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Autore: AlessandraCasciello    04/02/2023    0 recensioni
“Posso andare da sola”, gli dissi, sistemandomi meglio la borsetta.
“Piantala. Ti riporto io”
“Non c’è bisogno, davvero” come al solito, non mi diede ascolto, incamminandosi a passo svelto verso la sua Audi.
“Un giorno mi spiegherai anche perché vai così veloce, diamine!” mi lamentai, stringendo forte la cintura vicino al mio petto.
“Oh cara, non so se vorrai davvero saperlo”.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Mentre frugavo dentro la mia valigia ancora da disfare, cercando qualcosa di decente da mettermi per la mia prima serata in vacanza, il brusio dalla cucina di mia madre e Serena che parlavano mi distraeva. Parlavano come due vecchie amiche della stessa età, consigliandosi reciprocamente sulle varie vicissitudini della vita quotidiana, e delle esperienze pesanti e leggere vissute durante i mesi precedenti. Mio padre se ne stava in silenzio, leggendo il giornale cartaceo sulla poltrona. Era un’abitudine che aveva mantenuto nonostante gli smartphone, la tecnologia e tutto quel progresso che gli metteva solo più nostalgia, diceva.
Decisi di indossare un vestito marrone abbastanza attillato, coprendo le spalle nude con i miei capelli lunghi e marroni. Indossai un paio di stivaletti per restare comoda, e mi truccai leggermente con un velo di mascara. Mi fissai per cinque secondi davanti allo specchio: ero cresciuta dallo scorso anno. Chissà se gli sarei piaciuta così, a lui. sospirai, prendendo la mia borsa con il mio cellulare ed il mio portafoglio, chiudendomi alle spalle la porta di camera mia.
“Sono pronta” Serena e mia madre alzarono lo guardo verso di me, sorridendomi. La mia amica bionda e super acchittata per la serata iniziò a battere le mani, guardandomi.
“Quanto sei bella! Dai, dobbiamo andare che ci aspettano tutti”, mi prese per mano tirandomi verso la porta.
“State attente, e non fate troppo tardi” si raccomandò mia madre. Serena ridacchiò, “Di stare attente te lo possiamo promettere...ma di fare presto bisogna vedere”.
La serata era caldo, e lo straccio di venticello che speravo di provare una volta trasferita al mare non si faceva vedere. Il lungo mare era pieno di gente ammassata, indecisa su quale locale occupare per la serata. Serena mi tirava per un braccio, camminando a passo spedito verso il primo chalet verso il centro. Una volta che vidi in lontananza le teste di Brando e Andrea, sbracciai energicamente, correndo verso di loro e cingendoli in un caldo abbraccio. Profumavano di estate, di ricordi, di infanzia e di spensieratezza.
Anche loro erano cresciuti, ed anche loro erano provati dalla fine della maturità.
Serena mi tirò di nuovo, questa volta verso il bancone del bar dello chalet che quella sera serviva ad open bar. Ordinammo il solito gin lemon, ritornando dai nostri amici.
“Olivia, aspettavamo solo te! Ora sì che è iniziata l’estate”, esortò Brando dando inizio ad un bellissimo brindisi. Tracannammo i nostri drink, andando verso la pista ed immergendoci nella calca. Iniziammo a ballare come se non avessimo ascoltato musica per un anno, o come se fosse l’ultima volta che potessimo ascoltarla in vita nostra. In cerchio, ci guardavamo divertiti nel tentativo di abbozzare qualche movimento frutto di una minima coordinazione, ma senza successo. Io mi limitavo a ciondolarmi da una gamba all’altra, imbarazzata. Bevvi un altro sorso del mio drink, sperando che potesse scaldarmi e sciogliermi.
Serena si avvicinò a Brando, iniziando a ballare con lui in modo provocatorio. Lo vidi arrossire, cercando di toccarle i fianchi in modo delicato e non impacciato. Era molto più alto di lei, ma avevano gli stessi capelli biondi ed occhi celesti. Mi domandai se questo fosse stato l’anno del loro inevitabile avvicinamento. Ciccio, dal canto suo, mi guardava addolcito, non sapendo bene cosa dirmi o come comportarsi. Stavo per avvinarmi a lui, quando due grandi mani mi presero i fianchi, attirandomi al proprio bacino.
“Ciao”, mi sentii soffiare sull’orecchio. Mi irrigidii, continuando a stringere il bicchiere tra le mani.
“Ti va di ballare con me, si?” non riuscii nemmeno a girarmi per vedere chi fosse. Mi sentivo così fuori luogo da volermi buttare a terra.
“No, grazie”, risposi, cercando di svincolarmi da quella morsa infernale. Il ragazzo non mollò la presa, anzi. La aumentò, bloccandomi e stringendomi ancora più forte sul suo bacino. Girai lo sguardo alla mia destra, vedendo i suoi amici guardarmi con un’aria maliziosa. Mi girai dall’altro lato, ma Ciccio era sparito insieme a Brando e Serena.
Cercai di urlare, ma la musica era troppo alta e il ragazzo mi tirò su in aria, spostandomi di qualche metro verso la spiaggia. Cercai di dimenarmi con le gambe, ma fu tutto inutile. Il ragazzo mi tappò la bocca con la sua mano gigante, che provai a mordere. Lo sentii gemere da dolore, senza però mollare la presa.
“Sta’ ferma, Rottwailer”, mi ammonì. I suoi amici ridacchiarono, seguendoci verso il buio della spiaggia.
È così che succedono queste cose, quindi? Un momento ti stai divertendo con i tuoi amici, e l’altro ti ritrovi catturata da un branco di viscidi di cui non puoi nemmeno immaginare quali possano essere le intenzioni.
È così che deve andare, pensai, ad una come me?
Mi scese una lacrima dalla disperazione, che non sembrò addolcire il gruppo. Con lo sguardo, continuai a cercare nel buio le sagome dei miei amici.
Era finita.
Ero finita.
Chiusi gli occhi nel momento in cui lo sentii toccarmi troppo il vestito, per poi fermarsi.
Cadde a terra dolorante.
Aprii gli occhi solo quando iniziai a sentire anche i gemiti dei suoi compagni. Davanti a me, una sagoma scura in piedi. Ansimava, a pugni chiusi, guardando le sue vittime stese sulla sabbia senza sensi.
Rimasi pietrificata con il viso ancora bagnato di lacrime, guardando la sagoma davanti a me. indietreggiai con il sedere sulla sabbia quando si avvicinò, inchinandosi davanti il mio viso. Lo vidi illuminato dalla luce della luna, e mi si mozzò il respiro.
Era il ragazzo di quella mattina, della statua del Pescatore.
Da quella vicinanza riuscii a vedere tutti i suoi tratti: i suoi occhi color nocciola sembravano iniettati di rabbia e sangue. La sua mascella, ben definita, era contratta con forza. Mi guardava accigliato, con un riccio castano che gli cadeva sulla fronte, bagnato di sudore,  senza abbassare lo sguardo.
“V-vattene”, dissi, lanciandogli un pugno di sabbia in faccia. Scosse la testa, togliendosi qualche granello dagli occhi, rimanendo però accucciato di fronte a me. Sembrò seccato da quel mio gesto impulsivo.
“Stai bene?”
“Non lo so”, risposi con un filo di voce. Mi prese il polso, rigirandoselo e studiandoselo in ogni angolo per vedere che non mi fossi fatta niente.
“Quei bastardi...” sibilò, notando dei lividi sparsi sul mio braccio. Girò lo sguardo verso i loro corpi ancora senza sensi, lanciandogli uno sputo. Si rigirò verso di me, non osando abbassare lo sguardo verso le mie gambe scoperte.
“Dove sono i tuoi amici”
“Non lo so”, risposi di nuovo io. Abbozzò un sorriso, alzandosi. Emisi un grido quando mi tirò su in braccio, mentre si incamminava verso la pista illuminata dello chalet.
“Che è successo?” gridò il proprietario del locale vedendomi sconvolta.
"Dovresti stare più attento a chi ti entra nel locale, Giacomo.” Lo ammonì il ragazzo, sibilando a denti stretti.
Mentre passavamo per la calca di gente, mi aggrappai al suo petto, stringendo la tua t-shirt nera. Chiusi gli occhi, abbandonandomi al suo petto tonico che riuscivo a sentire da sotto la stoffa. Il battito del suo cuore era accelerato, probabilmente per l’adrenalina dell’incontro appena avuto. Il suo odore risultava familiare, sicuramente inebriante e calmante, quasi soporifero, e la stretta delle sue mani sotto le mie ginocchia mi faceva sentire al sicuro.
Si fermò una volta arrivato al primo parco giochi disponibile, facendomi sedere su una panchina. Prese la mia borsetta, sfilandomi fuori il cellulare. Iniziò a scrollare i numeri in rubrica, chiamando l’ultimo da cui avevo ricevuto sei chiamate senza risposta: Serena. Ero così ovattata da non riuscire a capire niente di quello che stava dicendo, ma dopo cinque minuti vennero Serena, Brando, Ciccio e Martina di corsa. Le loro espressioni erano così spaventate da rifarmi risalire su il magone.
“Olly! Cazzo, ma dove ti sei cacciata! Che è successo?” Urlò Serena, prendendomi il viso bagnato di lacrime tra le mani. Non riuscii a spiccicare una parola.
“Succede che la prima regola quando si esce in gruppo è di non lasciare nessuno da solo, specie una ragazza...” sibilò il ragazzo. Serena lo guardò in cagnesco.
“Non abbiamo lasciato solo nessuno. Eravamo un attimo andati in bagno e ci siamo persi di vista”. Il ragazzo non risponde, chiaramente non interessato a continuare la discussione. Brando si avvicinò, porgendomi una bottiglietta d’acqua per riprendermi.
“Bisogna chiamare la polizia” suggerì Andrea. Il ragazzo scosse la testa, “Figurati, quegli imbecilli verranno troppo tardi e quelli saranno già scappati. Lascia perdere, ce li ho bene in mente”. Andrea scrollò le spalle, portandosi una mano sui suoi capelli neri corvini.
“La riporto a casa”, esordì Serena, alzandomi dalla panchina per un braccio.
“Lascia stare, non facciamo altri danni”, la bloccò il ragazzo, “La riporto io a casa. Ditemi dove abita”
“Sei impazzito? – urlò Serena, facendomi esplodere la testa – la madre si spaventerà a morte!”
“Vorrei assicurarmi che arrivi a casa sana e salva, per favore”, sibilò lui. Serena indietreggio, verde dalla rabbia, a braccia conserte.
Io, dal canto mio, non riuscivo a pensare a tanto altro. Ciondolavo la testa da una parte all’altra, cercando di scostarmi di dosso l’odore di quell’animale. Continuavo a stringermi nel mio vestito marrone, come se potesse essere quello la colpa di tutto. Che stupida.
Il ragazzo mi porse la mano, e io l’afferrai subito, come un’ancora di salvataggio. Prese la mia borsetta e mi fece strada verso destra.
“Ti chiamo domani” mi disse Serena, prima di stamparmi un bacio sulla guancia. Annuii, salutando gli altri con un cenno.
I primi cento metri li percorremmo in silenzio, forse perché non avevamo nemmeno interesse a parlare. Di tanto in tanto lo sbirciavo, studiando i suoi lineamenti ed il movimento dei suoi occhi, come se potesse suggerirmi almeno un quarto di quello che stesse pensando in quel momento. Non riuscivo a capire niente. Eppure, mi ero sempre giudicata una capace di leggere le persone, una empatica. Con lui no, non riuscivo a decifrare né a leggere niente. Avevo però la sensazione che lui potesse leggere me, visto che si accorse che lo guardavo interrogativa.
“Dove abiti?” mi domandò, con un tono neutro e senza tralasciare nessuna emozione.
“La seconda casa a destra”, dissi indicando di fronte a noi. Mi bloccai di scatto.
“Che succede?” domandò, guardandomi da qualche metro più avanti.
“Non voglio farmi vedere da mia madre così. Rimango ancora un po’ qui per riprendermi e poi entro”. Il ragazzo scosse la testa,
“Non se ne parla, non rimani qui sola”. Rimanemmo immobili, circondati dal silenzio assordante delle tre del mattino. Sospirò, venendo verso di me e prendendomi la mano.
“Vieni con me”
“Dove?” Non mi rispose, trascinandomi qualche metro più lontano. Lo vidi estrarre dalla tasca dei suoi jeans neri attillati la chiave di un’auto. Quando premette il bottone, un’Audi lampeggiò. La macchina era nera, lucida e fin troppo elegante per un ragazzo della nostra età. Rimasi dubbiosa, ma non feci altre domande, anche perché non ne avevo la forza.
“Forza, Sali”
“Dove mi porti?”
“A casa mia”.
Avevo più di una ragione per scappare: la prima, è che avevo appena sventato un tentativo di stupro – e chissà cos’altro. Secondo, non lo conoscevo e, terzo, non sapevo nemmeno quale fosse il suo nome. Tuttavia, mi ispirava un senso di sicurezza che difficilmente avevo trovato in diciannove anni di vita.
Non sembrava cattivo. Sembrava arrabbiato.
Senza fiatare ulteriormente, salii in macchina, mettendomi la cintura di sicurezza.
“L’hai messa bene?” si assicurò lui, sporgendosi vicino a me per controllare. Annuii, stringendomi sul sedile in pelle.
“Bene”, disse prima di girare la chiave e schizzare con un rombo per il lungomare. Chiusi gli occhi per la paura. Penso che lui se ne accorse, perché lo sentii sogghignare.
“Come ti chiami”. Non era una domanda, ma un ordine.
“Olivia”, risposi ubbidendo.
“Non sei di qui”
“Sono di Roma. Vengo qui per l’estate”
“Roma. Ci avrei giurato” commentò lui, senza però dirmi come si chiamasse. Quella non era una conversazione, era un interrogatorio. Mi immaginavo davanti un tavolo di un commissariato con una lampada puntata addosso, con lui che mi girava intorno chiedendomi i dettagli più disparati della mia vita: quanti anni avessi, da dove provenissi, che scuola avessi fatto e quale fosse il mio hobby.
Guardai fuori dal finestrino, facendomi cullare dalle luci della città che illuminavano la distesa d’acqua del mare. Mi morsi il labbro, facendomi coraggio.
“E te? Come ti chiami”. Il ragazzo esitò, guardando lo specchietto retrovisore accigliato, mettendo la freccia a destra.
“Carlo”
“Quanti anni hai?” Carlo accennò un sorriso, facendo spuntare una fossetta ai lati delle labbra.
“Quanti me ne daresti te?”
“Uhm, forse venti?” Scosse la testa, rallentando la corsa,
“Ventidue”
“Oh, io diciannove” lo informai, come se gli interessasse sul serio. Fermò la macchina e uscimmo. Mi guardai intorno: non ci trovavamo tanto lontano da casa, ma sicuramente stavamo verso la campagna. Un piacevole venticello mi fece riprendere, e mi voltai per vedere dove stesse andando Carlo.
Una volta arrivati a destinazione, uscii dalla macchina e mi guardai intorno. Riconobbi la zona, verso il borgo antico della città, e mi tranquillizzai. Carlo tirò fuori la chiave dalla tasca dei suoi jeans, inserendola nella toppa della porta, facendola aprire con uno scatto. Entrai, rimanendo sull’attenti.
La casa, indipendente, non era molto grande: un salone con la televisione, un piano cottura con un’isola e gli sgabelli per mangiarci, una credenza. Accanto, si proseguiva avanti per le due camere e il bagno.
“Tu puoi dormire in quella camera”, disse indicandomela. “Quell’altra è la mia. Lì infondo il bagno. Ti consiglio di farti una doccia”, prese da un comò in camera sua un asciugamano ed un paio di suoi boxer con dei calzoncini e una maglietta.
“Puoi metterti questi”. Presi quello che mi aveva detto, dirigendomi in bagno. Mi guardai un attimo allo specchio, trovandomi ancora sotto shock. Non sarei potuta andare a casa in queste condizioni.
Il getto di acqua fredda mi fece rinvenire. Mi insaponai velocemente ed energicamente, sperando di poter togliere via le impronte digitali di quell’animale. Chiusi l’acqua tremolante, coprendomi velocemente con l’asciugamano che mi aveva dato Carlo. Mi vestii velocemente, e sgattaiolai nella mia camera con i capelli ancora zuppi. Prima di infilarmi a letto, bussai alla sua porta.
Sentii i suoi passi farsi sempre più vicini, aprendo di scatto.
“Che c’è?”
“Io...ti volevo solo dire buonanotte. E grazie, soprattutto”. Carlo scrollò le spalle, facendo muovere i suoi ricci.
“Di niente. Tra due ore e mezza ti sveglio, che sono le sei, e ti riporto a casa. Notte”.  Chiuse la porta con me davanti immobile. Rimasi a bocca aperta, coricandomi sul letto.
Era arrabbiato, forse?
Non di certo con me.
E perché allora si prodigava tanto ad aiutarmi, se gli stavo dando così fastidio?
Quelle due ore e mezza non le passai dormendo, non ci riuscii.
Presi il telefono e scrissi a Serena.
Tutto ok. Sto da lui. domani mattina mi riporta a casa. Sembra buono.
Ci vollero solo dieci secondi per ottenere una risposta.
Sembra un coglione.
Abbozzai un sorriso, posando il cellulare sul comodino. Mi accigliai quando intruppai contro una scatoletta. Quando mi resi conto che si trattasse di un pacco di preservativi, feci una smorfia. Avrei dovuto immaginarlo.
 
 
  
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