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Autore: Dorabella27    23/01/2023    14 recensioni
Torniamo ancora al fatale rientro del Conte di Fersen in terra francese: e come sempre, è un ritorno foriero di illusioni, speranze, preoccupazioni ... Versione alternativa, ispirata alla birichina, e irresistibilmente goliardica, OS di Mareggiata.
E dunque: il racconto si apre con un André insolitamente nervoso, lui, di solito così preciso, pacato, controllato. Che cosa mai lo inquieterà tanto? Una sorta di commedia in cinque atti, un pochetto OOC, che rilegge, sotto un'altra prospettiva, i fatti e le vicende dell'episodio 25. Buona lettura!
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Axel von Fersen, Hans Axel von Fersen, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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DEL TRIONFO DELLA BOEMIA
O
LA VERA STORIA, CHE NESSUNO HA MAI OSATO RACCONTARE  - VERSIONE ALTERNATIVA
-Commedia in cinque atti-
 
1
“Piano, André!  O finirai per scheggiare il servizio da the di Meissen della Contessa Marguerite!”.
Il richiamo della nonna ebbe il potere di fare rientrare, per un attimo, il giovane in sé, dopo che aveva sbatacchiato sul vasto tavolo della cucina, con malagrazia a stento trattenuta, il vassoio con le tazze e i piattini da cui aveva appena bevuto il the, con Oscar e il conte di Fersen, nell’ampio salone che dava sul parco, infiammato dal tramonto autunnale.
A quel suono di ceramiche scosse, e al richiamo dell’anziana governante, Midinette[1], seduta, all’altro capo della cucina, e impegnata a ricucire con refe di seta finissima il cappone farcito di ostriche, arrivate freschissime dalla Normandia[2], e che sarebbe stato servito a cena di lì a qualche ora, per la delizia del conte svedese, drizzò le orecchie. Che, si sa, Monsieur le Comte Oscar avrebbe piluccato con aria svogliata anche la manna del Signore, mentre André, notoriamente di buon carattere e di buon appetito, avrebbe fatto onore con un identico sorriso a un piatto di pane e formaggio come a un pasto a base di caviale e champagne. E dunque, a che cosa era motivato quello scoppio sommesso di malagrazia, così strano, soprattutto nel nipote dell’anziana governante, soprannominato dalla servitù di Palazzo Jarjayes, Monsieur La Précision[3] per il suo aplomb e per l’autocontrollo inappuntabili in ogni occasione?
“E sono stato io, io a insistere perché rimanesse … quel… quel…”, rimuginò fra sé André, mentre portava all’ospite, che stava riempiendo le orecchie di una sempre più ammirata Oscar con esotici, fantasmagorici racconti sulle usanze dei nativi Americani, una bottiglia di champagne, corredata da tre bicchieri.
Poi, cercò di riprendere il controllo di sé e delle sue emozioni, vergognandosi per quei pensieri sgradevoli.
Come poteva dimostrarsi così meschino, così geloso, se Oscar, la sua Oscar, dopo sette anni di pene trattenute silenziosamente nel suo cuore, era stata così consolata, così felice, vedendo Fersen tornare sano e salvo dall’America, tanto da chiedergli di restare ospite della famiglia Jarjayes per qualche tempo? E poi, come André Grandier poteva, in coscienza, rimproverarsi di essere stato lui stesso a insistere perché il Conte si trattenesse a Palazzo? “Dovete restare: dopotutto non ci vediamo da diversi anni. Credo che avrete molte cose da raccontarci: per esempio, tutte le vostre avventure americane!” Lo aveva detto lui stesso, lui, che non era padrone di nulla, che non possedeva nulla, se non gli abiti che portava addosso, e che solo per speciale degnazione e benevolenza di Oscar aveva potuto esprimere la sua opinione in merito; ma solo perché Oscar non lo aveva mai trattato come un servo, e così, qualche volta, lui stesso si sorprendeva a sognare - e che Dio lo potesse perdonare! -come a occhi aperti, di condividere una casa tutta sua con Oscar, e che la convivenza, sotto l’austero tetto di Palazzo Jarjayes, del Colonnello Oscar e del suo fidato e fedele attendente potesse essere assimilabile alla convivenza di una coppia, unita davanti a Dio e agli uomini, alla luce del sole…
E quel brindisi, in omaggio a Fersen… lui, lui l’aveva fatto; intendiamoci, lui, André Grandier, non odiava nessuno, né, tanto meno, odiava Fersen: perché mai avrebbe dovuto odiarlo? Aveva avuto anch’egli la sua parte di dolori e amarezze, e nemmeno sospettava, almeno, così sperava André, quale sconvolgimento sentimentale avesse causato nel cuore di Oscar …
Dannazione!, si sorprese a mormorare, e, un attimo prima di ricomporre il volto al consueto sorriso cordiale, si fermò, nel buio, poco prima della soglia della stanza, ad ascoltare le mirabolanti sciocchezze che l’eroe delle Americhe raccontava a Oscar sulle usanze dei nativi americani:
“E poi, vivono e trascorrono i loro gelidi inverni in ripari che chiamano wigwam, di terra battuta e pelli, e vi assicuro, che dentro quei ripari possono vivere anche quattro o cinque famiglie, e il calore è superiore persino a quello di una Stube tedesca!”.
“Oh! Che cosa interessante, Fersen”. Quando rispondeva a Fersen, la voce di Oscar assumeva un tono flautato tutto particolare, che ammorbidiva il suo tono da contralto …
Oscar, Oscar, ma non ti rendi conto che, nonostante quel che dice, che non se la sente di tornare a Versailles, che non intende rivedere la Regina, Fersen ti farà soffrire?, pensò scuotendo la testa André, e mettendo un piede davanti all’altro.
“Eccoti qui, André”, Oscar si era volta verso di lui con uno sguardo vivace, le guance imporporate di entusiasmo, “Il conte di Fersen mi stava spiegando le usanze delle popolazioni native delle Americhe. Pensa che per commerciare usano come valuta delle conchiglie… come avete detto che si chiamano, Fersen? Wampum[4]?”
“Esattamente, Madamigella Oscar: mi complimento con voi per la vostra eccellente memoria! Wampum, ovvero, fili di conchiglie rosee o violette. Anzi, con licenza, potrei andare a recuperarne un esemplare che mi sono permesso di portarvi, conoscendo la vostra passione per la numismatica. In fondo, si tratta sempre di valuta, nevvero?”. E dopo una breve risata, Fersen, a grandi falcate, uscì dalla stanza, per rientrarne, poco dopo, reggendo, forse esattamente come Böhmer reggeva la Collana dello scandalo per offrirla a Maria Antonietta, quattro fili di conchiglie dalle sfumature – André doveva convenirne – assolutamente stupefacenti. Fersen le reggeva dinanzi a sé, avvicinandole al volto di Oscar, che ne accarezzò col palmo l’ultimo filo, mentre il Conte lo sosteneva davanti a lei.
“Oh, Conte ma questo è davvero interessantissimo”… E già André immaginava di vedere Oscar abbigliata solo di quella collana di conchiglie, tolta la redingote di velluto e l’ampia camicia di lino….
Scosse la testa, cercando di scacciare quella visione furtiva che gli aveva rimescolato le viscere di un desiderio tanto improvviso, quanto struggente, e insieme pregò che Fersen, al quale devozione per la loro beneamata Regina non impediva di volare fior da fiore, suggendo, quando poteva, il nettare da meno impegnative corolle, non avesse avuto lo stesso pensiero.
“André! Qualcosa non va?”, chiese Oscar, cortese, avendo certo intercettato il suo gesto.
“Nulla, nulla. Mi ero solo ricordato di una cosa che oggi ho dimenticato di fare, in cucina. Con permesso …”
Ma già Oscar aveva distolto lo sguardo dal suo volto, per concentrarlo sul bicchiere che ruotava fra le mani, incapace di levare gli occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia di seta sul Conte.
“E dunque, Fersen, mi dicevate che non avete intenzione, almeno per qualche tempo, di rendere noto il vostro ritorno in Francia, e nemmeno di presentarvi a Corte…”
 
2
Fersen, l’aveva detto, non sarebbe tornato a Versailles; e non avrebbe nemmeno voluto annunciare il suo ritorno in terra francese.
Non poteva più consentirsi di mettere a rischio la reputazione della Regina, e i sette lunghi anni di assenza avevano spento la passione, mutandola in una devozione illimitata, ma lontana. Parlava di sé come di un vegliardo che consideri ogni empito spento, ogni fiammata sentimentale cenere. “Sette anni fa sono partito come un vigliacco, senza nemmeno salutare la regina. Mi sono fermato in Francia solo per dimostrare a me stesso che il mio cuore non prova più amore per lei…”. Le aveva udite, involontariamente, ma le aveva udite, quelle parole pronunciate quietamente da Fersen, seduto sul ciglio della fontana del giardino; era andato a cercare Oscar, André, per proporle un duello mattutino, come quando erano bambini. Che cosa gli era mai preso?
Ma quel giorno, dalla porta delle cucine semiaperta, mentre preparava distrattamente la cioccolata, aveva visto Oscar scendere lo scalone con passo elastico e affrettato, e dirigersi verso l’ingresso; l’aveva seguita, pensando che sarebbe stato un piacevole ritorno, per un’ora o poco più, ai loro giochi d’infanzia, un duello all’alba, ma, giusto sulla soglia, si era bloccato, vedendo che Oscar, rallentata l’andatura, quasi a volerla rendere più naturale, come per nascondere la sua sollecitudine, si avvicinava a una figura maschile dai lunghi capelli chiari, sciolti sulle spalle, seduta sul bordo della fontana.
Origliare è un male, si sa, ma più che la curiosità aveva prevalso il senso di protezione per Oscar, e dunque, ritornato nelle cucine, e spento il pentolino sul fuoco, ormai surriscaldato, dato che l’acqua era ampiamente evaporata, André aveva imboccato l’uscita secondaria, e da lì, riparatosi fra le fitte piante che bordeggiavano lo spiazzo al cui centro troneggiava la monumentale fontana. Protetto dal folto dei rami, ancora rivestiti di foglie, a pochissima distanza da Oscar e Fersen, André l’aveva sentito esprimere a Oscar il proposito di tornare in Svezia senza che la Regina sapesse nulla del suo ritorno, anzi, l’aveva udito chiedere a Oscar di promettergli che non avrebbe fatto parola con la sovrana della sua presenza in Francia. E nel cuore di André Grandier si era aperta una crepa, perché, benché inconsapevolmente, Fersen aveva certo alimentato in Oscar il fuoco della speranza, e rinvigorito quel sentimento spinoso, bruciante e segreto, un sentimento che nemmeno la totale assenza di prospettive di sviluppo prima, e sette anni di assenza poi avevano potuto sopire.
Sospirò, André, e tornò sui suoi passi, alle cucine.
Poco meno di mezz’ora dopo, Oscar e Fersen entrarono, dalla porta che si apriva sull’atrio, chiacchierando e ridendo, come se niente fosse,
“Ah ah! Immaginatevi, Oscar, la faccia del colonnello Monroe, quando scoprì di essere stato accerchiato e assediato nel suo forte!”
“Oh, certo, io la immagino, ma anche voi l’avrete immaginata, a meno di non esservi intrufolato nel forte col drappello di finti mercanti assaltati dai nativi…”
“Oscar, siete diabolica! Mi avete scoperto!”, rise Fersen, seguito a brevissima distanza dalla risata di lei.
Era rossore quello che André, guardando in tralice, aveva visto dipingersi sulle sue guance? Preferì non approfondire, e si volse.
“Ebbene, Oscar, Conte di Fersen, vedo che siete stati molto mattinieri, forse più di me. In compenso, quando sono venuto a bussare alla vostra porta e ho scoperto che eravate già scesi, ho pensato, nonostante fossi stato irrimediabilmente pigro, di rendermi utile preparando una buona colazione per tutti. Che ne pensate?”
Non disse, André, che aveva congedato la giovane addetta alla cucina, la quale si era molto stupita di vedere l’attendente di Monsieur le Comte Oscar lasciare, molto più presto di quanto non sarebbe stato necessario, la comodità della sua stanza, situata, per speciale concessione, al piano nobile, accanto a quella della sua padrona, per imbarcarsi da solo nella preparazione del caffé e di tutto quel che sarebbe stato necessario a imbandire una deliziosa colazione per il Colonnello Jarjayes e per il suo nobile ospite. Perché poi l’aveva fatto, si chiese André, con la sua consueta abitudine speculativa, divenuta per lui, negli anni, e in forza degli eventi, una sorta di seconda natura? Non certo per il piacere in sé di provvedere a Oscar – quello, ne era ben consapevole, lo faceva ogni giorno, da sempre; se mai, in quel caso, la novità che avrebbe dovuto guidare i suoi atti sarebbe stata quella di provvedere solertemente al Conte di Fersen. O forse, voleva dimostrarsi particolarmente sollecito nei suoi confronti, quasi a ribadire, agli occhi di Fersen, l’amicizia sincera che lo legava al nobile reduce dai trionfi bellici d’oltreoceano? Ma via, a parte qualche infelice battuta del conte sul suo stile nel duellare, che avrebbe lasciato molto a desiderare[5], battuta che André era stato subito pronto, con la magnanimità che gli era propria ad archiviare, poteva forse Oscar avere qualche motivo per dubitare che Fersen non fosse nelle simpatie di Grandier? André stesso, del resto, alieno com’era da ogni forma di invidia e di malevolenza, e sempre pronto a mettersi nei panni del prossimo, il più delle volte compativa sinceramente il Conte; e, addirittura, anni prima, quando, prima di partire per le lontane Americhe[6], Fersen capitava sempre più spesso da loro, ovvero, si corresse mentalmente André, a Palazzo Jarjayes, la sua aria perennemente triste e abbacchiata, come se un macigno gli schiacciasse le spalle, aveva portato Grandier a ritenersi addirittura fortunato, in luogo del conte. Ma tutti questi pensieri, che sono così complicati da mettere su carta e da inanellare con ordine, attraversarono in un lampo lo spirito di André, che, dando nuovamente le spalle a Oscar e Fersen, si era diretto, reggendo la cuccuma da cui proveniva un deciso aroma di caffè, verso il tavolo, dove aveva già sistemato la sontuosa torta al cioccolato preparata da Nanny il giorno prima, e poi frutta fresca, mele, uva e fichi, pane tagliato e fette e abbrustolito, confettura di frutti di bosco e di albicocche, oltre a una brocca di latte e un’invitante mezza libbra di burro normanno-
“André, siete inarrivabile!”, esclamò Fersen, la cui voce aveva perso gli accenni malinconici di poco prima.
Poi, mentre il Conte, tra una fetta di torta al cioccolato, e una robusta dose di confettura di mirtilli su uno spesso strato di burro steso a ricoprire una fetta di pane al latte, raccontava le fasi salienti della battaglia di Yorkrtown, André, che sedeva di fronte al nobile ospite, non riusciva a trattenersi dal lanciare, con la coda dell’occhio, degli sguardi tesi a cogliere l’espressione di Oscar, che gli sedeva accanto, come sempre, da quando, sin da bambini, consumavano la loro colazione in cucina sotto gli occhi vigili della governante di Palazzo Jarjayes.
Era turbamento quello che le si dipingeva sul volto?
 Era davvero affrettato il suo respiro, mentre, i riccioli biondissimi che le ricadevano sulle spalle, sorseggiava con aria apparentemente metodica e tranquilla il suo caffè? Oppure era solo una impressione di André?
 Erano sguardi di desiderio trattenuto, ma non celato, quelli che Oscar lanciava a Fersen da sotto le folte, seriche ciglia, tanto lunghe da ombreggiare gli zigomi, le palpebre semichiuse, l’espressione sognante?
Che cosa immaginava Oscar, in quegli istanti?
Per fortuna, André fu distolto da quei pensieri acuminati dalle parole di Fersen, che, finalmente, si era reso conto del silenzio di Oscar. Non era mai stata particolarmente ciarliera, ma quel tacere protratto era talmente insolito, che, la mano destra sospesa in aria, le dita che rigiravano un acino d’uva particolarmente succoso, Fersen le chiese: “Madamigella Oscar, vi vedo pensierosa! O forse, ho in qualche modo urtato la vostra sensibilità?”.
“Oh, no, conte, che cosa dite mai”, si riscosse lei, con un tono flautato, ma insieme sottilmente contrito, come una bambina sorpresa a distrarsi durante una lezione del precettore. “Stavo giusto riflettendo sulla strategia del generale de Rochambeau”, si giustificò debolmente!
“Per Giove, avete ragione, Oscar! Una manovra a tenaglia degna di essere tramandata nei libri di storia!”, assentì rumorosamente Fersen-
“E voi, voi c’eravate”, ardì Oscar, sollevando gli occhi azzurri dentro lo sguardo del conte, con un tono indefinibile: Fersen, da parte sua, ci colse soltanto l’ammirazione di un alto ufficiale per un suo pari grado che, però, aveva avuto modo di mettere in mostra il suo coraggio in una vera guerra, in vere battaglie. André, che conosceva a memoria da sempre tutte le inflessioni di quella voce, tutte le sottili declinazioni di quegli sguardi, tutti i minuti trasalimenti di quel volto che solo gli osservatori superficiali potevano ritenere freddo e immoto, capiva bene che, oltre all’ammirazione professionale, vi era anche il rammarico di chi, addestrata come un soldato, non avrebbe mai visto altri schieramenti che quelli delle Guardie Reali, altre operazioni militari che non fossero parate o il servizio d’ordine per scortare i sovrani nei loro trasferimenti da Versailles a Meudon, e viceversa: una dorata simulazione, senza mai la possibilità, per la sua Oscar, di dare prova del suo valore in campo aperto, di dare sfogo a quel fuoco che ardeva in lei. E poi, c’era l’ammirazione non solo del soldato per il suo pari grado, ma della donna per l’uomo …
André sospirò, impercettibilmente, mentre sentiva il suo cuore creparsi di pena e dolore: per sé, certo, ma soprattutto per Oscar.
 
 
 
 
3
Era perduta, era perduta, André lo sapeva. Lo sentiva in tutte le fibre del suo essere.
Non che la cosa gli importasse molto; o meglio: non che la cosa gli sarebbe particolarmente importata se non avesse visto con tutta chiarezza che da quel ritorno di Fersen, lo vedeva con tutta chiarezza, Oscar non avrebbe ricevuto che dolore, dolore e ancora dolore.
Se avesse avuto anche solo sentore che Fersen potesse davvero dimenticare Maria Antonietta, e che per Oscar si aprisse anche solo una remota possibilità di una vita con lui, di una vita felice, anche lontano dalla Francia, anche se con il cuore straziato, l’avrebbe accettato; e sarebbe stato felice di saperla felice, anche se fra altre braccia, anche se l’amore capace di scaldarle e farle traboccare il cuore fosse venuto da un altro uomo.
Ma, come tutti gli innamorati infelici sanno bene, una passione quel tipo, di lunga data, radicato nell’animo a dispetto di dolori e afflizioni, non si dimentica facilmente: è come una di quelle malattie senza speranza di guarigione, che sembrano attraversare fasi di remissione, anche molto lunghe, per poi tornare a incrudelire con ancor più violenza di quella manifestata nei primi attacchi.
No, Fersen non avrebbe mai dimenticato la regina: sarebbe bastato molto poco, André lo sentiva, un avvenimento anche solo casuale, per far mutare la sua volontà.
Nel frattempo, però, vedeva Oscar illudersi, osservare lui e il conte mentre cavalcavano o duellavano, e il fiato gli si spezzava pensando a quali fantasticherie dovevano albergare nella testa di lei: sicuramente, stava pensando quanto fosse incredibile che la sovrana non fosse più al centro dei pensieri di Fersen; che sarebbe stato bellissimo se il conte si fosse fermato per sempre a Palazzo Jarjayes; probabilmente fantasticava, con quell’approssimazione che appiana ogni ostacolo pratico tipica dei sogni, su quanto sarebbe stato bello condividere la vita, ogni giorno, con lui; e sicuramente, mentre i suoi occhi seguivano le corse a cavallo e i duelli con la sciabola e il fioretto dei due uomini, Oscar pensava che Fersen era il solo uomo che avrebbe mai potuto amare.
La sera, poi, li vedeva pericolosamente vicini, in una crescente intimità di gesti, parole, piccole abitudini che lo faceva tremare, come se ogni passo avvicinasse sempre più Oscar al centro di una gigantesca distesa di sabbie mobili, dalle quali sarebbe stata inghiottita: le chiacchiere davanti al caminetto, il piccolo rito del cognac prima di andare a coricarsi, le stesse parole con cui i due si salutavano … per André era uno stillicidio senza fine.
Soprattutto, temeva che, da quella vicinanza fra un uomo dal cuore apparentemente sgombro, e solo da troppi anni, e una donna che si credeva innamorata senza speranza per anni e che ora si trovava accanto, giorno dopo giorno, l’oggetto delle sue lunghe, solitarie fantasticherie amorose, un gesto solo, un gesto di troppo, potesse ingenerare una intimità ben diversa. In sostanza, che una sera, brilli entrambi, Oscar si infilasse nella camera di Fersen, o, peggio ancora, che Fersen ce la trascinasse, per il bicchiere della staffa, certamente, ma che poi la situazione degenerasse.
Si sentiva meschino a coltivare questo pensiero, che era in verità una paura: ma su Fersen, già prima della sua partenza per le Americhe, circolavano i pettegolezzi più variopinti, dicerie secondo le quali, nelle sere in cui Maria Antonietta era assorbita dagli impegni ufficiali cui una regina non può sottrarsi, il conte non restasse solitario nella sua lussuosa dimora parigina a struggersi di desiderio in solitudine, ma ingannasse l’attesa con ben altre compagnie. Quanto a Oscar, quanto, quanto poteva resistere una donna all’umanissima tentazione di allungare una mano, di chiedere una carezza, un bacio, all’uomo che occupava da tanto tempo i suoi sogni e i suoi pensieri.
E quella sera accadde.
Oscar stava mostrando a Fersen, in biblioteca, la collezione numismatica che i conti Jarjayes avevano accumulato nei secoli, e alla quale il Generale Louis-Maurice, nonno paterno di Oscar, aveva dato notevole impulso.
Avevano bevuto, e molto: champagne prima di cena, Bordeaux a cena, e poi ancora champagne ad accompagnare il dolce, un diplomatico leggerissimo, ma intinto nel pregiato, esotico Marsala, e ancora brandy e cognac. Insomma, erano brilli, tutti e due: non André, che in quelle sere praticava la vigile virtù dell’autocontrollo.
“E queste … Madamigella Oscar!”, esclamò Fersen, passandosi fra le mani un paio di monete. “Ma è incredibile: delle spintrie[7]! Non le avevo mai viste, se non sui libri!”
Erano in piedi, davanti al vasto tavolo della biblioteca, su cui troneggiavano pile di libri ammonticchiati – nuove acquisizioni da catalogare – una Bibbia risalente all’epoca di Enrico IV, un Erasmo di metà Cinquecento, un Petronio del Burmann, su cui Fersen aveva già strabiliato, e una cassetta di ebano intagliata dalla quale Oscar traeva le monete che passava, di volta in volta, a Fersen, perché le ammirasse, rabbrividendo sottilmente quando le loro dita si sfioravano.
A sinistra di Oscar, e a destra di Fersen, due bicchieri di cognac colmi fino all’orlo, non certo i primi che sarebbero stati svuotati quella sera, sotto lo sguardo critico di André, seduto al tavolo poco distante, reggendo fra le mani un bicchiere di cognac, lo stesso da inizio serata, ancora pieno per tre quarti.
“Ah, sì, Fersen”, disse Oscar, passandogli le due monete “Nel catalogo”- e intanto apriva un monumentale volume poco discosto, e gli mostrava una pagina, “si dice che queste spintrie sono fra i primi pezzi della nostra collezione, e che vennero donate da re Enrico IV in persona al mio antenato … al mio antenato …”.
“È talmente ubriaca che non ricorda nemmeno la storia della sua famiglia”, pensò, scorato, e insieme dolorosamente intenerito, André.
“Oh, dannazione!”, esclamò Oscar, agitando il pugno nell’aria;“Possibile che non mi ricordi il suo nome?!”
 “È stata una lunga giornata, Oscar, e siamo tutti molto stanchi”, le venne incontro, in tono magnanimemente indulgente Fersen, la voce morbida di cognac, e, forse anche, per la visione incantevole dei riccioli e delle volute d’oro che incorniciavano il volto appena accaldato.
“Aspettate”, disse lei, con un tono fra l’impaziente e il mortificato, “vado all’albero genealogico”, e si volse per dirigersi al grande quadro appeso alla parete opposta, dove facevano bella mostra di sé tutti i rami del casato Jarjayes, con i nomi dei loro gloriosi membri … ma il cognac può fare brutti scherzi, e l’andatura di Oscar non era molto stabile. Ondeggiando, in preda ai fumi dell’alcool, inciampò nel tappeto persiano, e avrebbe rischiato di finire lunga distesa; avrebbe rischiato, se Fersen, poco distante, con uno scatto, non le avesse energicamente afferrato il braccio destro con una mano, e, con l’altra, non le avesse sostenuto la schiena.
Si fissarono un attimo, gli occhi azzurri di lei in quelli pervinca di lui, sotto lo sguardo di André, che, a pochi passi di distanza, si era alzato di scatto dalla sedia, ma non aveva fatto in tempo nemmeno a girare attorno al grande tavolo.
“Grazie, Fersen”, disse Oscar, ricomponendosi e rimettendosi in piedi. “Avevo rischiato di cadere ingloriosamente a terra”.
“Più che altro, una spadaccina con la vostra agilità non può permettersi una caduta che comprometta una caviglia”, sorrise lui.
“Credo che sarebbe meglio concludere la serata, adesso”, disse lei, apparentemente tranquilla.
“Condivido il vostro pensiero”, si allineò signorilmente Fersen.
“Mi occupo io di spegnere i doppieri”, disse, longanime, André. Ma sembrava che nessuno dei due lo sentisse. Per un attimo, Fersen e Oscar si fissarono negli occhi, l’uno di fronte all’altra, lui, con lo sguardo leggermente rivolto verso il basso, lei, con gli occhi rivolti all’insù.
Poi, uscirono dalla stanza, e André li vide imboccare il corridoio, e vide Fersen posare una mano, confidenzialmente, con delicatezza che si sarebbe detta amicale, sulla spalla di Oscar. Un gesto neutro, forse, ma che il conte non aveva mai fatto prima, André ne era più che sicuro.
Dall’indomani, come se quel primo, involontario, fortunoso contatto in biblioteca, per evitare a Oscar una ingloriosa caduta, avesse aperto una crepa in una diga, iniziarono dei piccoli, impercettibili, segnali. che André cercava di ridimensionare nella loro portata - alquanto sinistra, secondo il suo metro di giudizio - , ma che erano incontrovertibili: ora, a cena, Fersen versava il vino a Oscar (galanteria o semplice, casuale gesto amicale?); mentre giocavano a biliardo, vide Fersen, girando attorno a tavolo, e posizionandosi accanto a Oscar, sfiorarle i fianchi con i propri nel passaggio; un pomeriggio, mentre aveva già ricondotto Alexandre nelle scuderie, uscendone, vide Oscar e Fersen, che erano rimasti un poco indietro, procedere appaiati, tenendo per le briglie i loro cavalli, César alla destra di lei, e il baio di lui alla sinistra del conte… cosicché, procedendo Oscar e Fersen vicini, vide le mani libere dalle briglie sfiorarsi. Fu un contatto minimo delle dita, e, appena accennato, dei dorsi, e certo inaspettato, almeno per Oscar, che André vide chiaramente – era in fondo a meno di dieci passi di distanza da lui – trasalire, sorpresa, per poi rassicurare, con una scusa qualsiasi, Fersen.
Ecco dunque spiegato il nervosismo crescente di André, e il conseguente sbatacchiamento delle preziose tazzine del servizio da the della Contessa Marguerite che aveva suscitato il richiamo da parte della solerte nonna.
 
 
 
 
4.
E poi, la conflagrazione.
La sera prima avevano fatto, su insistenza del Conte, un giro a Parigi. Voleva rivedere la città che aveva lasciato tanti anni prima, respirarne l’aria, forse anche dare l’addio alla sua gioventù piena d’amore per la regina. Modestamente abbigliati, avevano mangiato in una taverna, avevano bevuto e chiacchierato allegramente, evitando con cura ogni argomento che avesse a che fare con Versailles, la corte, il recente Scandalo della Collana, la caduta di popolarità della famiglia reale agli occhi dei sudditi. Erano state ore liete, distese, come tante, se non fosse stato che, sulla via del ritorno, mentre cadeva una pioggia sottile come aghi ghiacciati, Fersen aveva notato, su un muro, una delle molte stampe che raffiguravano una Maria Antonietta, dallo sguardo lascivamente provocante, sgraziata e sguaiata, adorna di tutti i lussi e di una espressione volgare e perversa, e contro la cui immagine qualcuno si era divertito a lanciare alcuni coltelli che erano poi rimasti confitti nel muro.
Il Conte era allora sceso da cavallo, e, lentamente, aveva tolto quelle lame dalla stampa, e le aveva gettate a terra. Poi, era risalito a cavallo, senza dire una parola, sotto gli occhi silenziosi di Oscar e André.
Certamente, pensava André, Fersen deve avere provato pena di fronte a questo miserando spettacolo: lui stesso, rifletteva Grandier, nonostante la sua scarsa simpatia per la sovrana, della quale, anche in anni non sospetti, aveva biasimato con franchezza, di fronte a Oscar, l’eccessivo amore per il lusso e le spese pazze; nonostante la sua ormai assidua frequenza a riunioni clandestine di uomini (e, qualche volta, anche di donne), di tutti i ceti e di ogni estrazione sociale, che riflettevano su come avrebbero potuto adoperarsi per far nascere una nuova Francia, libera dalle ingiustizie e dalle sperequazioni di ceto, mai si sarebbe sognato di tirare dei coltelli contro un’immagine della regina. E di sicuro, ormai, Fersen doveva avere capito se Maria Antonietta era precipitata in quel baratro di odio popolare, era anche merito dei tanti, troppi pettegolezzi sulla sua condotta poco consona alla madre della Nazione, e nei quali anch’egli aveva avuto parte: un motivo ulteriore, una riconferma per girare al largo dalla Corte. E così, pensava André, agghiacciato sulla via del ritorno, forse anche in piena e totale inconsapevolezza e onestà, forse Fersen poteva pensare di cercare consolazione, e un momento di serenità, lontano da affanni e amarezze, in una donna bellissima e che, inconsapevolmente  - povera Oscar!, si sorprendeva a pensare – gli lanciava dei segnali che quel seduttore poteva equivocare, che non erano gesti di astuta dissimulazione da parte di una persona usa a consumare le sue passioni nel segreto, ma i discreti, timidi cenni di una donna innamorata e senza alcuna esperienza d’amore che non fosse quella della fiamma non corrisposta.
Terribile. Terribile.
E questa fu la sola cosa che pensò André.
Il mattino dopo, mentre André disponeva sul tavolo della cucina la consueta, ricca scelta di dolci, frutta e bevande per la colazione – visto che ormai era diventata una abitudine, per i tre, consumare insieme, informalmente il primo pasto della giornata – udì Fersen dire a Oscar: “Oscar, prima di cena, vi pregherei, se poteste, di raggiungermi nell’orangerie: vorrei restare solo con voi, in assoluta discrezione”. “Certo, Fersen”, rispose Oscar.
André si irrigidì.
Ecco dunque, che mire aveva il Conte: una bella avventura galante, per suggellare il suo ritorno in Francia, da poter raccontare come una soave bizzarria ai suoi amici, una volta rientrato a Stoccolma. L’orangerie, poi! Che fantasia! La succursale dell’alcova, in pratica!
Le sorelle di Oscar per i loro piccoli furta amorosi, era noto, si rifugiavano lì; il Generale stesso, anni prima, era stato sorpreso intento in un bollente tête-a -tête con la Marchessa di Beausoleil, sul morbido divano rosso nascosto fra i vasi di aranci e limoni, un André bambino, col il cuore che gli batteva all’impazzata nel petto, per prima cosa, per il timore di essere scoperto, e poi per lo sdegno causato dall’offesa alla dignità della dolce e buona contessa Marguerite, che era sempre così gentile con lui.
Bevvero il caffè, mangiarono mele, pane e burro normanno, uva e biscotti allo zenzero; André versò il latte a Fersen e questi insistette per versarlo a Oscar, che gli sedeva accanto; André aveva l’impressione di non sentire nemmeno le parole dei due, tanto che Oscar, vedendolo assorto, gli chiese persino: “André, va tutto bene? Mi sembri così strano”. “No, Oscar, va tutto benissimo. Sto solo pensando che dovremmo pulire le pistole prima di andare a sparare, oggi”.
“Caro André”, sorrise lei, “pensi sempre a tutto”.
Caro André, rifletté di converso lui, col cuore spezzato: parla di me come se fossi un vecchio servitore che ormai fa quasi parte dell’arredo. Ma eviterò almeno quello scempio: perché se Fersen non prova più nulla per la regina, quello per Oscar non è che un capriccio momentaneo, una fiammata, breve e intensa, dalla quale lei uscirebbe inevitabilmente con il cuore ridotto in cenere.
 
Verso le sei del pomeriggio, quando, dopo il caffè, ognuno si ritagliava un poco di tempo per sé e per i suoi pensieri prima della cena, André, i sensi all’erta, era nella dispensa, a controllare lo stato dei prosciutti appesi, e per scegliere quello più adatto a essere sacrificato, di lì a poco, sull’altare dell’ospitalità.
Udì un passo, che non era quello della nonna e nemmeno delle altre inservienti; occhieggiò dalla finestrella nella parte alta della porta: Fersen. Abbigliato di tutto punto, - evidentemente per presentarsi al meglio, fascinoso ed elegante, per quell’incontro predatorio - reggeva nella mano destra una bottiglia, certo recuperata dalla riserva del generale, e cercava, con sguardo ansioso, fra gli scaffali gremiti di bicchieri. André lo vide posare la bottiglia sul tavolo, poi prendere due calici di cristallo di Boemia, e infilarli nella tasca della falda posteriore della marsina.
Che cos’è, in fondo, il genio? È fantasia, intuizione. E velocità di esecuzione[8].
Non resistette, André Grandier, e in quel momento uscì, con aria baldanzosa, dal piccolo locale della dispensa, simulando, nel suo saluto, una piacevole sorpresa.
“Oh! Conte di Fersen! Che piacere! Voi qui?”, si forzò a dire con entusiasmo.
“André! Buona serata a voi!”, rispose, con il tono più naturale del mondo Fersen.
“Avete bisogno di qualcosa di particolare?”, chiese André, sollecito.
“No, io … forse, ecco, un bicchier d’acqua”, fu la sua risposta.
“Solo acqua? Ma, vi prego, Conte. Volete profittare con me di un bicchiere di ottimo Beaujolais?”. André, con la coda dell’occhio, colse lo sguardo di sguincio che Fersen aveva dato alla bottiglia di champagne sul tavolo, come a sincerarsi che André non l’avesse notata.
“Ehm, io…beh…”.
“Non è come il Bordeaux con cui ci siamo abituati a pasteggiare, ne convengo, ma è un vino molto piacevole, vi prego di favorirne e di darmi la vostra opinione”, incalzò André, e, senza perdere d’occhio Fersen, riempì due bicchieri con l’invitante bevanda.
“Ecco a voi, Conte”, disse, porgendogli il bicchiere. Poi, guardò il tavolo, e simulò di accorgersi solo in quel momento della bottiglia di champagne. “E questa?!”, chiese, con apparente sorpresa, posando i bicchieri sul tavolo, e prendendo in mano la bottiglia. Lesse l’etichetta: “Un’annata piuttosto buona, per giunta”, affermò, posandola subito dopo sul tavolo. “Ma bevete, Conte, bevete con me: gusteremo poi altri vini a cena, ma questo mi sembra un ottimo viatico per aprire la serata, non trovate?”.
“Ehm, sì, certo, avete ragione André”, convenne lui, dubbioso.
“Non vi piace l’aroma di questo vino?”, chiese ancora Grandier.
“No, anzi, lo trovo particolarmente profumato”-
E allora sedete con me”, disse André, indicando quella stessa sedia che occupava il mattino a colazione. “Vi devo parlare di una cosa piuttosto importante”, aggiunse con uno sguardo sollecito.
“Certo, ma  … non ora…”.
André tentò il tutto per tutto. “Conte di Fersen, vi ruberò soltanto pochi minuti, ma, vedete, riguarda la regina …”, disse e si accomodò. Non servì un gesto della mano per invitare il nobile ospite a fare altrettanto, né un altro gesto  “La REGINA?!”, chiese il Conte, allarmato, e dimentico, e si sedette a sua volta di fronte ad André. L’espressione allarmata di Fersen si mutò un attimo dopo in una smorfia di dolore, che sfigurò i suoi bei lineamenti delicati, accompagnata da un lamento sordo da animale ferito.
“Conte!”, esclamò André, cui già la coscienza rimordeva, “Che cosa è accaduto!”
“Chiamate un medico, André, subito…”, soffiò Fersen, il viso pallido per il dolore bruciante.
E poi, quasi impercettibilmente, sibilò. “Jäkla glasögon!”[9]
 
5.
“Oh, povero Fersen!”, disse Oscar, chiudendo con delicatezza la porta della camera dove il conte giaceva, a pancia in giù, sul suo vasto letto a baldacchino, circondato da cuscini. “Deve provare ancora un gran dolore”, convenne André, con aria contrita. E, in effetti, un poco di contrizione c’era, ma quello che André provava era anche e soprattutto sollievo.
“Che ne dici, André, mentre Fersen riposa, noi potremmo fare una lunga cavalcata prima di cena?”.
“Ma certo, Oscar! Tutto quello che vuoi”, assentì lui. E, sentendosi un poco, ma giusto quel filo, in colpa, salutò mentalmente Fersen con una espressione forse un poco mancante di urbanità: “A più tardi, sfregiato!”
Da due giorni il Conte di Fersen era infatti in quello stato, costretto alla postura prona, che avrebbe dovuto mantenere il più a lungo possibile, almeno per altri dieci giorni, sino a quando le ferite non si fossero rimarginate, almeno parzialmente. Quanto al viaggiare in carrozza, se ne sarebbe potuto parlare almeno di lì a tre settimane. Andare a cavallo, invece, era fuor di discussione sino alla guarigione completa, il Dottor Lassonne era stato categorico. Del resto, il medico, fatto chiamare con urgenza, aveva impiegato quasi due ore, armato di pinze, per togliere tutti i minuscoli frammenti e le schegge di vetro che si erano conficcate nelle natiche di Fersen, il quale aveva sopportato l’operazione con ammirevole stoicismo, mordendo il lenzuolo, prima di essere spedito nel mondo dei sogni da una bella dose di laudano.
“Non capisco proprio come un uomo possa dimenticare di essersi infilato nelle tasche posteriori della marsina due bicchieri di cristallo”, scosse la testa, incredulo, Lassonne, uscendo dalla stanza dove, sotto l’occhio attento del cameriere personale assegnato a Fersen, il conte era stato medicato e bendato.
André e Oscar, che aspettavano seduti, l’uno accanto all’altro, sul divanetto del corridoio, proprio davanti alla camera del Conte, con un’espressione costernata, avevano atteso che il dottore uscisse per essere informati dello stato del ferito.
Il quale, poco dopo, quando i due avevano avuto l’autorizzazione a entrare nella sua camera, aveva rivolto loro uno sguardo di sotto in su, dicendo solo, con una tristezza che avrebbe commosso un cuore di pietra: “Oh, Oscar, quanto mi spiace per l’incomodo che vi sto dando.  Sono davvero mortificato. E poi, io volevo dirvi che aver scoperto quanto sia malvoluta e odiata la Regina Maria Antonietta dal suo stesso popolo mi ha persuaso che sia mio dovere tornare a Corte e mettermi al suo servizio, standole vicino in questo frangente difficile. Vi avrei voluto dire questo, in assoluto segreto, nell’orangerie, pregandovi di portare mie notizie a Versailles, e di annunciare il mio prossimo arrivo, chiedendovi di domandare a Sua Maestà una udienza privata, ma lo stato miserevole in cui verto ora mi porta a chiedervi di serbare ancora per qualche settimana il segreto circa la mia permanenza nella vostra casa, fino a quando non mi sarò ripreso. E io che volevo brindare con voi alla mia decisione di riprendere il mio dovere di ufficiale dei dragoni svedesi, al servizio della nostra Regina!”
“Oh, Fersen”, disse Oscar, abbassando le palpebre sugli occhi, “Mi spiace infinitamente per questo incidente”.
Era cocente delusione, frustrazione amara e rassegnata quella nota lontana che André sentiva nella voce di lei? André non sapeva; e, del resto, quell’avventura gli aveva insegnato a non arrovellarsi più per cercare significati reconditi nelle azioni, nelle parole e financo negli sguardi di chi gli era vicino; tanto più che, oltre a un rimorso più che strisciante per quanto aveva incautamente causato, decisamente gli veniva fatto di pensare che, se solo non fosse stato così impulsivo nell’azione, Fersen avrebbe lasciato Palazzo Jarjayes di lì a pochi giorni, per ripresentarsi a Versailles a esprimere la sua totale devozione alla Regina Maria Antonietta. Invece, adesso, lo sfregiato – sorrideva fra sé e sé, vergognandosi un poco, al pensiero di quell’irriverente soprannome che gli era salito alla mente e che non avrebbe mai pronunciato a voce alta, men che meno – Dio liberi! – di fronte a Oscar, sarebbe rimasto, a mo’ di convitato di pietra[10], a Palazzo, certo confinato nella sua stanza, oggetto di sollecitudine e, a orari fissi, di visite di conforto da parte di Oscar.
Nei giorni successivi, durante la forzata immobilità di Fersen, André pensava che avrebbe cercato di colmare il senso dell’assenza che forse – ma era poi vero?! – Oscar provava con lunghe cavalcate, partite a scacchi, partite a biliardo, e leggendo per lei qualche passo dei suoi poeti preferiti, magari davanti a due tazze di cioccolata del pirata[11] da sorseggiare davanti alla grande finestra che dava sul tramonto.
E poi, chissà.
 
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Questo racconto, va da sé, nasce sull’ispirazione e come variazione sul tema de “La vera storia che nessuno ha mai osato raccontare” di Mareggiata, una OS genialmente birichina ed esilarante, che ci presenta un quadro molto poco aulico del ritorno del Conte di Fersen in terra francese dopo la Guerra d’Indipendenza Americana.
E devo ringraziare Mareggiata anche per aver colto una incongruenza (non vi dico dove!) nel racconto, che ho sistemato grazie a lei. Insieme, se siete arrivati sino a qui, avrete colto perfettamente che l’artificio dei bicchieri di cristallo di Boemia (da cui il sottotitolo, per gentile suggerimento di Lenovo2015), sui quali il povero conte si siede, riportando … ehm … uno sfregio, viene direttamente da “Sabrina”, di Billy Wilder (1954), dove a lasciarci il lato B era lo splendido William Holden, il fratello Larrabee scavezzacollo e flâneur, che viene apostrofato da Bogey, mentre si accinge a portare a svagarsi Sabrina, con un “Ciao, sfregiato!”. Se vi ricordate, in Mauvais réveil, scritto a quattro mani sempre con Mareggiata, era Oscar, a mettersi nelle falde della giacca dell’uniforme due bicchieri per andare a fare visita al povero André malato e recluso nella sua camera. Ma non mi era bastato il cuore di far sedere Oscar sui cristalli; però avevo tenuto in serbo l’idea, che mi sembrava interessante, e quello spunto ha lavorato in testa a lungo. Per quanto riguarda il Fersen tornato da eroe dall’America, e insidiosamente seducente, come avrete capito, queste sono per lo più tutte e solo ubbìe e preoccupazioni eccessive di André; ma se volete vedere in azione un Fersen davvero davvero davvero “homme fatal”, pericolosamente charmant, bello e bugiardo come solo certi seduttori nati sanno essere, vi consiglio la strepitosa “Cala novembre …” di Tixit, che devo assolutamente citare, che ho voluto qui omaggiare e che mi ha ispirata, e che delinea, lì sì, un quadro di caduta imminente per la virtus di Oscar. Grazie a voi, per il vostro tempo, davvero un dono prezioso, e arrivederci a presto, speriamo!
 
 
[1] Per il nome, che mi è troppo simpatico, cfr. “Topolino” 1559: dal 1985, una delle mie storie preferite, che qui omaggio con tutto il cuore.
[2] Esiste, esiste… come pure esiste, per il giorno del Ringraziamento, la versione “Made in Maine”, del tacchino farcito di crema alle ostriche: provatelo, e poi ditemi se non acquisisce nuovo senso l’espressione: “lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno”.
Che potremmo riformulare come "Signor Precisetti".
[4] Il nome l’ho scoperto da R. Harris, Oblio e perdono (Mondadori), la storia di una delle più appassionanti cacce all’uomo mai indette. Ve lo consiglio caldamente.
[5] Questo, nel doppiaggio italiano; mentre nel doppiaggio originale dell’anime, Fersen, nella famosa sequenza dell’ep. 20, parla, com’è noto, ad André di una taverna parigina che vorrebbe visitare.
[6] E questo, scusatemi, era un modo di dire del mio riveritissimo professore di Diritto Romano, che si premurava di sapere se i suoi allievi e collaboratori sarebbero stati reperibili nei periodi di sospensione delle lezione, chiedendo loro se avevano intenzione di recarsi “nelle lontane Americhe” per le vacanze. Ciao, Prof, ovunque tu sia ... e grazie di tutto.
[7] Le spintrie erano le monete usate, in certi periodi dell’impero romano, come pagamento delle prestazioni professionali nei lupanari: vennero coniate, per esempio sotto Tiberio, perché era ritenuto indecoroso che nei bordelli si pagassero le pratiche delle lupae con monete recanti l’effigie dell’imperatore e i simboli, degni di reverenza, dello Stato romano. Pertanto, all’ingresso veniva effettuato una sorta di cambio della valuta. Le spintrie sono molto rare, e ben poche si trovano in mano a privati: ma immagino che una famiglia di antica nobiltà avesse avuto modo, dal XVI secolo in poi, di accaparrarsi molti cimeli oggi impensabili al di fuori di un museo.
[8] Questa non è mia, ma è dell’immortale “Amici miei” di P. Germi -M. Monicelli (1975).
[9] All’incirca: “Maledetti bicchieri!”.
[10] Piccolo anacronismo, che mi perdonerete.
[11] Ricetta alternativa della cioccolata: senza latte, ma preparata solo con acqua calda, cacao, rhum, e poco zucchero.
   
 
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