gentilezza che le aveva donato Blake, per primo.
“- E voi? Cosa pensate?
- Non lo so con precisione. Io continuo a pregare il mio Signore. Soprattutto ora che mia sorella è malata. Devo pregarlo il più possibile, per fare in modo che ella continui a vivere, almeno per un altro po’.
- E credete che pregarlo strenuamente salverà la vita di vostra sorella?
- Io non posso fare a meno di crederlo.
Non potrei pensare di fare nient’altro.
E voi?
- L’avete detto voi stessa: non dovrei essere qui.
- No, non dovreste ma … non state peccando, stando seduto qui accanto a me.
- Se continuerete a pregare qui per vostra sorella ogni giorno, ci rivedremo.
- Vi auguro una buona guarigione. Per le vostre mani.
- Vi ringrazio.”
Blake le aveva anche insegnato a non credere a tutto quello che dicevano i monaci.
In così poco… come aveva fatto a cambiarla tanto?
E poi, poi c’era stata la scoperta di una dimensione sconosciuta… più materiale e carnale.
Aveva imparato a guardare la sua bellezza senza timore, senza distogliere lo sguardo, senza sentirsi inadeguata, sbagliata, inferiore.
Osservare la bellezza di quel ragazzo pienamente, metabolizzandola, senza spaventarsene, le aveva fatto comprendere che non c’era nulla di sbagliato neanche nel sentirsi più donna, nel riscoprire la propria carnale femminilità, nel momento in cui provava per lui sensazioni e stati d’animo che esulavano dalla sfera dell’innocenza e del candore.
Era amore quello che provava per lui?
Il tipo di amore che avrebbe dovuto provare per il suo sposo?
Forse lo era.
Ma se lo era, non era un amore esigente, né impaziente o possessivo.
Era un tipo di amore dolce, arrendevole, buono, giusto.
Un amore che non poteva essere sbagliato, anche se i testi sacri dicevano il contrario.
Un amore che sarebbe stato felice, di vederlo stare bene accanto a Judith.
E se Layla pensava il contrario… Layla non era lei. Layla era solo una parte di lei che, senza l’influenza di Agnes, diventava un individuo distinto.
A tale conclusione era giunta.
- Te ne andrai di qui? – gli domandò, voltandosi a guardare il profilo del ragazzo.
Invece di confessare il delitto, gli aveva posto quella domanda, e non se ne pentiva.
- Sì.
Parlerò a Judith, poi me ne andrò.
Ogni giorno mi animerà la speranza che voi stiate tutti bene, che le truppe di Ruben siano arrivate in tempo per difendervi.
- Non preoccuparti per noi.
Non devi. Se trascorressi la vita a rimpiangere ogni cosa e ad angustiarti per il destino di tutti quelli che ami… faresti prima a toglierti la vita preziosa che ti è stata donata – disse la fanciulla. – Salvati, Blake. E… ti prego di provare a dimenticare il male che ti è stato fatto.
- L’ho già dimenticato – rispose lui, sapendo bene a cosa la ragazza si stesse riferendo.
Si voltò a guardarla. – Non angustiarti neanche tu, per me. Quello che è successo, è successo, Hinedia. Non si può cambiare e ho la grande fortuna di non ricordare nulla, se non il dolore che ne è venuto dopo. Spero solo che tu… riesca a vivere degnamente, accanto ad un uomo simile.
Mi addolora saperti sposata a lui, perché se ha fatto del male a me e a Judith, so che ne farà anche a te.
Per questo voglio che tu faccia attenzione. A prescindere da quello che accadrà a questo villaggio.
- Mi farò valere, te lo prometto.
- Alla fine, lo hai scoperto? – le domandò il ragazzo.
- Che cosa?
- Se vale la pena pregare. Se il tuo dio ascolta le tue preghiere – le rispose, riferendosi al loro primo incontro.
Hinedia non poté essere più felice, che anch’egli ricordasse ogni parola che si erano scambiati quel giorno lontano.
- Sì, l’ho scoperto.
Blake non le chiese altro.
Si alzò in piedi e fece per andarsene.
- Ti rivedrò, un giorno? – gli domandò a gran voce la ragazza, a distanza. L’eco di quelle parole rimbombò per tutto il monastero.
- Spero vivamente di sì – le rispose lui, rivolgendole un ultimo sorriso, per poi continuare per la sua strada, e uscire dalla cattedrale.
 
 
 
“Si osservò i piedini, immersi nell’acqua trasparente della riva.
Era un evento irripetibile, che suo padre lo portasse al mare, laddove le navi approdavano.
Il porto non era vicino al suo villaggio, ci volevano giorni di cammino per arrivarci.
Ed era ancora più strano che sua madre li accompagnasse.
I piedi nudi si muovevano con le dita tra i sassolini sottostanti, che facevano un male cane, ma erano comunque bellissimi da guardare, motivo per cui rise, felice.
Poi, la luce del sole che si rifletteva sull’acqua illuminò un frammento di qualcosa.
Non sembrava né una perla, né una conchiglia.
Ruben infilò la manina dentro l’acqua e afferrò quello strano frammento luminosissimo e tagliente.
Lo alzò verso l’alto, sopra la sua testa, e lo osservò controluce.
I capelli chiari gli svolazzavano ovunque, di qua e di là, ed erano più spessi e più voluminosi del solito, perché li aveva bagnati con l’acqua marina ed erano pieni di sale.
- Ruben! Sto arrivando! Ti prendo!
Neanche ci provò a scappare, nonostante avesse sentito benissimo quella voce.
Philippus lo afferrò da dietro e lo prese in braccio senza fatica, facendo gocciolare le sue gambe zuppe di acqua salata ovunque tirasse il vento.
Ruben si voltò verso di lui e gli sorrise. – Ho trovato un diamante, papà.
- Un diamante..? Fa’ vedere – disse lui, prendendo la manina di suo figlio e osservando il frammento. - Davvero strano. I diamanti non dovrebbero stare in mare. Dimmi, Ru, cosa ti sembra questo mare? - gli domandò l’uomo, con gli occhi che cambiavano colore ogni volta che il sole picchiava su di loro un po’ più forte.
Ruben si voltò a guardare ancora una volta quella distesa trasparente. – Vetro. Sembra vetro.
Philippus scoppiò a ridere in risposta, stringendolo ancora di più.
Il bambino cercò di ribellarsi alla sua stretta, ma non servì a nulla. Più si ribellava, più suo padre lo stringeva sempre più forte.
- Perché ridi tanto?
- Perché stai sminuendo il mare!
- Non lo sto sminuendo – replicò prontamente il bambino. – A me piace il vetro.

- A te piace toccare tutto ciò che è trasparente – replicò Philippus. – E come riconosciamo il vetro e il mare? Sentiamo – lo mise alla prova.
Il bambino si voltò di nuovo verso quella distesa infinita, ma solo di profilo, in quanto la stretta di suo padre non glielo permetteva.
Avrebbe voluto dirgli di lasciarlo andare.
Di lasciarlo libero di sperimentare.
Ma non lo fece.
Guardò di striscio il mare, poi tornò a guardare suo padre, che lo osservava in aspettativa.
Il bambino sorrise. – Esattamente come riconosciamo le persone: dalla bocca.
Quello era un gioco che aveva inventato sua madre.
Sua madre diceva che le persone si riconoscevano dalla bocca.
Non dagli occhi, non dal naso o dai capelli, bensì dalla bocca.
La bocca era la parte più riconoscibile, più unica e caratteristica di ogni essere umano.
Non potevano esistere due persone con una bocca uguale.
Però potevano esistere due persone con il naso uguale, o con gli stessi capelli.
Invece la bocca no, la bocca era quella e basta.
A ciò, fecero la prova del nove, quella che facevano sempre, seguendo tale logica: Philippus gli pose una mano grande sul volto, in modo da coprirgli tutta la parte superiore del visino, e da lasciare scoperta solo la bocca.
- Ora so che sei mio figlio: questa è la tua bocca – decretò giocosamente, poi liberando il suo viso dallo schermo della mano.
Ruben sorrise in risposta. - Dovremmo tappare gli occhi anche al mare, papà. Così scopriremo se è davvero il mare… o solo una distesa di vetro.”
Ruben aprì gli occhi di scatto, in seguito a quel ricordo che gli era apparso in sogno.
La nave traballava pericolosamente.
Una tempesta, la prima di tutto il viaggio, piombò su di loro, facendo scuotere la nave come una pallina calciata da dieci piedi diversi.
Il ragazzo uscì dalla sua cabina in condivisione con il resto della ciurma e dei suoi compagni d’arme, e uscì a prua, trovandola allagata, e affatto stabile.
Perse l’equilibrio e cadde a terra, sulle ginocchia.
Quel piccolo contrattempo li avrebbe rallentati e, forse, sarebbe stato fatale.
La sua terra natale era lì, lontana ma vicina, riusciva persino a vederla…
Ancora un altro sforzo… e sarebbero approdati.
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo tempestoso e colmo di fulmini, mentre le orecchie gli vennero magicamente invase da una voce, intenta ad intonare una litania sconosciuta:
“Cala la luna, cala la luna
Cala la luna, il cielo la inghiotte
Cala la luna, cala la notte
Cala la notte, il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più
Cala la luna, ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù”
 
 
 
   
 
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