Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    22/01/2023    1 recensioni
“Sai, Armin” proseguì invece Jean. “In tutto questo errore nel quale siamo immersi, io vedo solo una cosa giusta… i miei compagni… e sapere che tu ci sei. Tra tanti sbagli, tu non sei uno di quelli”.
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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Fanfic scritta per il writober indetto da Fanwriter.it.
Lista: Pumpnight
Prompt: 17. Sbagliato
Titolo: In questo mondo che è tutto un errore
Fandom: Attack on titan
Personaggi: Armin e Jean
Rating: Giallo
Genere: Angst, introspettivo, hurt/comfort, drammatico
Warning: riferimenti a violenza, cannibalismo, sangue, morte (tutto nel canon comunque). Spoiler terza stagione

 
 
IN QUESTO MONDO CHE È TUTTO UN ERRORE

 


“Ho mangiato Berthold… Ho ereditato il colossale… il comandante Erwin è morto… e io sono vivo…”.
Una catena di pensieri che si rincorrevano e si aggrovigliavano l’uno sull’altro…
Capitava che si sforzasse di metterli da parte, perché era necessario andare avanti, non poteva permettersi altro se non sopravvivere all’orrore che aveva dentro, lo doveva a tutto quel che era accaduto, lo doveva a chi aveva scelto lui, lo doveva ad Erwin, a Eren, a Levi…
E cosa doveva a se stesso?
Nulla.
Lui doveva solo annullarsi in tutto quel che era accaduto e cercare di resistere per non soccombere al proprio senso di nullità.
Da quel giorno sui tetti di Shiganshina, i suoi sogni erano peggiorati, la confusione si era impadronita delle sue notti, in cui non riusciva più a distinguere dove finiva la sua coscienza, dove iniziava quella di Berthold e, chissà, quella di tutti i colossali esistiti fino a quel momento.
Quando i sogni si facevano insopportabili, tanto che aveva paura di tornare a dormire, nonostante la stanchezza estrema cui il suo fisico e il suo animo erano sottoposti, si alzava e, nel cuore della notte, si metteva a camminare senza sosta.
A volte crollava, i suoi sensi si spegnevano e si risvegliava in posti improbabili, come un sonnambulo che non si accorge di nulla. Altre volte, semplicemente, camminava per ore, tutta la notte, o si metteva a leggere a lume di candela, tra un attacco di nausea e l’altro.
Vomitava il nulla che aveva in corpo, perché riusciva a mangiare ancora meno di prima e, di nuovo, sveniva.
Difficilmente qualcuno lo trovava in quei momenti, perché lui stava bene attento a nascondersi dal mondo.
Un tempo, quando la pesantezza dentro il suo cuore diventava troppa da sopportare, c’era Eren al suo fianco, non si faceva problemi a rifugiarsi tra le sue braccia, si davano conforto reciproco, si donavano comprensione e amore.
Dopo Shiganshina, invece, era accaduto qualcosa: l’affetto, anche l’amore, erano intatti, ma c’era qualcosa che impediva ad entrambi una condivisione completa, quasi ciascuno dei due avesse il proprio personale fardello da portare, quasi nessuno dei due volesse più spartire il proprio con l’altro o non ne avesse la forza.
Qualcosa di non detto, destinato a rimanere tale.
Armin si sentiva solo e sapeva che anche Eren si sentiva solo come mai prima d’ora: entrambi conoscevano la sofferenza dell’altra metà del loro cuore, senza poterla, né saperla colmare.
 
***
 
Quella era una delle tante notti in cui il sonno faceva più paura della stanchezza.
Da quando aveva ereditato il colossale, se possibile le sue giornate erano diventate più onerose che mai: Hange aveva preso in consegna la sua preparazione, come in passato aveva fatto con Eren e adesso toccava a lui sottoporsi a prove, esperimenti, tentativi di sondare il proprio corpo per dominare il colossale e controllarlo al meglio.
Non aveva ancora imparato, la volontà non gli rispondeva, la paura vinceva su ogni tentativo e riusciva solo a farsi del male, a torturare le proprie membra e a giungere allo stremo, ora dopo ora.
Aveva bisogno di dormire, ma dormire era spaventoso.
Aveva bisogno di nutrirsi, ma mettersi qualcosa in bocca significava ricordare.
“Ho mangiato Berthold…”.
Il suo organismo rifiutava di alimentarsi, la sua mente rifiutava il riposo, la sua forza di volontà, che era sempre stata incrollabile, serviva solo a non fargli perdere la ragione e a sopravvivere agli stenti.
E, di sicuro, non gli permetteva di apprezzare se stesso.
“Voglio morire” ansimava, camminando nella notte, passo dopo passo, barcollando come un ubriaco, la testa che girava e la nausea che lo aggrediva senza pietà.
Voleva morire, ma non poteva farlo: troppo comodo, troppo ingrato.
“Sono già un errore io stesso… non posso prendere una strada così comoda per me, non sarebbe giusto”.
Si resse al muro con una mano e si piegò in avanti: vomitò, non sapeva neanche cosa potesse vomitare ormai, cosa gli era rimasto se non le viscere?
Si portò una mano alla bocca e, alla luce di una fiaccola appesa al muro sopra di lui, scorse alcune gocce di sangue.
Il suo sospiro si trasformò in un piccolo lamento sconsolato: era pieno di ferite sulla superficie del corpo e cominciò a pensare di essere in pezzi anche interiormente.
Se almeno tutto quel sangue versato si fosse rivelato un veicolo efficace per dominare il mostro che aveva ereditato…
Strinse le labbra ed emise un singhiozzo, poi fu sul punto di urlare quando una mano si posò sulla sua spalla.
“Armin…”.
“Jea… Jean…”.
“Ti ho visto scivolare fuori dal letto e ho immaginato che non stessi bene”.
Armin scosse il capo, cercò di negare.
Non voleva quelle attenzioni, non le meritava, non ne era degno e poi…
Doveva dimostrare di sapersi arrangiare da solo, di non essere più un bambino da proteggere, non aveva mai voluto esserlo.
Sapeva che Jean cercava di stargli vicino, nonostante lui si mostrasse sfuggente.
“Hai vomitato di nuovo?”.
Rintanò la testa tra le spalle.
“Sto bene”.
Non venne fuori un tono troppo convinto, anzi, le parole furono a malapena un sussurro.
Nel momento stesso in cui le ebbe pronunciate, un capogiro più violento degli altri lo fece barcollare in maniera vistosa e probabilmente sarebbe caduto a terra, se Jean non fosse stato pronto a sorreggerlo.
La nausea lo spinse a portare una mano alla bocca.
Jean scese in ginocchio con lui, senza lasciarlo neanche per un istante.
“Armin… liberati, lascia andare”.
Non poté fare a meno di obbedire e, per l’ennesima volta quel giorno, vomitò…
Solo acqua e liquidi…
E sangue… ancora.
L’attacco terminò in un lamento, seguito da un’imprecazione rabbiosa, mentre cercava di divincolarsi dalle braccia di Jean.
“Non ti lascio neanche se mi implori. Non mangi niente e non hai più nulla da vomitare se non il tuo stesso sangue e fingi ancora che vada tutto bene?”.
Armin strinse i denti, poi se ne uscì con una risposta furiosa:
“Non voglio la pietà di nessuno, non dovrei neanche essere qui, almeno non compatitemi, maledizione! Non lo posso sopportare!”.
“Armin!”.
Jean sbottò, lo scosse con foga e lo tenne ancora più stretto, cercando inutilmente il suo sguardo che continuava a fuggire.
Lo strinse sotto le spalle, per farlo girare verso di sé e lo fulminò con lo sguardo:
“Adesso voglio che mi ascolti attentamente, piccolo stupido!”.
Gli occhi di Armin si spalancarono nei suoi, grandi e smarriti:
“Jea… Jean…”.
“Io sono felice che tu sia qui! Quando ti ho visto morto… hai immaginato come mi sono sentito?!”.
“Ma…”.
Lo scosse più forte e Armin vide i suoi occhi farsi lucidi, udì la sua voce vibrare, non solo di rabbia:
“Hai immaginato come ci siamo sentiti tutti?! Hai sentito le urla di Eren?! Hai capito quanto… quanto abbiamo sperato?!”.
La voce si spezzò e la stretta sulle braccia di Armin si allentò. Jean portò una mano al volto, ormai le lacrime non le tratteneva più:
“Non ci volevamo credere… noi…”.
Anche la voce di Jean adesso era bassa, le parole rotte, incerte:
“Tutti noi… volevamo che fossi tu. Eren voleva che fossi tu… Mikasa… Connie…”.
La mano scivolò verso il basso, si posò sulla spalla del ragazzino:
“Io volevo che Levi scegliesse te… nessuno di noi poteva imporsi ma…”.
Si chinò in avanti e abbandonò contro Armin tutto il proprio peso, tanto che il ragazzino faticò a reggersi sulle ginocchia. La fronte di Jean si posò sul suo petto:
“Smettila, per favore, smettila di pensare che quella scelta sia stata sbagliata!”.
Sorpreso e sconvolto da tutto quel dolore, colpito dalle parole di Jean, Armin rimase immobile, muto, incapace di qualsiasi reazione.
Si lasciò sfuggire un piccolo mugolio di stupore quando Jean lo strinse a sé con disperazione:
“Non è pietà la mia, non lo è quella di Eren, quella di nessuno di noi. È sollievo… sollievo perché ti abbiamo ancora al nostro fianco, perché io ho già perso qualcuno che mi ha portato via l’anima e non accetto, non posso accettare di perderne un altro pezzo!”.
Il piccolo deglutì, tremava così tanto da sentirsi andare in frantumi.
Jean si staccò, mantenne solo le mani sulle sue spalle, il viso basso e continuò a parlare, lentamente. Aveva riacquistato un po’ di autocontrollo:
“In realtà, lo sappiamo benissimo tutti che il nostro è egoismo. Tu non ci hai guadagnato per nulla… e immagino che nessuno di noi vorrebbe essere al tuo posto… il colossale…”.
Un ghigno amaro gli comparve sul volto, risollevò lo sguardo e passò le dita, con delicatezza, sulla guancia di Armin.
“Ma guardati… tu… il colossale…”.
Armin arrossì, deglutì, socchiuse tristemente gli occhi.
“Io forse vorrei essere al tuo posto… non fosse altro che per poterlo evitare a te…”.
Armin scosse il capo:
“No… Jean… senti…”.
“Sai qual è il problema? Che, al tuo posto, io sarei un incapace. Non sarei in grado di reagire co1me stai reagendo tu”.
La testa di Armin si scosse ancora, ma Jean gli impedì di parlare:
“Tu non hai idea… non riesci proprio a vederti come ti vediamo noi…”.
Un sorriso autoironico comparve sul volto di Armin:
“Io non lo so come mi vedo… mi sembra tutto così profondamente sbagliato…”.
“Certo che lo è”.
La replica convinta di Jean lo spinse di nuovo ad incrociare, con stupore, il suo sguardo.
“Questo casino che viviamo ogni giorno cosa può avere di giusto? Ci viviamo da sempre in mezzo allo sbaglio, questo mondo maledetto è sbagliato, non credi?”.
Armin affondò i denti nel labbro inferiore:
“Io non so cosa credere, Jean… davvero… non lo so… sono così…”.
Si interruppe, perché la voce fuggì al proprio controllo e il bisogno di piangere divenne insopportabile.
“Confuso?” concluse Jean al suo posto. “E chi non lo è? Tu ne hai più motivo di tutti”.
Con un dito raccolse una lacrima dalla guancia del più piccolo.
“Tra tutti e due trasformeremo questo posto in una valle di lacrime”.
La battuta di Jean strappò ad Armin una risatina. Gli fu grato per quel momento di leggerezza, anche se non riusciva a ringraziarlo a parole.
“Sai, Armin” proseguì invece Jean. “In tutto questo errore nel quale siamo immersi, io vedo solo una cosa giusta… i miei compagni… e sapere che tu ci sei. Tra tanti sbagli, tu non sei uno di quelli”.
I singhiozzi di Armin esplosero incontrollati e, con essi, la sofferenza fisica che di colpo non riuscì più a gestire. Il pianto si spense con l’annullamento dei sensi, mentre il suo corpo cedeva del tutto alle braccia di Jean.
 
 
 
   
 
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