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Autore: Anonimadelirante    19/12/2022    3 recensioni
“A Ketterdam, ricostruisce sé stessa a spicchi: scopre come i coltelli siano utili a bilanciarsi nell’aria quanto sacchetti di sabbia e più utili contro i nemici, baratta il proprio nome d’acrobata con uno da fiaba nera ed impara a fidarsi dei corvi.
Sua madre una volta le ha detto:
addomesticare è una cosa reciproca, piccola mia.
Se la vedesse ora, seduta a cavalcioni sul davanzale della stanza di un demone, attorniata da corvi golosi.”

(Inej/Kaz; post CK, non tiene conto degli eventi di KoS| 72 prompt in attesa di Natale, @Mari Lace & Sofifi)
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inej Ghafa, Jesper Fahey, Kaz Brekker
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Dancing together in the shadows

 

 

 


Si dice che le mani di Kaz Brekker siano orrendamente sfigurate dal fuoco dell’Inferno da cui è fuggito, e le cui fiamme sfaldano le carni come burro. O che sotto i guanti nasconda in realtà artigli di demone – che sia il figlio non voluto del Signore degli Inferi.
Si dice anche che lo Spettro in realtà non esista: che sia solo aria calda e respiro, che sia pura volontà – che non sia altro che il pensiero del Bastardo addensatosi in coltelli acuminati.


Di questo, lui ride, scurissimo – dice: lascia che parlino. Dice: lascia che abbiano paura. 


Ed Inej, in fondo, sa che sono solo menzogne. Perché lei le ha viste, le mani di Kaz, bianche e lisce e pallide nell’ombra. È per questo, sopra ogni altra cosa, che non può dimenticare di essere più che vapore, più che sola intenzione – ma pelle e muscoli e tessuti, invece, e sangue che formicola sotto cute ed ossa vuote d’uccello sotto tutto il resto: per via del desiderio che le pesa in gola ogni volta che il Corvo che ha comprato il suo contratto si sfila i guanti, nell’intimo segreto della sua stanza, e non la guarda.
Si lava dandole le spalle, la guardia abbassata, una fiera nella propria tana. A volte, Inej pensa che chiunque nel Barile a parte lei ne sarebbe lusingato, ma forse è solo Kaz che parla nei suoi pensieri – tutti gli altri sono degli idioti – perché non è possibile che non esista nessun altro al mondo a parte loro due che comprenda la lingua dei corvi. Che sappia che non è agli amici, o agli alleati, che si volta la schiena, ma ai cuccioli, ai deboli, a chi non si ha ragione di temere.
Lascia che gli sciocchi ed i polli pensino ciò che vogliono, ride però Kaz, quando lei storce il naso alle dicerie da fiaba nera che sente nella bisca. Lascia che abbiano paura di noi.
Così, seduta sul davanzale di una stanza buia, nelle orecchie lo sciaguattare di Kaz che si lava via le miserie della giornata appena trascorsa, Inej lancia briciole nel vuoto. Chi non si ha ragione di temere, pensa, stringendo i denti, quasi a voler convincere sé stessa. Lascia che abbiano paura, pensa. Di noi.

 

 


 

 


La storia di come si addomestica un corvo è presto detta: gli si lascia un sentiero di semi che porti via via più vicino ad un pericolo che imparerà a trascurare in favore del cibo. Sempre alla stessa ora, possibilmente, ché l’animale impari ad attendere trepidante il momento in cui schiuderai le mani a coppa, per lasciare intravedere le briciole sul palmo, l’ultima leccornia alla fine della via, la luce, il formaggio nella trappola innescata pronta a scattare sul suo collo.
Inej s’immagina così, a volte, quand’è in bilico su un piede solo sul bordo affilato di un tetto, l’aria fredda che le taglia il respiro, le braccia larghe per mantenere il baricentro. Trattiene il fiato. Si immagina arruffare le piume, caracollare buffamente fin fra gli artigli Kaz Brekker come la sprovveduta che ha già dimostrato di essere in passato – come la bambina che è stata rapita dal suo vardo e non è neanche stata in grado di attirare l’attenzione dei suoi, ma s’è fatta trascinare via, invece, priva di sensi, fino ai piedi di Tante Heleen.
Libera i polmoni, rilassa le spalle, balza in avanti.
Da terra, Kaz si ripara il viso con quelle sue mani nere – ali di corvo anche quelle, nella sineddoche delle ombre cinesi – e la guarda volteggiare fra i tetti come se stesse volando.

 

 


 

 


Quella sera, poi, sfilandosi i guanti dito per dito, dirà: «C’è sempre un momento, in cui sembra che tu ti sia lasciata semplicemente cadere, che non arriverai mai dall’altra parte. Che precipiterai nel vuoto e basta.»
Inej gli sorride, l’ombra del tramonto che taglia in due la città e fende il suo viso come una lama, donandole un’aria ultraterrena, da Dèa – una qualunque di quelli che prega indefessamente, suppone Kaz, che dal canto suo non crede in nulla che non possa essere comprato o almeno coltivato nell’amarezza del proprio petto: «È così» gli svela, placida. «È questo il trucco.»

 

 


 

 


La prima volta che s’incontrano, Kaz Brekker sta pagando Tante Heleen per servigi diversi rispetto a quelli per cui gli uomini che frequentano il Serraglio sborsano di solito. Inej è appena stata staccata dalla catena d’oro con cui l’hanno punita per la sua ultima fuga, ma ne porta ancora addosso la piaga purulenta e rossastra, una stampa dolorosa sulla caviglia. Lo ferma in corridoio, perché odia Tante, perché il tatuaggio che con cui le hanno marchiato l’avambraccio stride sulla pelle nonostante si sia rimarginato, perché il cuore le frulla in petto come un uccello spaventato alla sola idea di: «Ti posso aiutare io» gli dice. «A scoprire chi ha il diamante che cerchi.»
Lui la guarda dall’alto in basso, il viso immobile, gli artigli serrati su quel suo bastone.
Non le chiede cosa vuole in cambio.
Fa’ dietro front e se ne va.

 


Torna la sera dopo.

 

 


 

 


Tante Heleen è molte cose, ma sopra ogni altra è un’avida commerciante ed una pettegola di porto: «Perché?» gli domanda, già mordendo moneta per moneta. «Non vorrai farmi credere che Kaz Brekker abbia un cuore, e che, peggio ancora, se lo sia fatto rubare da quella piccola lince?»
Kaz trattiene a stento un sibilo d’irritazione: «Ti pago per la ragazza» replica. «Non per inginocchiarmi con te in un confessionale.»

 

 


 

 


Kaz Brekker è un uomo qualunque, uguale agli altri che Madame Heleen conduce al suo letto ogni notte. Non c’è ragione per cui dovrebbe essere diverso dagli altri se non che


(è più giovane e più magro e meno sorridente di chiunque altro sia stata costretta ad accontentare, ed Inej ha imparato in fretta che questo vuol dire solo che è più forte e più affamato e meno facile da soddisfare)


fra le dita non tiene monete d’oro, come Inej sperava, ma un foglio di carta: «Sai leggere?» le domanda. Sono le prime parole che pronuncia perché siano ascoltate da lei. Lì per lì non sembra una gran cosa, ma il senno di poi trasforma i bruchi in farfalle, i tritoni crestati in patetiche creature di sola acqua.
Lei prende la pergamena – il suo contratto, pensa, una morsa che si serra sul suo stomaco come una tagliola alla gamba di un cervo – e fa scivolare lo sguardo su e giù per le stringhe di quelle parole ingannatrici.
«Significa che ora appartengo a te» mormora, roca, più mite di quanto non si senta. Kaz Brekker, pensa, e giura di odiarlo finché avrà vita.
Gli occhi di lui sembrano abissi senza fondo: «Significa che i tuoi debiti mi appartengono» la corregge inclinando il viso come un uccello curioso.
Non sorride, ma ci è abbastanza vicino.

 

 


 

 


Kaz Brekker, pensa Inej, e giura di odiarlo per sempre.
Lui non la sfiora neanche per passarle il contratto, però.

 

 


 

 


Le dice: «Faremo grandi cose, insieme.»
Lei non sembra felice di uscire dal Serraglio, non sembra nemmeno convinta delle sue parole: «Ah, sì?» ribatte, con un tono fatto di fumo e lo sguardo già puntato in alto, sui tetti di Ketterdam.
Kaz compra il contratto di Inej Ghafa assecondando un brivido di sicura intuizione – e lei fugge, lasciandolo con un debito ridicolo e nient’altro che aria in cambio.


Jesper, accanto a lui, sbuffa una risata: «Be’, il grande Mani Sporche come la risolverà, questa?»
Lui assottiglia lo sguardo, lo inchioda con un ringhio a mezza bocca: «Tornerà» decreta.
Metà della sua fortuna come Bastardo è dovuta al rancore che coltiva devotamente sul fondo del suo stomaco, è vero, ma l’altra metà è tutta dovuta al suo talento innato nei bluff.

 

 


 

 


Torna nella bettola che chiama casa, e la trova appollaiata sulla finestra, accovacciata sul davanzale, la pelle lasciata scoperta dagli umilianti costumi del Serraglio increspata di brividi, gli occhi che sembrano ombre di vetro.

 

 


 

 


È il giorno del suo quindicesimo compleanno, e Ketterdam si apre davanti a lei come un origami di fogli d’ossidiana. Manisporche, il demone dagli artigli affilati che s’aggira coi suoi Scarti sul fondo del Barile, le ha detto Mi appartengono i tuoi debiti, sottintendendo in qualche modo che la sua anima non fosse inclusa nel patto. Le ha detto Noi due faremo grandi cose, ed ha fatto poco più che una piega quando se l’è trovata seduta sul davanzale quella stessa sera, quasi non fosse mai scappata, quasi si fossero messi d’accordo per vedersi lì.
La verità è che Inej è schizzata via come una lepre disincagliata all’improvviso da un laccio da bracconiere – sanguinando in giro confusa, persa in una città sconosciuta. Ha trovato in fretta la bettola dove fanno base i Corvi, però, e da lì s’è scoperta incapace di andarsene. Solo un paio d’ore fa ha pensato Kaz Brekker, giurando a sé stessa di odiarlo per tutta la vita, ed ora già si trova invischiata nella sua tela di ragno, pensa, coltivando uno stupito rancore, seduta a gambe incrociate ad aspettare che torni.
Quindi, Kaz Brekker torna, ed a mala pena riconosce la sua presenza. La studia deliberatamente di sottecchi come farebbe con una bestiola selvatica da addomesticare.
Sfila un coltello dalla cintola e glielo depone in grembo come un’offerta di pace – briciole in cambio di fiducia – e dice, domanda, lo sguardo fermo denso come l’acqua sporca del porto: «Camminare per strada come tutti gli altri non ti piace?»
Inej sbatte le palpebre accetta il coltello come fosse un regalo e non un ordine implicito. Non gli dice: Sei il demone che dicono? Perché a me sembri solo un ragazzo con troppo passato per non fingersi uomo. Fissa il pugnale, se lo rigira fra le dita. Dice: «Ricomprerò il mio contratto.»
Lui inclina il viso, di nuovo quelle movenze da uccello curioso: «Lo credo bene» replica.

 


Kaz Brekker non fa regali – non ha bisogno di bere con gli altri Scarti, per saperlo – ma ad Inej sembra che quello per lei sia un favore in cambio di poco: mezza libertà, per corse sui tetti e segreti carpiti.


«Non ucciderò per te» lo avvisa, la lama che brilla traslucida nella penombra della stanza. «Non corromperò la mia anima agli occhi degli Dèi più di quanto già non lo sia.»
Il sorriso di Kaz è fatto della stessa materia delle storie dell’orrore che le raccontava sua madre prima di metterla a letto, quand’era bambina: «Vorrà dire che a quello penserò io per entrambi.»

 

 


(Le chiederà, più avanti, nonostante lui personalmente non creda che nel potere dei soldi e delle vendette: «Che Dèi sono se danno a te le colpe di Tante Heleen?»)

 

 


 

 


Non sono doni, anche se lo sembrano, ma per il suo quindicesimo compleanno Inej Ghafa riceve un coltello ed una specie di libertà a metà.
Sua madre le baciava la fronte, le rimboccava coperte colorate e sussurrava nel buio bluastro del vardo fino a quando lei non s’addormentava.
Basta un seme di melograno per perdersi l’anima.

 

 


 

 


Jesper beve troppo e perde tutto ciò che gli resta al gioco. Una sera s’appoggia pesante alla sua spalla ed Inej deve trattenere il respiro, contare i secondi, decidere deliberatamente di non piantargli un coltello nello stomaco: «Sai, Spettro» le sorride, una presa in giro d’amico. «Fra te e quel bastardo di Brekker, punto tutto su di te.»
Lei alza gli occhi al cielo, lo bilancia con un palmo fermo contro il braccio: «Perdi sempre le tue scommesse Jesper» gli ricorda.
Lui ride: «Solo quelle che vale la pena perdere» risponde, qualunque cosa voglia dire.

 

 


 

 


La guarda dal basso compiere balzi improvvisi da ghepardo appostato, volteggi nell’aria come un corvo in amore, scivolate vertiginose, atterraggi eleganti da acrobata circense.
Quando è a terra con lui e gli altri comuni mortali della feccia di Ketterdam, le insegna a scassinare serrature, forzare lucchetti, sfilare lettere
dalle buste senza danneggiare la carta.
Da soli, la sera, si sfila i guanti per svelare le sue mani pallide e svelte, ragni dal manto bianco che non ha mai visto nessuno a parte lei. All’inizio, è un gesto performativo, deliberato – tu sei questo, tu devi essere questo per me: le mani che non posso scoprire di giorno. 
Kaz non sa quando, precisamente, smette di esserlo.

 

 


 

 


Lui le dice Faremo grandi cose, insieme, e lei non gli crede fino a quando lo fa.

 

 


 

 


La storia di come si addomestica un corvo è presto detta: non lo si fa.
Si schiudono le mani a coppa per scoprire i palmi brillanti di zucchero e si respira appena, inginocchiati nel fango, fino a quando lui non inclina il capino, arruffa le penne, becca piano sulla tua carne molla, lo sguardo fitto di notti d’inverno che brilla di riconoscenza e diffidenza in egual misura.
Finché, un giorno, il sospetto non svanisce del tutto.


Ed i corvi hanno una buona memoria – sappi, Inej, che i corvi non dimenticano: ricordano chi è un buon amico tanto quanto chi ha provato a serrare loro le dita attorno al collo.

 


Nelle ombre lunghe di tormenti di Ketterdam, Inej siede a gambe incrociate sul davanzale di Kaz, le visti scure e pesanti come piume d’uccello, e tiene semi di girasole e papavero nel pugno.
Con l’altra mano, gioca con un coltello.


Dall’altra parte della stanza, Kaz depone i guanti sul comodino, come fossero pezzi di un’armatura dismessa.

 

 


 

 


A Ketterdam, ricostruisce sé stessa a spicchi: scopre come i coltelli siano utili a bilanciarsi nell’aria quanto sacchetti di sabbia e più utili contro i nemici, baratta il proprio nome d’acrobata con uno da fiaba nera ed impara a fidarsi dei corvi.
Sua madre una volta le ha detto: addomesticare è una cosa reciproca, piccola mia. 


E ancora: Non riempirti i pugni di semi, fino a quando non sarai sicura di poter sopportare i tagli sui palmi delle beccate dei passeri.

 


Se la vedesse ora, seduta a cavalcioni sul davanzale della stanza di un demone, attorniata da corvi golosi.

 

 


 

 


Jan Van Eck dice: «Trenta milioni di kruge» e lui pensa Inej.


(Pensa Inej, Jesper, Nina Zenik. Li conta sulle dita come fiche di una partita. Manca qualcuno, ma ha ben in mente i ruoli. Pensa Jordie. Pensa Pekka Rollins, sarai mio. Pensa--)

 

 


Non ha bisogno di chiederle cosa farà con la sua parte, ma qualcosa nelle sue viscere trema lo stesso, quando Inej inclina il viso, appoggia la nuca all’intonaco del muro, e, nella luce del tramonto, incorniciata dalla finestra come una Sankta caduta in disgrazia, dice: «Per prima cosa, ripagherò il mio debito con te.»


Kaz non può saperlo, ovviamente, ma la madre di Inej le ha baciato la fronte, una volta, e le ha detto: Addomesticare è una cosa reciproca, piccola mia. Non accettare l’anima di nessuno, se non sei pronta a donare la tua in cambio.
Se lo sapesse, comunque, riderebbe: Non c’è pericolo, le sorriderebbe allora, amaro come soltanto quando sono soli nella stanza, i corvi che volteggiano fuori dalla finestra. Io non ce l’ho un’anima. La tua è al sicuro, con me, Inej Ghafa.

 


«E col resto?»
«Devo ancora pensarci» mormora, anche se Kaz sa esattamente cosa in realtà vorrebbe dire, perché – nonostante Tante Heleen e gli schiavisti, Ketterdam e lui stesso – Inej conserva ancora parti molli in piena vista. «E tu?»
Kaz le risponde: «È meglio che tu non lo sappia» anche se quello che davvero intende è: Dopo, se mai avessi avuto il dubbio di potermi amare, non lo avrai più.

 

 


 

 


Dicono che lo Spettro non sia altro che la volontà di un demone sfuggito per il rotto della cuffia dall’Inferno, fattasi carne e coltelli ed ombre nel buio sui tetti di Ketterdam.
Dicono che Kaz Brekker sia un nome falso, ché notizie di lui si hanno solo finiti gli incubi della peste, e che  sotto la sua pelle pallida e tirata si nasconda in realtà una progenie maledetta.
Inej alza gli occhi al cielo, a questo, spintona Jesper perché smetta di fare il buffone. Kaz, appena dietro di loro, stira le labbra nel riflesso di un sorriso.


(Quella notte, si sfilerà i guanti con un brivido e si allenerà a non pensare alle biglie opache incastrate nel viso di Jordie al posto dei suoi occhi vivaci, ma a quelli ridenti, brillanti e vivi di Inej: «Adesso basta, Jesper Fahey. Sai bene quanto me che Kaz è una persona. E io, io ti sembro un fantasma?»
«Ma no, Inej, che hai capito – è così che si alimentano le leggende!»)

 

 


 

 


Kaz Brekker le regala un coltello, le indica una via per riguadagnare la propria libertà.
Inej si dice che è ubriaca anche se ha bevuto meno della metà di Jesper, perché quando sono soli, fra le sue labbra la parola Spettro sembra un soprannome affettuoso.

 

 


 

 


La verità è questa: addomesticare un corvo non è possibile, ma farselo amico sì. Meglio: alleato.
Questo perché i corvi sono affidabili e leali ed hanno una buona memoria.
Non dimenticano mai chi li ha traditi, né un palmo ricoperto di zucchero.

 

 


 

 


Jesper gli si siede accanto, e non lo guarda, ma dice: «Kaz, sei mio amico. So che non vuoi sentirtelo dire, ma lo sei. Puoi per favore stare attento a non farti troppo male?»
Kaz non sa di cosa diavolo stia parlando quest’idiota, ma sa che l’alcool scioglie lingue ben più controllate di quelle di Jesper. Trattiene a stento un ringhio, quindi, e dice: «Vai a dormire. Domani mi servi lucido.»
Lui obbedisce – ovviamente obbedisce: sono Kaz e Jesper, è così che funziona – ma all’ultimo si volta: «Dico sul serio» mormora, gli occhi bassi. «Questo è. Tutti questi kruge sono molto più di quanto non serva ad un uomo per vivere. Sono una seconda possibilità. Kaz. Inej ci sarà fare con l’equilibrismo, ma tu? Con quella gamba rischi di spiaccicarti al suolo.»
Kaz lo caccia con una finta del bastone.


(Col senno di poi – ah. Col senno di poi avrebbe dovuto costringerlo a smaltire la sbornia dove potesse controllarlo a vista, a distanza di orecchio. Dove potesse impedirgli di spifferare i suoi piani a chicchessia, zittirlo su Inej una volta per tutte.)

 


Col senno di poi, Kaz si chiede se non avesse ragione, dopo tutto, sulla storia dell’equilibrismo.

 

 


 


Il ricordo più caro che Inej serba è 


(il tocco di piuma lieve delle labbra di sua madre contro la fronte,
il riso di suo padre la prima volta che gli ha lasciato la mano per volteggiare da sola lungo il filo teso a qualche centimetro da terra,
l’odore di terra smossa e legno gonfio d’olii – patchouli, olive e sandalo ed incenso – del vardo in partenza)


il ruggito del vuoto, sotto di sé, come unico respiro del mondo, e la stoffa pesante del tendone come un cielo a strisce, sopra di lei.
Il cuore che le batte nell’orecchie al ritmo del vociare della folla.

 


Questo, a Kaz, non ha bisogno di dirlo, ma se glielo raccontasse lui alzerebbe gli occhi al cielo: «Così sentimentale, Inej.»

 

 


 

 


L’incubo più tremendo che nasconde nell’incavo in cui dovrebbe battergli il cuore è


(l’agrore di putridume della fossa comune
il freddo che raschia le ossa dell’acqua purulenta in cui ha rischiato d’affogare
i crampi allo stomaco ed i conati a vuoto, le ore i minuti gli anni di agonia che sono succeduti alla morte di Jordie)

 

 

 

la pelle viscida e fredda di suo fratello, cedevole di marcescenza sotto il suo tocco.
Sapere che è colpa sua, solo sua, impossibile da espiare.

 

 


Potrebbe confessarlo ad Inej, ma non cambierebbe poi molto, dopotutto.

 

 


 

 


Le mani nude, il petto anche, una sera qualunque di quelle che passano in silenzio nella sua stanza Kaz si volta verso il davanzale. Inej è accucciata sulla lastra di pietra della finestra, come una maga coi suoi famigli. Attorno a lei, vorticare furioso e felice di corvi affamati. Sbuffa per non sorridere.
Le dice: «Li stai viziando.»
Lei risponde: «Se lo meritano.»
Nella luce aranciata del tramonto, il suo palmo appiccicoso di succo di melograno sembra sporco di sangue.

 


 

 


Spalla a spalla, ma senza sfiorarsi, sul molo della città che li ha resi ciò che sono, Inej offre il viso al respiro bagnato del mare e non lo guarda, ma poi

 


(Kaz non dice:
Resta
Ti dovevo una via di uscita, ma non usarla
Ti prego, non usarla


Davvero non hai capito da quanto tempo ti appartengo?)

 


dà le spalle al ruggito delle onde ed alza un braccio, il palmo rivolto verso l’alto. Guarda lui, non l’orizzonte.
Dice:« Vieni con me.»

 

 


 

 


(Già sulla barca, Kaz sbufferà: «A fare beneficienza, Inej? Davvero? Mi ci vedi?»
Lei non gli farà notare che è partito, ormai, e la salsedine sta consumando quel poco che resta della maschera che porta. Sorriderà, invece, e dirà: «A vendicare chi non può più farlo da solo. Ti suona meglio?»)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Disclaimer: se Kaz fosse stato mio avrebbe avuto almeno trent’anni e la faccia di Cillian Murphy, perché sono una persona triste che ama i meme-crossover. Se Inej fosse stata mia… no, lei è sempre perfetta, in ogni sua veste *cuori cuori cuori*
— Grazie a Mari Lace & Sofifi per la loro splendida challenge 72 prompt in attesa di Natale (…ovviamente scritta per il giorno 19 con la citazione:“Io e te fare grandi cose, insieme” “Ah, sì?” )
N/A: ho letto SoC e CK tipo quattro anni fa? E non sono del tutto certa di ricordarmi niente, se non LA BELLEZZA di certe parti che boh. Quindi, sì. Avrei voluto essere più approfondita e professionale, ma A) non ho tempo per vivere e B) non ho i libri a mano e quindi sorrynotsorry, vi beccate questo cioccolatino un po’ approssimativo ma molto affettuoso, con ripieno di feels Kaz/Inej che sono meravigliose patate glassate di angst.
(Also: ho letto e apprezzato SoC e letto ed amato CK e letto e tollerato la trilogia e ho sentito solo pareri negativi su Re delle cicatrici & La legge dei lupi e per quanto di solito la cosa non mi scalfisca più di un tot per qualche agione non riesco a trovare il coraggio di leggerli nonostante languiscano sul mio scaffale ormai da eoni perché amo tantissimo Nicolai e Zoya e non voglio che mi si rovinino, so: A.A.A. cercasi lettore entusiasta che mi fomenti abbastanza da decidermi a leggerli XD)
— Sono leggerissimamente (inserire ansia qui) preoccupata per le caratterizzazioni, in particolare per quella di Jesper, che amo, e che è del tutto sfasata temo, but still.
E, no. Titolo più randomico non potevo trovarlo _0_/
L’ultimo paragrafino non volevo metterlo, ma Leverage mi ha rovinato la vita ha reso il mio 2022 leggermente più sopportabile, so this is all, folks!

  
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