Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: drisinil    03/01/2023    3 recensioni
Erwin Smith ha perso un braccio. Lo ha fatto per la causa, ma questo non rende la cosa più facile da accettare.
Questa storia è nata nell'ambito della challenge "Advent Calendar" del bellissimo gruppo fb Hurt/Comfort Italia, la parola chiave era "Misurare".
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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MISURARE LA VITA

 

Chi non prende bene le misure della vita, muore.

E’ un concetto piuttosto ovvio quando passi metà della tua giornata a volteggiare nel vuoto, gravando anima e corpo su un arpione metallico che può perdere l’appiglio ogni momento. Questione di millimetri, di istanti.

Direzione, tempismo, un perpetuo orientarsi in una cabala di numeri che disegna la distanza fra la vita e la morte, un calcolato, sconsiderato scommettere, senza neppure avere il tempo di rifletterci.

E quando scendi e riporti a terra i piedi, è ancora questione di misurare.

Misurare se stessi rispetto alla grandezza dei principi e scoprirsi minuscoli, sfilacciati, pieni di strappi. Misurare l’incapacità che si ha nel cuore di servire una divisa, piuttosto che l’uomo che la indossa.

Misurare gli stivali dei morti, perché calzino i piedi dei vivi. 

Misurare le distanze. Fra sé e il nemico. Fra sé e i compagni. Fra dogma e convinzione. Fra potenza e atto. Fra l’idea di uccidere e il coltello che entra nella carne e la trancia di netto: uno di meno. Lo spazio per i sensi di colpa è ridotto a una fessura minuscola, un’invisibile scucitura sulla divisa, all’altezza del cuore.

Quarantatre centimetri esatti fra la seggiola e il letto, che misurano la vertigine di un abisso, da colmare di silenzio e di rabbia, perché tu non c’eri.

Non c’eri e nei centosessanta (ridicoli) centimetri della tua assenza, quel corpo ha smesso per sempre di essere integro. E si è scavato un solco, fra prima e adesso, che cancella l’esistenza delle migliaia di gesti che un braccio dovrebbe compiere e non saranno mai più compiuti. Perché tu non c’eri.

“Beh? Ti sei incantato?”

Non si aspetta una risposta, ma si volta a guardarti e tu lo sai per esperienza che quel blu è troppo onesto - onesto, non limpido - per poterci passare attraverso senza aprirsi in due.

Il rumore che fa la lama quando scatta è familiare, rassicurante. Anche la sensazione del metallo sotto le dita esercita il suo squallido conforto.

“Non è pulito” osservi, guardando la superficie da vicino.

“Nulla è mai abbastanza pulito, per te."

Non sta parlando del rasoio, e in ogni caso non raccogli la provocazione. Togli l’ampolla dal lume sul tavolo e passi la lama sulla fiamma. Il manico si scalda. La tua mano si scalda. Vorresti che bruciasse, che le fiamme divorassero il tuo braccio destro per intero: le unghie, le falangi, il polso, tutti i muscoli e i nervi, fino al gomito e alla spalla. E comunque non andresti a pari.

Misuri i gesti e i pensieri, quando ti avvicini, tremano come l’acqua tiepida nel bacile; il sapone sa vagamente di qualche fiore di cui hai dimenticato il nome. Lui lo saprebbe, se glielo chiedessi. Ma non sai più come si fa a parlargli, senza continuare a inciampare con gli occhi nella mancanza di quel braccio, nella fine meschina che fa l’epica quando la battaglia finisce. Taci per decenza, esiti per vigliaccheria, e lui se ne accorge.

“Non devi per forza farlo tu” dice.

E chi altri? Chi dovrebbe prendersi la responsabilità?

Il viso che ti scorre sotto le dita è sensibile, screpolato, ispido. Lui chiude gli occhi ed è molto meglio così.

Tu gli occhi non puoi chiuderli. Non puoi chiuderli più. Neanche per un secondo.

Quando premi e tendi la pelle insaponata sugli zigomi, vedi la luce di una lacrima all’angolo dell’occhio, o forse una goccia d’acqua aggrappata alle ciglia.

Il rasoio risponde docile alle tue mani, tutte le lame lo fanno. Sei rapido, efficiente, militarmente preciso, lo sanno tutti.

Anche lui lo sa. Lui sa.

Sa tutto, anche quello che non dovrebbe sapere e quello che non sa lo intuisce con disturbante precisione. Ed è capace di usarlo quando non te l’aspetti. Anche contro di te, anche contro di sé.

Misurare i suoi talenti è uno spreco di energia. Misurare i suoi sentimenti un’inaccettabile eversione.

Il sapone scivola via dalla lama e si scioglie nel bacile, le rughe sulla sua fronte non si spianano (mai), si distendono appena. Ci passi sopra le dita umide e poi l’asciugamano, pulito, candido, duro dei lavaggi aggressivi con cui cerchi di smacchiare la stoffa e la vita dalla guerra.

Cogli più e più volte l’impulso di quella spalla a cui non è attaccato più nulla, ma che tenta di muoversi comunque, perché all’impotenza il cervello non si è ancora abituato. 

E’ quella manica vuota, macchiata di sangue, la misura esatta della tua assenza in un momento cruciale. Il costo di un gesto epico. 

Date i vostri cuori.

Sciacqui con cura il viso e poi il rasoio. Tamponi l’uno e l’altro e subito ti scosti, marcando la distanza di una subordinazione totale, che non è mai passata per le mostrine di una divisa.

“Ottimo lavoro. Grazie” dice semplicemente, tastandosi il mento.

“Dovere” rispondi. E quasi ti viene da fargli il saluto.

“Conti di passare ancora giorno e notte appollaiato su questa sedia come se fossi un moribondo?”

“Nossignore.”

“Lieto di trovarti ragionevole.”

“Prima vado a sciacquare questo” prosegui, sollevando a due mani il bacile. “Poi torno.”

“Almeno consuma un rancio come si deve. Dormi dentro a un letto qualche ora. E’ un ordine.”

“Non sei in servizio.”

“Stai contestando la mia autorità? Era al mio braccio destro che obbedivi? Buono a sapersi.”

“Fanculo. Signore.”

Sorride, anche se non c’è un cazzo da sorridere. E tu raggiungi la porta, mentre quel fottutissimo sorriso ispirato ti brucia la schiena.

“Capitano!”

“Agli ordini.” Neanche ti volti.

“Qual è il problema?”

Non hai mai risposto a una domanda idiota in vita tua, non intendi cominciare adesso.

“Qualsiasi cosa ti frulli in testa, smettila. Non sono più in età di essere tenuto a balia. Né da te, né da altri. E comunque, parlando in ottica brutalmente militare, meglio il mio braccio che il tuo.” 

“Che assurda cazzata!”

Apri la porta con il fianco. Onde anomale si agitano nel bacile.

“Levi.” 

Solo due sillabe, ma la sua voce leviga, ripulisce di ogni sozzura, solleva dal fango della vita.

“Anche in ottica brutalmente personale, meglio il mio che il tuo.”

Chiudi gli occhi per dominare i pensieri. Deglutisci saliva calda. Stringi i denti così forte che senti dolore nelle orecchie. E riprendi a misurare il tuo mondo.

Sessantotto centimetri: la falcata che ti occorre per superare la soglia.

Quarantuno centimetri (in tensione): il bicipite che non vedrai mai più.

Ventinove atti respiratori al minuto, dopo che hai chiuso la porta (trentasei in battaglia); ognuno ti spacca le costole. E le mani ti tremano.

Diciannove imprecazioni (più tre bestemmie) quando l’acqua si rovescia sui tuoi stivali.

Sette reclute, compreso il maledettissimo Jaeger,  su cui sfogare la frustrazione prima di tornare ai quarantatré centimetri fra seggiola e letto. Quando si addormenta, puoi ridurli a trentotto, con le ginocchia che premono contro il profilo del materasso.

 

***
 

NDA: è la prima AoT che scrivo e forse, avendo appena finito la stagione 3, è troppo presto, perché la mia visione dei personaggi potrebbe cambiare prima che finisca di vedere/leggere l’opera completa. Non sono riuscita a trattenermi. Vi prego non fatemi spoiler della stagione 4 nei commenti :)

 
   
 
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