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Autore: Anonimadelirante    14/12/2022    4 recensioni
01. Spuntano bucaneve fra le rovine del Dodici e Katniss piange per la prima volta dalla fine della guerra.
[Scritta per la 72 prompt in attesa di Natale @Mari Lace & Sofifi e per Solo i fiori sanno @pampa98]
Genere: Hurt/Comfort, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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#7. bucaneve: vita e speranza


Per imparare a sperare


Ricordi, li puoi tenere in testa
O nascondere in un portafogli
Ma c'è chi se li dimentica nei sogni

 

 

 

 


Spuntano bucaneve fra le rovine del Dodici e Katniss piange per la prima volta dalla fine della guerra: guarda a terra, ed aspetta che le lacrime finiscano come sono iniziate – senza preavviso, come una giornata di pioggia dopo mesi di siccità. Ma non smette, non riesce a smettere, e se guarda i bucaneve non sono altro che chiazze sfumate di rosa pallidissimo e giallo contro il ghiaccio incolore che ha ricoperto le strade quest’inverno.
Peeta la trova così, mentre cerca di respirare contro la volontà stessa dei propri polmoni, con un fiore schiacciato fra i palmi: «Ehi» le sussurra. «Ehi, Katniss.»
Ehi, Katniss le ha detto quand’erano nell’Arena per la prima volta, nascosti fra le rocce – e sembra di esserci ancora, sembra che non ne usciranno mai, sembra una vita fa, sembra un vecchio film su una pellicola danneggiata, qualcosa che è successo per finta e comunque ad altre persone – ed aveva la febbre ed una gamba ferita. Ehi, Katniss, non fare così: va bene, tanto solo uno di noi sopravviverà. Ma non è andata così: sono vivi e lo sono entrambi, e se lei è viva lo è solo perché lo è anche lui. Sbatte le palpebre, sulle ciglia le rimangono impigliate lacrime come gocce di rugiada su di una ragnatela: «Ehi, Peeta» raspa contro la propria gola, con la voce che esce come fatta a brandelli dagli artigli di Ibridi con gli occhi dei suoi cari cuciti addosso.
«Sono belli» dice Peeta, e sta guardando lei anche se parla dei fiori. Katniss non li trova belli, per niente – li trova terribili e fragili e fastidiosi e irrispettosi di ogni vita che s’è spenta nelle esplosioni delle bombe che sono piombate su casa sua (casa sua ed il mercato e la piazza e casa di Gale e casa di Peeta e la panetteria e-- su tutto il Distretto, comunque). Ma forse sta proiettando. Peeta dice che è una cosa che fa – proiettare l’orrore che prova per sé stessa ogni volta che si guarda allo specchio nelle cose più strane. Anche Peeta lo fa, comunque. Proiettare l’amore cieco che prova per lei nelle cose più frivole.
«Sono solo fiori» decreta allora, ghiaia che le si impasta in gola, perché le sembra un buon compromesso per non litigare per degli stupidi bulbi.
«Sono bucaneve» replica Peeta e poi s’allunga per raccoglierne uno: visto da così vicino, col gambo trasparente ed i petali un po’ spiegazzati, a Katiss fa venire in mente, chissà perché, il pelo di Ranuncolo – arruffato contro il gelo dell’inverno, quando si strusciava fra le gambe di suo padre miagolando capriccioso richieste di coccole e cibo. Ne ha abbastanza di libere associazioni involontarie, però, così chiude gli occhi, si stringe le ginocchia al petto, e comincia a contare nella propria mente, come le ha consigliato di fare Finnick un miliardo e mezzo di vite appartenute a qualcun altro fa. Le dita calde e callose di Peeta, fra i suoi capelli, la riportano alla realtà della prima nevica dopo la fine della guerra come onde che trascinino a riva un relitto: «No, ehi, guardami» dice, piano, e Katinss lo guarda perché non c’è altro che sappia fare. Peeta le sorride lentamente, dolcissimo, come un segreto: «Mi piacciono i bucaneve» le sussurra, e per qualche ragione assomiglia ad una confessione. «Ti somigliano. Sono testardi ed aspettano la prima occasione che hanno per spingersi lontano dal gelo.»
In questo preciso istante, a Katniss non sembra di corrispondere in alcun modo alla sua descrizione, ma come già detto: Peeta proietta.
Ma ha le mani calde e le sue carezze sono morbide e può proiettare finché vuole, purché non smetta di respirarle accanto: «Torniamo a casa» taglia corto quindi, alzandosi. Tende una mano perché Peeta possa issarsi in piedi senza traballare sulla propria protesi, e quando lui gliela stringe cerca di sorridergli: «Ho capito» mormora. Non assomigliano tanto a lei, quanto a lui, pensa però, perché la resilienza è la seconda pelle di Peeta, non la sua – lei è più come un mulo, tira dritto senza pensare al ciglio del burrone su cui sta camminando finché non precipita. Per pura, immeritata fortuna, Peeta è sempre stato lì, fino ad adesso, per acchiapparla all’ultimo e riportala sul proprio baricentro.
Peeta sbuffa, scuote la testa, le si appoggia contro il fianco con una spallata che assomiglia ad una carezza: «Siamo d’accordo di non essere d’accordo?» s’informa, rigirandosi il fiore fra le mani.
«Qualcosa del genere» ammette Katniss con un sospiro.
Peeta sospira a sua volta, poi le aggancia un dito col mignolo, come fossero bambini: «Va bene» accetta, come il buon diplomatico che in fondo è sempre stato. «Torniamo casa, adesso, però.»
Katniss non ha cuore di dirgli che casa non è perché casa era dove sono spuntati i bucaneve e lo sarà per sempre, ma Peeta può leggerla come un libro illustrato – senza alcuno sforzo, senza neanche doverla guardare in faccia: «Non lo fare» le dice. «Non lo fare. Non confrontare le case che hai avuto con quella che hai adesso – adesso è diverso. Adesso è--»
«Ti amo» dice Katniss, perché glielo dice troppo poco e perché Peeta sembra aver bisogno di sentirlo, o forse è solo lei che ha bisogno di dirlo. «Ti amo e so che casa è dove sei tu. Ma--»
«Non c’è un ma» decreta Peeta, dolcissimo, assertivo. «Non c’è un ma» ripete, piano. «Smettila Katniss.»
Per qualche ragione, sembra una supplica. Katniss si volta a guardarlo e non per la prima volta trova nei suoi occhi la stessa disperazione che le cova nel petto. Così, annuisce, il peto che le duole, e sorride un sorriso piccolo e orribile e davvero poco convincete, ma pur sempre un sorriso.
Peeta, perché è Peeta, ricambia.
Caracollano piano verso casa, attenti a non scivolare sul ghiaccio – attenti a non ripetere la scena di un film girato con loro protagonisti contro la loro volontà, scene d’interviste in cui incespicano uno sull’altra, labbra su labbra. Ed eccola, ridicola, luminosa, magnifica: casa, la casa hanno adesso, la casa di questa Katniss lontana millemila anni luce dalla Katniss che è stata, che correva nel bosco e temeva l’inverno perché era freddo e scarso di selvaggina, la casa di questo Peeta che sembra il Peeta di sempre, tranne quando non batte le palpebre una volta di troppo, negli occhi lo sguardo braccato di chi non sa chi stia tenendo per mano.
È solo in quelle volte che Katniss si scopre ad amarlo.
Per tutto il resto del tempo, pensare a Peeta, parlare con lui – mangiare e sorridere e lavorare la terra del giardino, rammendare le lenzuola, impastare il pane – le scricchiola nel petto come il pulsare d’una vecchia ferita amica: sembra sempre un po’ ridicolo, dirlo ad alta voce, un po’ riduttivo, cercare di spiegarglielo. Così, non dice nulla, tiene gli occhi bassi sul piano della cottura, guarda le mani di Peeta, callose e screpolate e delicatissime, lavorare ipnotiche pagnotte tutte uguali e stringe le labbra e non dice nulla – Peeta si sbilancia contro di lei e le sorride, sottile e buffo e le chiede: «Una ghianda per i tuoi pensieri, Everdeen?» e lei alza lo sguardo al soffitto color talco della cucina e sorride a sua volta, ricambia la spallata. Dice qualcosa di stupido, poi, qualcosa di non inerente al guazzabuglio ridicolo che ha in testa o al calore soffocante e dolcissimo che le palpita nel cuore: «Domattina» dice. «Stavo pensando che domattina dovremo fare un giro per cercare un albero di fichi. È quasi stagione» e Peeta finge di cascarci, annuisce, sta al gioco: «Mi piacciono i fichi» pizzica avvallamenti regolari sulla futura crosta del pane. «Potrei farne una torta.»
Le volte in cui Peeta sbatte le palpebre e deglutisce e per un’intera interminabile frazione di secondo non può nascondere la tensione da bestia braccata, però. Le volte in cui deglutisce e poi abbassa lo sguardo, quasi vergognoso, e non dice nulla a meno che Katniss non gli chieda qualcosa, ed allora risponde – ovviamente, è Peeta, risponde sempre – ma lo fa con un tono che sembra intessuto di fili di ferro attraversati da scosse elettriche, allora Katniss si sorprende a respirare a fatica, contro l’amore straziante che prova per lui. Neanche. La comprensione assoluta, gravissima. È solo quelle volte che Katniss si scopre ad amarlo con l’amore da storia della buonanotte: non dolcemente, teneramente, ma ferocemente, con la dedizione e la pazienza di una vecchia cacciatrice. E si scopre ad amarlo di volta in volta come se non ne fosse al corrente lei stessa, mentre lo sbotta, senza potersi controllare: «Ti amo» solo perché Peeta rialzi lo sguardo colpevole ed amaro che ha abbassato, batta le palpebre, apra la bocca senza dir nulla. E allora lei lo precede, assottiglia lo sguardo come in una sfida: «È vero» gli dice. Peeta ogni volta, ogni volta come fosse la prima volta, annuisce lento e rilascia un sospiro che sa di agonia: «Sì» accetta. «È vero.»
«Bene» decreta Katniss quelle volte e poi si sporge verso di lui e lo bacia – non lenta ed affettuosa o ridicola e tenera, come fanno a volte, durante la giornata, passarsi accanto da una stanza all’altra e scoccarsi un bacio a fior di labbra o sulla fronte o sulle mani. Lo bacia con la stessa rabbia con cui Peeta l’ha guardata senza riconoscerla, tornato da Panem, un attimo prima di allungare le mani verso il suo collo. E Peeta ricambia con la stessa disperazione che ha visto riflessa nello sguardo di una sconosciuta che gli era stata raccontata manipolatrice ed egoista, ma che sembrava solo persa, a conti fatti.

 


Tornano a casa, quindi, e Peeta accarezza i petali fradici del bucaneve che hanno raccolto, finché Katniss non glielo sfila dalla mani. Lo schiaccia fra le pagine di un libro di poesie che nessuno dei due ha mai letto, e poi si lascia condurre sul divano, si lascia accarezzare il capo, respirare a fondo per la prima volta dall’inizio della nevicata.

 

 


La neve è quel che resta di Febbraio
Di un'astuta ricorrenza
Un bacio è solo un bacio
E marzo è una promessa
Ma per qualcuno la prima rosa di maggio
È una scoperta

 

 


Tre mesi dopo, la neve si scioglie, il sole si scalda. Peeta sforna panini al rosmarino da farcire con le ultime confetture di mele rimaste dai mesi scorsi. Katniss si siede nella luce dorata del giardino e respira respira respira. L’inverno sta scivolando lentamente in una primavera timida , ma dolce. Apre un libro su una pagina a caso, passa le dita su un fiore essiccato. Chiude gli occhi. Ha odiato l’inverno, da bambina, perché l’inverno significava brutte tossi cavernose e troppi soldi buttati in carbone, ma questo inverno in particolare, questo inverno che si sta consumando, s’è scoperta a temerlo. Finita Panem e finita la rivoluzione, finita tutta la rabbia che aveva in corpo. Katniss chiude gli occhi verso il sole tiepido dei primi di aprile e respira piano contro il dolore che le si contorce nel petto: s’è scoperta ad avere paura, per la prima volta dopo molto tempo, perché questa sua nuova vita l’inverno significa bucaneve e biscotti di zenzero e baci lenti, baci a schiocco, baci frenetici e disperati, baci a fior di labbra e sussurri imbarazzati sotto una cascata di vischio dorato appeso sulla porta di Effie ed Haymitch.
E non sa che farsene, di questo. Teme l’inverno, scopre solo una volta al sicuro sotto i raggi benevoli di una primavera nascente, perché è la stagione delle comodità. Niente più battaglie, niente più nemici. In cambio, tisane alle erbe per i dolori cronici di vecchie ferite e piedi caldi, pesanti calze di lana che Annie invia firmando anche per Jo. Non è fatta per questo, non ha mai dovuto essere fatta per questo – ha dovuto essere fatta per sopravvivere, e per uccidere, e per combattere in ogni stante della sua vita precedente, ma ora. Ora. Sbatte le palpebre per schiarire lo sguardo appannato e si pulisce la gola con un colpo di tosse. Rientra in casa.
Finisce per andare in camera: Peeta sta dipingendo, in piedi davanti alla finestra, un ciliegio in fiore ed una casa ed una ragazza di schiena, la treccia lunga e molle contro la spina dorsale, un libro in mano. Katniss ci mette un po’, a riconoscersi.
Gli si siede di fronte, sul davanzale, un quaderno vuoto aperto sulle gambe, una penna in mano, il bucaneve secco stretto fra le dita. Peeta inarca le sopracciglia, ma quando lei scuote la testa torna a picchiettare petali di acquarello contro il foglio.


Sulla prima pagina dell’erbario non scrive Credevo fosse dolore, invece era paura. Non scrive Non importa, in fondo, cosa fosse, perché Peeta è venuto a salvarmi. Non scrive Sulle macerie di casa fioriscono bucaneve d’inverno. Non scrive Ranuncolo detestava la neve, scrollava sempre quelle sue orribili grosse zampette pelose nel tentativo di scacciare il gelo dai cuscinetti morbidi e rosa. Prim, invece, l’amava.
Guarda Peeta disegnare e fuori i ciliegi in fiore e sulla pagina il suo sciocco bucaneve semi-trasparente, fragile e terribile, e sorride, e pensa che se ha mai avuto un talento è sempre stato quello di adattarsi. Che il prossimo inverno lo aspetterà lance in resta, i piedi puntati a terra, la corda dell’arco ben tesa: ed imparerà a non odiare la sciocca, disgustosa gratitudine che le si gonfia a volte nel cuore, a non aver paura dei pacchi regalo con dentro calze ed esche e acchiappasogni e a non sobbalzare, quando Peeta le allungherà una tazza di passiflora, bucce d’arancia e melissa, a sentire davvero il sapore delle torte al cioccolato e zenzero, invece d’ingoiare con strazio il gusto della cenere.


Fissa il fiore sulla carta, e pensa a quanto gli ricordi la gentile cocciutaggine di Peeta. Chiude gli occhi, sospira.
Sulla prima pagina dell’erbario, scrive: Primo inverno dopo – bucaneve – per imparare a sperare.

 

 

 

 


N/A: partecipa al quattordicesimo giorno della challenge 72 prompt in attesa di Natale (@Mari Lace & Sofifi) indetta Ferisce la penna con la cit “E temo l’inverno perché è la stagione della comodità” – Addio, Arthur Rimbaud + partecipa alla challenge Solo i fiori sanno indetta da @pampa98 sul forum di EFP. Le citazioni ad inizio e fine testo sono di Maggese, @Cremonini, perché Hunger Games mi ricorda periodi oscuri della mia prima adolescenza (<3<3<3) – e comunque ci stava, dai. Non l’ho riletto perché sono un po’ esaurita, ma mi riprometto di tronare a correggere gli orrori, al più presto.
Solo, ah! «Una ghianda per i tuoi pensieri, Everdeen?» >>> un penny per i tuoi pensieri. Non ho trovato, però, notizie sulla valuta di Panem e quindi, ehm. Ghiande, ghiandaie… * va a nascondersi *

  
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