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Autore: Losiliel    23/12/2022    1 recensioni
Morifinwë Carnistir Fëanárion, giovane nipote del re dei Noldor, vive in un meraviglioso palazzo nella splendente città di Tirion, in una terra benedetta da ogni ricchezza, circondato da una famiglia unita e numerosa. La sua vita sembra perfetta sotto ogni aspetto.
Peccato che lui non la pensi affatto così.
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[ Caranthir-centrico | coming of age | vita dei Noldor in Aman | Anni degli Alberi ]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caranthir, Fëanor, Figli di Fëanor, Nerdanel, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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1

L’imprevisto

(o quando il nuovo anno comincia con una nuova seccatura)


 

– No! – esclamò Morifinwë, e per rendere più chiaro il concetto picchiò il pugno sulla scrivania. I calamai tremarono e qualche foglio svolazzò a causa dello spostamento d’aria. – Non intendo rinunciare al mio insegnante di matematica.

Nessuno sembrò impressionato dal gesto, né dalla fermezza con cui aveva espresso il suo rifiuto.

Nella biblioteca, fin troppo affollata quel pomeriggio, continuò a regnare un silenzio indifferente, interrotto soltanto dal canto di un usignolo che entrava dalle finestre aperte sul giardino. Quel cinguettio allegro sembrava volersi prendere gioco di Morifinwë e delle sue pretese.

Tyelkormo, seduto in una nicchia presso l’ingresso, l’unico punto della biblioteca privo di scaffalature alle pareti, continuò a dondolarsi sulle gambe posteriori della sedia senza nemmeno perdere il ritmo. Camicia allacciata soltanto a metà, pantaloni che arrivavano poco sotto il ginocchio, con un piede nudo faceva perno contro il sostegno centrale di un tavolino rotondo, su cui erano appoggiati una brocca d’acqua e qualche bicchiere destinati a dare ristoro a chi si soffermava a lungo in compagnia dei libri. Quel giorno, contro tutte le regole, c’era anche un vassoio di biscotti: evidentemente il fratello non si era fatto mancare nulla per godersi lo spettacolo della sua sconfitta.

Sull’altro lato della sala, il piccolo Curufinwë sedeva a un tavolo presso una delle porte a vetri che si aprivano sul chiostro; due enormi cuscini gli permettevano a malapena di arrivare con la testa oltre il piano della scrivania, le sue gambe penzolavano nell’aria, immobili. La treccia gli cadeva in avanti da sopra una spalla e Morifinwë non poté fare a meno di notare, per la centesima volta, che il fratellino aveva già capelli più lunghi dei suoi e che, a differenza dei suoi, non sembravano avere nulla in contrario a farsi pettinare. Completamente immerso nella lettura di un tomo di dimensioni spropositate, il piccolo seguiva le parole col dito e sembrava deciso a ignorare qualsiasi altro oggetto presente nella stanza, animato o inanimato che fosse.

Makalaurë, che aveva portato la notizia alla quale lui aveva reagito con tanta veemenza, afferrò lo schienale di una sedia, la trascinò di fronte al tavolo a cui sedeva Morifinwë e ci si lasciò cadere sopra. Aveva l’aria di chi avrebbe voluto essere in qualsiasi altro posto, ma evidentemente i genitori avevano deciso che l’incarico di riferire al più indisponente dei loro figli la novità che l’avrebbe reso ancor più indisponente, dovesse toccare a lui. Segno che Russandol non era nei paraggi.

Makalaurë cercò di far passare uno sbuffo di insofferenza per un tentativo di allontanare una ciocca dei suoi lunghi capelli castani dal viso, si sistemò il nodo della sciarpa leggera che gli fasciava il collo e incrociò le mani davanti a sé.

– Perché devi sempre rendere tutto così difficile? – domandò.

– Perché altrimenti nessuno gli presterebbe attenzione – intervenne Tyelkormo dal suo angolo.

Morifinwë gli tirò addosso la prima cosa che gli capitò sottomano: una matita. Il fratello non si degnò nemmeno di inclinare la testa di lato; la punta gli sfiorò la tempia e si conficcò nella massa di capelli chiarissimi, che lui portava sempre sciolti, come la criniera di un cavallo reduce da una galoppata. Morifinwë sospettava che se li spettinasse di proposito.

Tyelkormo si sfilò la matita dai capelli e ringhiò con quel verso da felino inferocito che sapeva imitare così bene.

– Per favore, Tyelko, non ti ci mettere anche tu – disse Makalaurë senza neppure voltarsi a guardarlo.

Morifinwë represse l’impulso di saltare alla gola del fratello selvaggio e riportò la sua attenzione su Makalaurë. Era in corso una battaglia che non voleva perdere.

– Arsanarwë lavora in questa casa da sempre – disse, – ha insegnato prima a Russandol, poi a te e infine a Tyelko – si interruppe e rivolse uno sguardo sprezzante in direzione del fratello in questione, – o almeno ci ha provato.

Tyelkormo fece un mezzo inchino e piegò le labbra in un sorriso compiaciuto, come se avesse ricevuto un complimento e non un insulto.

– Non vedo perché, proprio adesso, dovrebbe smettere di fare il suo dovere – concluse Morifinwë.

– Il maestro Arsanarwë – lo corresse Makalaurë, – ha lavorato con noi per molti anni, è vero, ma ora ha deciso di andare a insegnare altrove.

– Altrove? – Morifinwë stentava a credere alle proprie orecchie. – Perché mai vorrebbe andare altrove uno che ha il privilegio di insegnare nella casa del principe Fëanáro? È risaputo che papà sceglie solo il meglio. Lavorare in casa nostra è il massimo onore a cui ogni persona possa ambire.

– Forse lui non la pensa così – intervenne di nuovo Tyelkormo, – il concetto ha mai sfiorato la tua testolina vuota?

– Tyelko! Per favore! – esclamò Makalaurë, prima di ritornare a rivolgersi a Morifinwë con appena un po’ più di calma: – Il maestro si trasferisce nella Piana Dorata, dove ha aperto una scuola sua.

– Una scuola? Nella Piana Dorata? – Morifinwë non poteva crederci. – Ma non ci sono che agricoltori e allevatori laggiù.

– Eru non voglia che gli allevatori imparino la matematica – commentò Tyelkormo, protendendosi in avanti per raggiungere il vassoio e lanciarsi in bocca un biscotto.

– Taci, Tyelko, o ti butto fuori! – questa volta Makalaurë non si curò di tenere sotto controllo la voce, e il potente suono emesso dalle sue corde vocali riverberò contro le pareti della grande sala. – E taci anche tu, accidenti – disse a Morifinwë. – È così difficile da capire? Il maestro Arsanarwë ha sposato una donna della Piana, lo sai anche tu, e ora che stanno per avere un bambino intende andare ad abitare presso i parenti di lei. Come potrebbe occuparsi di suo figlio se continuasse a vivere nel nostro palazzo?

– Potrebbe trasferirsi qui anche la famiglia, posto ce n’è! – obiettò Morifinwë. – Non sarebbe il primo dei nostri servitori che…

– Moryo – lo interruppe Makalaurë, – forse è proprio questo il punto: Arsanarwë vuole cambiare vita ora che sta per diventare padre. Vuole più autonomia.

Morifinwë decise di giocarsi la carta definitiva: – Ciò non toglie che papà è il figlio del re, e se gli ordinasse di restare, il maestro sarebbe costretto a restare.

Un tonfo dall’altro lato della sala attirò la loro attenzione. Curufinwë aveva chiuso il suo libro di colpo.

– È proprio per questo che non l’ha fatto – sentenziò il piccolo e, senza aggiungere altro, prese il pesante volume tra le braccia, saltò giù dalla sedia riuscendo miracolosamente a non ruzzolare sul pavimento, e si avviò all’uscita, borbottando tra i denti: – Stamattina non si può lavorare qui dentro.

Tyelkormo inclinò la sedia all’indietro e distese un braccio davanti alla porta per bloccargli l’accesso al corridoio.

– Non è permesso portare quel libro fuori dalla biblioteca – disse.

Curufinwë alzò appena la testa, come se guardare in faccia il fratello non valesse nemmeno la fatica di piegare il collo.

– A te non è permesso – precisò, con la sua vocetta sottile e petulante. Poi scansò il braccio di Tyelkormo e caracollò via sulle sue gambe corte, gravato dal peso del libro, con la treccia perfetta che ondeggiava al ritmo dei suoi passi.

Tyelkormo scrollò le spalle e tornò a dondolarsi sulla sedia. – Il piccolo ha ragione – disse, – papà non forzerebbe mai Arsanarwë a fare qualcosa contro la sua volontà.

– “Il piccolo ha ragione” – gli fece il verso Morifinwë. – E quando mai il piccolo non ha ragione, a sentire te?

Tra le tante cose che rendevano difficile la vita di Morifinwë, quella era una delle più insopportabili. Più ancora della scarsa considerazione che il fratello selvaggio aveva di lui, lo infastidiva il fatto che, da quando era nato Curufinwë, Tyelkormo riservava al piccolo attenzioni che a lui non aveva mai concesso. Non che lo trattasse con particolare riguardo, anzi, gli stava addosso in continuazione, lo contraddiceva, lo sfidava, ma quando si arrivava al dunque, prendeva sempre le sue difese. Cosa che con lui non aveva mai fatto.

– Sia come sia – Makalaurë sembrava deciso a riprendere il controllo della conversazione, – non vedo perché la cosa ti impensierisca tanto. Papà troverà per te un insegnante altrettanto bravo, l’hai detto tu stesso che sceglie sempre il meglio.

Morifinwë pensò di rispondere che non gli andava di abituarsi ai metodi di un nuovo maestro, perché l’avrebbero costretto a rallentare il ritmo di apprendimento che aveva raggiunto con Arsanarwë, e del quale andava molto fiero. Ma la scusa suonava debole persino alle sue orecchie: Morifinwë aveva molti problemi, ma di certo la matematica non era tra quelli.

Prese in considerazione l’idea di dire la verità, e cioè che a lui proprio non piaceva incontrare nuove persone. Tutto il processo di conoscersi, di farsi conoscere, di abituarsi l’uno all’altro, lo metteva a disagio, lo affaticava e spesso lo mandava in confusione, cosa per nulla auspicabile quando si dovevano capire concetti complessi come quelli che stavano affrontando lui e il maestro.

Ma ciò che maggiormente lo indisponeva era che Arsanarwë era stato l’insegnante del perfetto Russandol, dell’amabile Káno e anche dell’indomabile Tyelko, e nel corso della sua lunga carriera non aveva mai, mai una volta, espresso il desiderio di andarsene, mentre adesso che toccava a lui se ne veniva fuori con quella assurda decisione. E suo padre non glielo impediva!

Alla fine riuscì solo a dire: – Papà non doveva permetterglielo.

– Ci rinuncio! – esclamò Makalaurë. – Non so cos’altro dirti. La decisione è già stata presa, non serve a niente lamentarsi.

– Lamentarsi è nella sua natura – buttò lì Tyelkormo.

Morifinwë non riuscì più a trattenersi: – Nella tua invece c’è il fare lo…

L’insulto gli morì sulle labbra quando vide apparire sulla soglia, alle spalle di Tyelkormo, una figura alta e slanciata.

Tyelkormo si voltò di scatto, perse la presa sul tavolo, e per non cadere all’indietro si sbilanciò in avanti con un movimento convulso, rischiando di mandare all’aria la caraffa e i biscotti.

– Che succede? – chiese Russandol entrando nella stanza.

Il maggiore dei suoi fratelli doveva essere appena rientrato da qualche incarico ufficiale, perché indossava abiti elaborati che lo identificavano come appartenente alla casa reale. Il mantello verde scuro aveva ricami color rame che ben si intonavano con la fascetta di metallo che gli cingeva la fronte, ed era chiuso da una spilla che riproduceva la stella a otto punte della casa di Fëanáro.

Makalaurë emise un inequivocabile sospiro di sollievo. – Credevo rimanessi fuori fino a sera! – esclamò. Poi aggiunse, in risposta alla domanda del maggiore: – Gli stavo riferendo di Arsanarwë.

Russandol fece qualche passo nella stanza. Il suo sguardo andò da Makalaurë a Morifinwë, passò alla sedia dove fino a poco prima era stato seduto il piccolo, si soffermò sui cuscini ancora deformati dal peso del fratellino e subito si spostò alla scaffalatura dove c’era lo spazio vuoto lasciato dal libro che Curufinwë si era portato via; infine si rivolse a Tyelkormo che, pur non avendo ripreso a dondolarsi, aveva recuperato la sua espressione spavalda.

– Lasciaci, per favore – gli disse Russandol, e il fratello non se lo fece ripetere. Si alzò, prese con sé il vassoio, spazzò le briciole giù dal tavolo, rivolse a Morifinwë un ironico inchino e sgattaiolò fuori dalla porta.

Russandol parlò di nuovo: – Anche tu, Laurë.

Makalaurë annuì e si diresse all’uscita. Nel passare accanto al fratello maggiore gli sfiorò un braccio e l’altro, di rimando, gli afferrò per un istante il gomito, prima di lasciarlo andare per la sua strada. Era un gesto che facevano senza più accorgersene, Morifinwë l’aveva capito. I due fratelli maggiori avevano un rapporto esclusivo tra loro, maturato negli anni in cui erano stati gli unici. Makalaurë si affidava completamente al più grande, e l’altro ricambiava la fiducia donandogli un po’ della sua sicurezza. Accadeva costantemente, come dimostrava quel gesto inconscio.

Con un’abitudine affinata nel tempo, Morifinwë soppresse la fitta di gelosia che sempre lo prendeva quando era testimone del legame speciale che univa i due fratelli.

Russandol avanzò nella stanza e si sedette al posto di Makalaurë. Si levò la fascetta di rame dalla fronte, forse per suggerire che non era lì per imporre la sua decisione a causa del suo ruolo. Nel farlo, una ciocca di capelli sfuggì alla sua acconciatura, ma lui sembrò non farci caso. Il maggiore dei suoi fratelli era l’unico ad aver ereditato il colore ramato dei capelli dalla madre, sebbene l’incarnato fosse quello del padre: pallido e luminoso come marmo levigato. Proprio l’inverso di ciò che era toccato a Morifinwë, che aveva capelli neri come il carbone e la pelle del viso che sembrava non aver ancora deciso che strada prendere: disomogenea, con zigomi color mattone e il resto di una tonalità più chiara, che, per aggiungere il danno alla beffa, si arrossava alla minima fluttuazione del suo umore.

Proprio come stava accadendo in quel momento, sotto lo sguardo di quel fratello che gli era superiore per età, per intelligenza e per aspetto.

E per capacità di ascoltare e di comprendere, dovette ammettere Morifinwë quando l’altro, invece che esordire con un rimprovero, si dimostrò pronto al dialogo: – Dimmi tutto.

Morifinwë scosse la testa. – Che cosa vuoi che ti dica? – si arrese, – l’ho capito che non c’è niente che possa fare.

E in quell’istante capì anche che era quella la cosa che lo disturbava di più: il fatto che non potesse fare niente per far andare le cose come voleva lui.

Russandol sembrò pensarci su per un lungo momento, poi disse: – Forse c’è un modo per concludere il percorso che stai facendo col maestro Arsanarwë, se sei pronto a fare qualche sacrificio.

Morifinwë aggrottò le sopracciglia, sospettoso: “sacrificio” non era una parola che prometteva bene.

– Ti ascolto – concesse.

– Potremmo chiedergli se è disposto a insegnarti presso la sua nuova dimora – propose Russandol, – magari concentrando le lezioni in un unico pomeriggio a settimana, in modo che non vadano a interferire col suo lavoro alla scuola.

– Dovrei andare nella Piana Dorata? Io?

Morifinwë non si trovava bene fuori dal suo ambiente. E con “il suo ambiente” intendeva casa sua, dove tutti, sia i famigliari che le persone al servizio di suo padre, lo conoscevano e lo accettavano per come era, e non si curavano del fatto che parlasse poco, o che preferisse stare per conto suo, o delle altre stranezze che lo rendevano così diverso dai suoi fratelli.

Al di fuori, si sentiva osservato come un insetto sotto una lente di ingrandimento. Aveva l’impressione di essere giudicato in continuazione, per ogni cosa. Per i capelli che non volevano crescere, per l’abitudine a starsene in disparte, per la sua predilezione a vestire di scuro, per quel viso dal colore inconsueto.

Uscire, non solo da casa sua, ma perfino dalla sua città, scendere in pianura, addentrarsi in luoghi che non aveva mai frequentato, incontrare degli sconosciuti, tutto questo lo spaventava più di quanto volesse ammettere.

– Se per te non è troppo disagio – aggiunse Russandol, come se gli avesse letto nel pensiero.

– Niente affatto – si affrettò a rispondere Morifinwë, per nascondere la sua inadeguatezza.

Il fratello finse di credere alla sua bugia. Disse: – Vuoi che ne parli io a papà?

Morifinwë si morse un labbro e annuì.

Russandol esibì il suo sorriso quieto, quello di quando vedeva che le cose potevano sistemarsi e che lui poteva contribuire a far sì che ciò avvenisse.

– Lo faccio subito – disse, e si alzò.

Morifinwë rimase solo in biblioteca a morsicarsi le labbra e a chiedersi che fine avesse fatto tutta la sua determinazione. Gettò un’occhiata distratta al libro che aveva davanti a sé e ai fogli sparsi pieni di scarabocchi, non sapendo se augurarsi che il maestro Arsanarwë acconsentisse alla richiesta suggerita da Russandol oppure no.



 


NOTE

Quello che avete appena letto è il primo capitolo di una long ambientata in Aman che racconta di alcuni eventi significativi accaduti a Morifinwë durante la sua giovinezza. Nata come prologo di una storia di tutt’altro genere, è poi cresciuta e si è ampliata fino a rendersi indipendente. Il risultato? Una storia di crescita personale, adatta a chi ha voglia di passare qualche ora nella testa di un adolescente Valinoreano.

La storia è betata da Kanako91, che ringrazio con tutto il cuore. I suoi preziosi consigli mi hanno aiutata a renderla migliore e a darmi abbastanza fiducia da condividerla con chi vorrà leggerla.

L’aggiornamento avverrà ogni venerdì.

Grazie a chi ha letto e a chi vorrà seguirmi in questa avventura!

 

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë = Caranthir
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë, Curvo = Curufin
Makalaurë (qui chiamato anche Laurë) = Maglor
Russandol = Maedhros

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il  maestro di matematica di Morifinwë e dei suoi fratelli maggiori. Il suo nome è composto da Ar- (brightest) e Sanar (thinker), perché è uno che sa far lavorare il cervello

Nomi di mia invenzione
Piana Dorata, l’ampia pianura che si estende a ovest di Túna, la collina su cui è costruita Tirion, e arriva fino alla regione dove sorgono Ezellohar e Valmar

Il concetto di settimana
Se qualcuno (pignolo come me) si stesse chiedendo se a Valinor esisteva il concetto di settimana, la risposta è sì. Si chiamava Lemnar ed era formata da 5 giorni (fonte: HoME vol. 5 - Etymologies)

 

  
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