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Autore: cabin13    15/01/2023    1 recensioni
[Post-time skip][MiyaTwins]
Mica capitava tutti i giorni di potersi scegliere il numero su cui campeggiava il proprio nome e con cui si avrebbe rappresentato l’intero Giappone di fronte agli occhi del mondo. {...}
Atsumu, dal canto suo, non si sbilanciava mai a rivelare quale fosse il numero agognato finché erano da Onigiri Miya {...} Era quasi finito febbraio quando l’arrovellamento di Osamu ottenne una risposta. {...}
Da gran bastardo quale era, Atsumu glielo fece sapere un po’ a tradimento.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Atsumu Miya, Osamu Miya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Più delle parole

Se avessero domandato a Osamu Miya secondo lui quanti neuroni fossero sopravvissuti nella testa bacata di suo fratello, non avrebbe avuto dubbi sulla risposta da dare. 

Forse un pelino poteva essere colpa sua, complici tutte le legnate che gli aveva rifilato (si erano rifilati a vicenda) sin da quando non sfioravano neppure il metro di altezza – in sua difesa poteva dire che Atsumu ogni volta ci si metteva d’impegno per dargli sui nervi e quindi se le andava proprio a cercare; lui agiva solo secondo il semplice principio di causa-effetto. 

Fatto sta che Osamu avrebbe potuto tenere una conferenza accademica sulla sua assenza di dubbi riguardo la penuria di connessioni neurali che Atsumu aveva in testa. Una prova di questa sua tesi gliela stava fornendo proprio sopracitato soggetto in quel preciso momento. 

Il palleggiatore l’aveva raggiunto da Onigiri Miya una sera di gennaio, il suo solito sorrisetto sghembo stampato in faccia a significare che l’allenamento appena concluso era andato parecchio bene. Osamu era stato tentato di lasciarlo fuori a congelarsi il culo, ma erano rimati ancora uno o due clienti tiratardi nel locale e non voleva dare una brutta impressione. Gli aveva pure rifilato un onigiri al tonno preparato con del riso avanzato riscaldato alla bell’e meglio, o che forse – ma solo forse – era stato cucinato apposta ex novo, e si era preparato a dover star a sentire le sue moine. 

Come da copione, Atsumu si stava prodigando in un dettagliato e non richiesto resoconto dei nuovi schemi di gioco che avevano messo a punto e che si era impegnato per provare con tutti i suoi schiacciatori. Inutile specificare che “Omi” fosse la parola ripetuta più di frequente nell’intero discorso, un sorrisino fastidioso che gli incurvava le labbra ogni volta. 

Osamu stava sul serio prendendo in considerazione l’idea di approcciare gli altri membri dei Black Jackals e proporre di chiudere i due idioti in una stanza e buttare via la chiave fino a che non ne avessero ricavato qualcosa. Che il “qualcosa” fosse l’omicidio di uno dei due (più probabilmente Atsumu, perché suo fratello sapeva essere... impegnativo. C’era da chiedersi come Sakusa non fosse ancora scoppiato) o finalmente la risoluzione di tutte le cose non dette che campeggiavano tra loro, a Osamu proprio non fregava. Lui voleva solo avere la sua pace e tranquillità. 

Anche se la prima opzione poteva essere controproducente considerando le Olimpiadi in vista. 

Aveva smesso di giocare, ma a Osamu sarebbe comunque piaciuto che il Giappone potesse vincere le Olimpiadi di pallavolo proprio nell'edizione che ospitava in casa, a Tokyo. E per sua sfiga, la nazionale maschile comprendeva tra i suoi ranghi anche l’idiota con cui condivideva il patrimonio genetico e l’altro idiota a cui il primo suddetto andava dietro. 

Proprio al riguardo del grande evento, però, Atsumu pronunciò le prime parole interessanti da quando aveva messo piede lì dentro: – La JVA ci ha detto che chi è in squadra da più tempo può esprimere preferenze sul numero di maglia che vorrebbe ricevere. 

Osamu si incuriosì. Certo, avrebbe preferito pulire l’intera strada all’esterno del locale con il proprio spazzolino da denti piuttosto che ammetterlo ad alta voce, ma la curiosità c’era. Mica capitava tutti i giorni di potersi scegliere il numero su cui campeggiava il proprio nome e con cui si avrebbe rappresentato l’intero Giappone di fronte agli occhi del mondo. L’ex opposto si teneva in contatto con Suna, che pure rientrava tra i quattordici designati, ma era uno degli ultimi arrivati e quindi avrebbe ottenuto uno dei numeri più alti senza alcuna voce in capitolo.  

Solo che Atsumu se non era impegnato a lagnarsi doveva fare lo stronzo, perciò non elaborò ulteriormente la sua affermazione. 

Il biondo si limitò a ingurgitare il resto del suo onigiri in un paio di bocconi voraci, finché Osamu presentava il conto a uno dei clienti che si era finalmente deciso a pagare. Poi raccattò il borsone che aveva mollato su una sedia vuota lì accanto, rivolse al fratello un mezzo insulto che nel suo (loro) linguaggio contorto valeva come un saluto e nel giro di due minuti sparì oltre la porta d’ingresso nella fredda sera di gennaio. 

Osamu non seppe se preoccuparsi per il comportamento insolito, se gioire che l’altro avesse finalmente imparato l’arte dell'evitare le chiacchiere moleste o se irritarsi perché l’aveva afferrata nel momento sbagliato. 

Quando anche il secondo cliente levò le tende, proprio allo scoccare dell’orario di chiusura, Osamu si perse nei suoi pensieri, le mani che eseguivano in un gesto ormai automatico le ultime procedure per rassettare la cucina e andare a casa. 

Di solito era piuttosto bravo a leggere gli atteggiamenti di suo fratello, anche quando Atsumu era reticente a rivelare cosa gli passasse per la testa – era un cavolo di libro aperto che la discrezione non sapeva manco che cosa fosse. Osamu credeva poco alla storia di essere connessi o che altro solo perché cresciuti in simbiosi sin da prima di venire al mondo; Atsumu era solo un idiota fin troppo facile da leggere, viste anche la tesi delle due misere connessioni neuronali a sua disposizione di cui Osamu era gran sostenitore. Fu facile, quindi, capire che non ci fosse nascosto niente di negativo nello strano atteggiamento dell’alzatore. 

Nei giorni successivi si ripeté che non ci teneva a indagare la situazione oltre. Atsumu straparlava, si comportava da strambo e lasciava i discorsi a metà perché aveva già pochi neuroni in partenza e adesso, dopo anni di risse tra gemelli, gliene restavano pure meno. Punto. 

Osamu aveva un locale a Osaka da mandare avanti e una nuova sede dello stesso a Tokyo da consolidare, grazie tante. Era già a posto con la sua dose di rogne, e doveva pure impegnarsi per vincere una scommessa. Tanto avrebbe comunque visto il numero all’inizio delle Olimpiadi, no? 

Ma la curiosità rimaneva. 

La bastarda era lì, sempre latente negli angoli più reconditi del suo cervello, pronta a farlo arrovellare alla minima occasione di distrazione. 

Anche perché l’altro bastardo non aveva più elargito alcuna spiegazione da quella fatidica sera, e Osamu non aveva certo intenzione di dargliela vinta al suo gioco e chiedergli se avesse voluto aggiungere anche qualcos’altro. Perciò si arrangiava. 

Forse l’idiota avrebbe provato a ripiegare sul 5. 

Era stato il primo numero – in un blu molesto impresso su un terribile fondo giallo limone – con cui si erano fatti un nome al secondo anno di scuola media, “i gemelli Miya” conosciuti da tutte le squadre della prefettura. In fondo il biondo era uno un po’ sentimentale e quel numero poteva essere importante per lui. Poi, più banalmente – perché comunque era dei ragionamenti di Atsumu che si parlava –, era pure la data del loro compleanno. 

Osamu non voleva indagare. Proprio no. 

Ogni tanto si lasciava andare a qualche elucubrazione quando la maledetta curiosità si faceva più insistente, ma non ci teneva a perderci su la testa. 

Non era colpa sua se le sue orecchie si sintonizzavano sulle conversazioni riguardanti la nazionale ogni volta che suo fratello era al locale con il resto della squadra e tirava fuori il discorso con Bokuto e, ogni tanto quando accettava di socializzare con altri esseri umani, anche Sakusa. Di solito era allenato a isolarsi dalle chiacchiere vivaci dei giocatori – tecnica messa a punto in anni di pratica in cui il palleggiatore biondo spesso trascinava da Onigiri Miya buona parte dei suoi rumorosi compagni di squadra e Osamu doveva in qualche maniera salvaguardare la propria sanità mentale. Come facesse Meian a sopportarli praticamente ogni giorno senza avere un aneurisma, lui non ne aveva idea. 

Fatto sta che per qualche (non troppo) oscura ragione Osamu trascendeva il suo isolamento e riusciva a captare l’argomento nemmeno fosse un grillo con le antenne dritte sulla testa. Certo, il timbro irritante di suo fratello e il tono settato di default a mille mila decibel di Bokuto gli semplificavano un bel po’ le cose. 

I due laterali non si erano fatti problemi a dire quali numeri speravano di ottenere: Bokuto puntava al 4 che aveva al liceo, a Sakusa sembrava non poter fregar di meno e gli andava bene lo stesso 15 con cui giocava negli MSBY. 

(O forse Sakusa aveva solo un modo di ragionare tutto suo e quel numero sulla maglia aveva un significato più profondo che non voleva condividere, Osamu non avrebbe mai saputo dirlo. Era suo fratello quello provvisto di traduttore “Omi-linguaggio umano”. La sua fissa per le mille sfumature dei bronci che lo schiacciatore metteva su un giorno sì e l’altro pure faceva venire all’ex opposto un’improvvisa voglia di vomitare.) 

Atsumu, dal canto suo, non si sbilanciava mai a rivelare quale fosse il numero agognato finché erano da Onigiri Miya, e nessuno dei suoi compagni ci faceva mai riferimento. Neppure Inunaki, che di solito non perdeva mai l’occasione di tirare in ballo l’alzatore, quasi sempre per uno sfottò – e per questo gli stava parecchio simpatico. 

Era quasi finito febbraio quando l’arrovellamento di Osamu ottenne una risposta. 

Il ragazzo si era già figurato di dover aspettare fino a un comunicato ufficiale della Federazione Nazionale a estate inoltrata, o addirittura fino alle gare in agosto, perciò la rivelazione lo colse del tutto alla sprovvista. 

Da gran bastardo quale era, Atsumu glielo fece sapere un po’ a tradimento. 

Lo stronzo provò una prima volta a piombare al locale nel momento meno indicato: era orario di pranzo e Osamu aveva il suo bel daffare a destreggiarsi tra gli ordini dei numerosi clienti che affollavano i tavoli e gli sgabelli al banco. Quasi non si accorse della presenza dell’alzatore, se non fosse che uno dei suoi dipendenti glielo fece notare. 

il biondo aveva stampata in faccia un’espressione che, di norma, avrebbe portato Osamu a prepararsi per il peggio. 

L'aveva già detto che Atsumu era un maledetto libro aperto? Perché glielo si leggeva a chiare lettere che stava macchinando qualcosa; il sorrisetto sghembo che gli incurvava le labbra aveva quella stessa sfumatura che faceva suonare ogni allarme nella testa di Osamu avvertendolo che il suo gemello stava per combinare qualcosa – che, stando alle esperienze passate, al novanta percento non gli sarebbe piaciuto per niente. Poté solo registrare questo pensiero, però, senza avere possibilità di elaborare ulteriormente, troppo preso dai clienti di cui doveva occuparsi se voleva mandare avanti la sua attività. 

Atsumu preferì non essere d’impiccio (non era così stronzo da infastidire suo fratello nel pieno del lavoro) e gli disse che sarebbe passato più tardi, una volta calmato tutto quel putiferio. 

E infatti si ripresentò da Onigiri Miya qualche tempo più tardi, optando per un momento vicino all’orario di chiusura. La folla che occupava il locale solo alcune ore prima si era finalmente dissipata, principalmente perché molti clienti erano lavoratori in pausa pranzo e adesso erano tornati ognuno alle proprie mansioni in ufficio o dovunque fossero; restavano solo il Miya proprietario e alcuni dipendenti. 

Il sorriso sghembo non aveva abbandonato il volto di Atsumu. 

– Guarda che siamo chiusi – borbottò Osamu quando l’altro si accomodò imperturbabile a uno degli sgabelli di fronte al bancone. 

Non suonava molto credibile, però, con l’immancabile onigiri al tonno che era già tra le mani di Osamu e che stava venendo messo davanti al naso del palleggiatore. 

Osamu era abbastanza esausto. L'attività procedeva bene lì a Osaka e ne era soddisfatto, ma era estenuante far fronte all’orario di punta e ogni volta che arrivava alla fine si sentiva come svuotato. Anche il suo cervello doveva funzionare a scoppio ritardato (che le scarse connessioni neuronali fossero contagiose?), perché non associò subito l’espressione furbesca di suo fratello con la frase che quello pronunciò dopo aver addentato il primo boccone di riso. – La JVA mi ha finalmente mandato la maglia della nazionale. 

– Mmh. 

– Certo, è solo la prima maglia, ci daranno la seconda divisa quando saremo al ritiro della nazionale prima dell’inizio delle Olimpiadi. Ma finalmente è arrivata! 

– E com’è che non la stai già sventolando a destra e a sinistra? 

Conosceva fin troppo bene suo fratello – vantaggio dell’essere stati a stretto contatto l’un l’altro fin da neonati, o qualunque cosa credesse la gente riguardo i gemelli. 

Atsumu era un esibizionista di prima categoria; monopolizzava l’attenzione di chiunque gli stesse intorno e si impegnava a farlo perché gli piaceva, perciò era sospetto che non gli stesse già martoriando le orecchie su quanto fosse stupenda la sua nuova maglia, o su quanto gli stesse bene – al che lui avrebbe dovuto ribattere come da copione che lo faceva pure sembrare quasi un giocatore serio, Atsumu si sarebbe infervorato e da lì avrebbero dovuto dare il via al loro ennesimo battibecco senza capo né coda. Si sarebbero punzecchiati a non finire, mentre Osamu rassettava la cucina e permetteva all’ombra di un sorriso di incurvargli le labbra perché comunque, lo insultava almeno trenta volte al giorno ma era fiero dei risultati che il suo gemello stava ottenendo. 

– Sei scemo, ‘Samu? Sapevo già che non eri a posto, ma forse a furia di cuocere riso tutto il giorno ti sei cotto anche il poco cervello che ti è rimasto. 

– ...eh? 

Sì, Osamu era un po’ cotto al momento. Non vedeva l’ora di chiudere per potersi permettere qualche meritata ora di riposo, ma non poteva certo concedere ad Atsumu la soddisfazione di averglielo fatto ammettere. 

Però solo in quel momento registrò un piccolo dettaglio fondamentale. 

Spesso l’alzatore passava da Onigiri Miya prima o dopo gli allenamenti, portandosi appresso il borsone e indossando la felpa degli MSBY e una delle magliette che usava in palestra. Se era inverno, come in quel caso, si intravedeva solo il colletto della felpa al di sotto del giubbotto più pesante; quando lo toglieva, perché dentro il locale faceva comunque caldo, la felpa restava quasi sempre chiusa e la maglietta non si vedeva. Maglietta che Osamu sapeva essere nera

Ma stavolta la cerniera della giacca era aperta. E il colore che si vedeva al di sotto era rosso

Il suo cervello processò al rallentatore ogni particolare: le decorazioni scure intorno al foro per la testa, il minuscolo logo dello sponsor sportivo sul lato destro, mentre a sinistra il rettangolino bianco su cui campeggiava la bandiera del Sol Levante con in basso la sigla “JPN” in caratteri occidentali con cui veniva abbreviato il Paese in ogni competizione ufficiale. E sotto tutto quello, all’altezza del petto di suo fratello, stampato in un font così bianco ed enorme che probabilmente avrebbe abbagliato pure un cieco, c’era impresso il numero 11. 

Il sorrisino sghembo sul viso di Atsumu si allargò mentre si toglieva anche la felpa; Osamu non era sicuro che quello che stava vedendo fosse reale. 

Non portava il 5 come lui si era immaginato. Aveva il numero 11. 

Undici

– E non è finita qui – sorrise ancora di più il biondo, alzandosi in piedi e girandosi di spalle al bancone. 

Di nuovo, Osamu dovette battere le palpebre un paio di volte per accertarsi che gli occhi e il cervello avessero registrato le informazioni corrette. Quel numero era davvero reale, impresso pure sul tessuto tra le scapole del palleggiatore, così come il cognome “Miya” in stampatello appena sopra di esso. 

– Tu... non hai mai giocato con l’11... – fu la frase più intelligente che gli uscì fuori e si insultò da solo per questo. 

– Ma non mi dire. 

Era lui quello ad aver indossato quel numero, ma solo per puro caso quando gli era stato assegnato dai coach al secondo anno di liceo. E non era nemmeno durato molto, visto che, a parte per il torneo estivo, non aveva nemmeno giocato la seconda finale dei preliminari e poi la loro squadra era uscita subito al primo turno dell’inter-liceale a gennaio contro il Karasuno. 

– La finale dell’inter-liceale di agosto. 

– Eh? 

– La finale che abbiamo giocato al secondo anno, quella contro l’Itachiyama. 

Sì, Osamu se la ricordava fin troppo bene; quella sconfitta aveva bruciato per settimane più di una reale ustione. Ma lo stesso, Atsumu non lo stava aiutando a capire dove volesse andare a parare. 

– Un contesto un po’ più preciso? 

– È questo il contesto più preciso! 

Sul serio, Osamu avrebbe dovuto ricevere un premio nazionale per tutto l’autocontrollo che manteneva quando aveva a che fare con suo fratello. O di una settimana di ferie a Bali. Oppure almeno una paga extra, si accontentava di poco. 

– Smettila di fare quel muso incattivito, che poi diventi ancora più brutto di quello che già sei. 

– Abbiamo la stessa faccia, cazzon- 

Oh

La stessa faccia. Lo stesso cognome. 

Lo stesso numero di maglia. 

I gemelli Miya della pallavolo di nuovo insieme su un campo di fronte agli occhi del mondo intero. 

– “Non abbiamo bisogno dei ricordi”, quello che conta mentre giochi è solo il “qui e ora” – spiegò Atsumu, riprendendo il motto della loro scuola superiore. – Di essere arrivati secondi o terzi negli inter-liceali o di aver vinto la V-League l’anno scorso non ce ne facciamo niente, perché è importante solo come giochiamo in campo in quel momento. 

Fosse stato meno esausto, Osamu avrebbe intimato all’altro di arrivare dritto al punto col suo solito brusco modo di fare – e ovviamente Atsumu l’avrebbe presa ancora più alla larga per il puro gusto di irritarlo. Ma Osamu non aveva i neuroni funzionanti in quel momento, così lo lasciò andare avanti. 

– Alla fine di quell’inter-liceale il Giappone l’ha visto come giocano i gemelli Miya quando pensano solo al “qui e ora”, no? Omi-kun e l’Itachiyama se li sono dovuti sudare quei tre cazzo di set. 

L'alzatore adesso stava sorridendo

Non era uno dei suoi soliti ghignetti strafottenti e furbi, di quelli che di solito facevano correre un brivido di anticipazione lungo la spina dorsale di Osamu per vedere l’ennesima trovata idiota che si sarebbe inventato, o che gli facevano salire l’impulso di levargli quell’espressione dalla faccia a suon di pugni. (O entrambe le cose insieme, era un tipo flessibile lui.) 

No, era un vero sorriso. Rarissimo. Si potevano contare sulle dita delle mani le volte in cui Atsumu aveva rivolto un sorriso sincero a qualcuno che non fossero la nonna o la mamma. 

E quelli che erano stati destinati a Osamu potevano stare pure solo sulle dita di una. 

– Visto che ci sono, ho pensato di farlo vedere anche al resto del mondo. 

Osamu doveva aver toccato qualcosa che era stato a contatto con le cipolle, mentre riordinava la cucina, e poi doveva essersi messo le mani in faccia. Poteva spiegare come mai gli occhi avessero preso a offuscarsi e pizzicare agli angoli in quel momento. Non poteva però spiegare perché avesse appena avvertito anche una stretta al cuore e gli fosse salito un groppo alla gola, e così era più difficile ingannare sé stesso. 

Schizzò come un razzo verso l’uscita del cucinino a vista, fece il giro del bancone e investì Atsumu in un abbraccio che questo accolse a braccia aperte. Forse gli scappò pure un singulto mentre seppelliva il viso nell’incavo del collo di suo fratello. 

– Rimani comunque un idiota. 

Un risolino divertito. – Non sono io quello che sta frignando sulla spalla di qualcun altro... 

I momenti teneri non erano proprio il loro forte. Erano abituati a picchiarsi e insultarsi ogni tre per due sin da quando erano piccoli (molto probabilmente avevano iniziato a menarsi quando erano ancora in grembo), e anche da adulti il loro rapporto non era poi molto diverso. Cambiava la distanza e il fatto che avessero preso ognuno la propria strada, ma c’erano pur sempre altri modi per compensare: l’emoji col dito medio era la più usata su WhatsApp da tutti e due per una buona ragione. 

Tuttavia, lì sul posto gli insulti non risultavano molto convincenti per nessuno dei due, pronunciati con gli occhi lucidi e la voce che tremava nel disperato tentativo di non spezzarsi in singhiozzi commossi. 

Atsumu all'inizio aveva preso malissimo la decisione di suo fratello di non diventare un professionista e, Osamu lo conosceva fin troppo bene, si era preso il suo tempo per metabolizzare la faccenda. Un po’ per egoismo, sì – perché credeva davvero che la pallavolo fosse la strada migliore per realizzarsi –, ma non era del tutto un demone: erano stati “i gemelli Miya” per così tanto tempo, un pacchetto unico e inscindibile, che era stato spiazzante ritrovarsi da solo proprio quando gli si presentava davanti il più importante salto nel vuoto. 

E adesso l’alzatore gli si parava davanti indossando quella maglietta. 

So che sarai al mio fianco anche se non saremo sullo stesso campo

Perché diamine se era vero che Osamu sarebbe stato sempre al fianco di suo fratello. Tra insulti, prese in giro, a suon di pugni giusti giusti sui nervi delle spalle e magari con qualche pedata negli stinchi annessa, ma l’avrebbe sostenuto sempre. Atsumu lo sapeva, e faceva altrettanto – Osamu se le ricordava a memoria tutte le volte in cui il biondo l’aveva aiutato a rimettersi in piedi quando era stato sull’orlo di una crisi mentale mentre tentava di avviare la sua attività. Forse sarebbe davvero finito su una strada a rimpiangere di non essere diventato un professionista se Atsumu non gli fosse stato vicino. 

– Se osi perdere alle Olimpiadi con questa maglia ti faccio pagare tutto il doppio. Compresi gli interessi – minacciò, il volto affondato ancora nella spalla dell’alzatore. 

– Anche gli onigiri al tonno? 

Soprattutto quelli. 

– Sei proprio senza cuore... – piagnucolò l’altro con un tono fintamente offeso. – Sta’ a vedere come la vinco quella medaglia. 

Osamu avrebbe potuto pubblicare un saggio riguardo la sua teoria di neuroni che mancavano in testa a suo fratello; era un accanito sostenitore della tesi e non mancava di rinfacciarlo con una precisione disarmante anche al soggetto della stessa ogni volta che gliene se presentasse la possibilità. (Atsumu gli diceva che suonava come un disco rotto.) 

Ma era solo il loro complicato modo di volersi bene, superava le semplici parole prediligendo i gesti. 

Loro erano i gemelli Miya, sempre uno a fianco dell’altro che fossero su un campo di pallavolo o meno. E quella maglia con il numero 11 l’avrebbe mostrato al mondo intero. 










Hola gente
Doveva essere una storia breve. Doveva. Poi ha fatto quello che voleva lei e mi è leggermente sfuggita di mano trasformandosi in questa roba qua...
Questa cosa vien fuori da me che mi chiedo perché nel time skip Atsumu abbia proprio il numero 11 in nazionale - perché okkei, era il numero di Osamu e tutto, ma non è che fosse il primo numero con cui hanno giocato insieme o che. L'11 ce l'ha solo al secondo anno di liceo e sì, sarà la prima volta che i gemelli appaiono nella storia in sé ma per loro sarebbe comunque un numero un po' randomico (spero si capisca cosa intendo lol)
La maglia della nazionale che ho descritto è la stessa del Giappone alle Olimpiadi 2020 (link)
Non sono una grande fan dei numeri scritti in cifre nelle storie, l'ho comunque fatto quando mi riferivo alle maglie e la cosa ancora non mi convince del tutto, quindi sono aperta a qualsiasi feedback
Come sempre, anche il titolo e la conclusione (soprattutto la conclusione) non mi convincono del tutto... l'avrò riscritta tipo cinque volte e questa versione che pubblico è arrivata come un flash alle due di notte. Anche qui sono ben accette opinioni e critiche costruttive
Ringrazio chi recensirà e anche chi leggerà e basta
Alla prossima gente
Adios
   
 
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